carla capponi – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Sat, 27 Sep 2014 15:10:10 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.2 La memoria non va in cenere http://anpimirano.it/2014/la-memoria-non-va-in-cenere/ Sat, 27 Sep 2014 15:04:56 +0000 http://anpimirano.it/?p=6110 Leggi tutto "La memoria non va in cenere"]]> indexRosario Bentivegna, medaglia d’argento al Valor Militare e comandante partigiano del Gruppo d’Azione Patriottica “Carlo Pisacane” di Roma non avrebbe voluto essere sepolto in alcun cimitero. Lo lasciò scritto nelle sue «Disposizioni in caso di mia morte» conservate ancora oggi da Patrizia Toraldo di Francia, sua compagna di vita per 38 anni. Alle persone che «mi hanno amato e che ho amato» lasciò scritto «Non mettetemi dietro una lapide». Tanto meno avrebbe pensato ad un monumento o una targa celebrativa, lui che fulminava con lo sguardo chiunque lo chiamasse “eroe”. «Io credo solo -ripeteva quasi pedagogicamente- che in alcuni momenti della storia si verificano condizioni per cui ci sono persone giuste al posto giusto». Ha sempre sentito Roma sulla pelle ed ha amato visceralmente la sua città. La dispersione delle sue ceneri nel Tevere non gli sarebbe affatto dispiaciuta.
Tuttavia la vicenda della sua «mancata sepoltura», e di quella della medaglia d’oro Carla Capponi, interroga di nuovo l’inquieto rapporto tra la città ed i suoi figli partigiani. Un passato prossimo che, fatta salva la retorica d’ufficio delle celebrazioni ufficiali, mantiene a distanza di settantanni tutto il suo carattere di irrequieto ingombro non tanto dinanzi alla storia, che ha già emesso il suo assiomatico giudizio sul valore dei partigiani, quanto di fronte ad una società civile e ad una sfera pubblica refrattarie alle scelte di campo valoriali e permanentemente protese ad alimentare la damnatio memoriae di quegli eventi della guerra partigiana che, segnando una linea di faglia in grado di definire un prima e un dopo, avrebbero dovuto impedire il perpetrarsi di persistenze conservative, continuità istituzionali e autoassoluzioni collettive dopo il fascismo.
In questo senso l’esempio del vissuto resiliente dei gappisti, che dal terrore dell’occupazione nazista seppero trarre il coraggio della lotta di Liberazione, sembra rappresentare ancora oggi un elemento eterodosso della storia recente di Roma, non assimilato, quando non addirittura contestato, nella sua legittimità da parti marginali ma non non esigue della città. Di ciò che stiamo facendo non dovremmo parlare con alcuno né oggi, né domani né dopodomani». Quando Mario Fiorentini, comandante del Gap “Antonio Gramsci”, indicava ai suoi compagni le regole essenziali della lotta armata faceva certamente riferimento alle norme di compartimentazione e segretezza necessarie alla rete clandestina del Pci ma allo stesso tempo cercava di sollecitare il pudore delle coscienze in quei giovanissimi combattenti che nonostante la nobile scelta compiuta non avrebbero dovuto mai dimenticare il peso umano di quelle azioni alle quali avrebbe reso ragione soltanto la straordinarietà del tempo della storia all’epoca della seconda guerra mondiale.                                                                                                                 Lucia Ottobrini, medaglia d’argento dei Gap romani, oggi quasi si ritrae, seppur con tutta la delicata grazia dei suoi modi, di fronte alla necessità di ricordare un’esperienza tanto dura quanto straordinaria per lei cattolica e comunista. Per i componenti dei Gap, donne e uomini che potevano restare mesi senza parlare con nessuno ed attaccare militarmente da soli soldati tedeschi e collaborazionisti fascisti, il peso della solitudine e l’unicità di quel vissuto furono resi sopportabili solo dalla convinzione assoluta della giustezza di quella scelta di vita. Alla nuova repubblica democratica sarebbe poi spettato il compito storico di «fondarsi sulla Resistenza» ovvero non celebrare in stile marziale le vicende di guerra o i loro protagonisti ma esaltare i valori universali che quelle azioni partigiane avevano significato e per cui erano state compiute.                                      I gappisti però, fin dall’immediato dopoguerra rappresentarono il convitato di pietra della riappacificazione nazionale fondata sulla rimozione del passato. Per questo hanno sempre pagato un prezzo. Il primo processo della Roma liberata del 1944 venne celebrato dagli Alleati contro Bentivegna, poi assolto, per il caso Barbarisi mentre già durante il processo Kappler del 1948 i Gap, e finanche il vertice della Giunta militare di Roma Amendola-Bauer-Pertini, furono accusati come fossero loro, e non i nazisti, i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Calunniati dalla stampa neofascista e da molti «maestri del giornalismo», si difesero ottenendo sempre smentite ufficiali, scuse pubbliche e risarcimenti. Nel 1964 furono inseriti nelle liste golpiste del «Piano Solo» di De Lorenzo che disponeva la loro deportazione nei campi di Gladio a Capo Marrargiu.     Negli anni ’70 molti subirono minacce di attentati da parte di gruppi dell’estrema destra, mentre a metà anni ’90, quando solo i tumulti davanti al tribunale militare impedirono a Priebke di tornare libero in Argentina, si trovarono ancora accusati della responsabilità dell’eccidio del 24 marzo 1944. Ad una giornalista francese che gli chiedeva quale fosse il suo giudizio finale tra il dato ed il ricevuto dall’esperienza partigiana Bentivegna rispose: «È una domanda difficile. Perché mi ha tolto molto spazio ma mi ha dato l’orgoglio del dovere fatto in fondo anche a costo della vita. Perché la vita non è solo quella che si può perdere in battaglia». Quella dei Gap è una storia che «divide». Separa la libertà dalla dittatura; il progresso dalla reazione; la modernità dall’oscurantismo.

Per scegliere da che parte stare non servono lapidi.

Davide Conti, Il Manifesto del 27 settembre 2014

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24 marzo 1944: strage delle Fosse Ardeatine http://anpimirano.it/2013/24-marzo-1944-strage-dell-fosse-ardeatine/ Sat, 23 Mar 2013 08:15:37 +0000 http://anpimirano.it/?p=3322 Leggi tutto "24 marzo 1944: strage delle Fosse Ardeatine"]]> Era il 24 marzo 1944 quando i nazisti decisero, come rappresaglia nei confronti di un attacco partigiano avvenuto il 23 marzo contro le truppe d’occupazione tedesche in Via Rasella, a Roma, di rastrellare 355 persone tra civili e militari dalle carceri romane. L’intento dei militari nazisti fu chiaro sin da subito, individuare delle persone da massacrare per vendicare i 32 tedeschi uccisi dai partigiani romani. Il generale in carica nella piazza di Roma era Kurtz Maeltzer, il quale, si racconta, rimase particolarmente colpito dall’attentato compiuto dai partigiani della GAP (Gruppo di Azione Patriottica) di Roma.
Per questo motivo i nazisti, che già si erano resi protagonisti di stragi efferate in diverse località italiane, decisero di vendicarsi uccidendo 10 italiani per ogni tedesco ucciso. Da qui la decisione di rastrellare 355 persone (la notte successiva morì un altro tedesco e si decise di aggiungere altri 10 italiani alla lista), tra le quali si trovavano anche membri del personale sanitario, infermi, feriti e malati. Una vera e propria rappresaglia, vietata peraltro dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Come se non  bastasse i nazisti non compirono alcuna indagine per appurare l’identità dei responsabili dell’attacco di Via Rasella, nè attesero le consuete 24 ore per verificare se gli autori dell’attentato si sarebbero consegnati alle autorità naziste. Inizialmente vennero scelti partigiani o persone colluse o compromesse con l’antifascismo, ma poi, non essendo stata raggiunta la cifra prefissa, i nazisti avrebbero chiesto al questore fascista Caruso (poi fucilato dai Tribunali antifascisti al termine della guerra) di rastrellare altre cinquanta persone tra i detenuti non politici. Un crimine terribile, consumato nelle tristemente note Fosse Ardeatine da Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS, e già responsabile del rastrellamento del ghetto di Roma. Una strage orrenda, forse la peggiore mai consumata in Italia.
I responsabili dell’eccidio, Kappler, Priebke e Kesserling, furono tutti e tre condannati (i primi due all’ergastolo, il terzo alla pena di morte), ma per un motivo o per l’altro nessuno di loro scontò integralmente la pena. Kappler dopo qualche anno nel carcere militare di Roma riuscì a sfuggire in Germania, Priebke fu arrestato dopo una lunga latitanza in Argentina, e Kesserling dopo pochi anni di carcere si riunì ai neonazisti bavaresi, trovando la morte solo per un attacco cardiaco, nel 1960.

Scrive Carla Capponi, che aveva partecipato a quell’azione in via Rasella, nel suo libro “Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”:
“Per noi quell’ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L’annuncio “questo ordine è già stato eseguito” con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto “La sentenza è già stata eseguita”, perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.
Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano fare intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c’erano gli “ordini” del comando nazista, il “Deutschland über alles”, della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c’era bisogno né di tribunale né di sentenze.
Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L’eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.
Volevano nascondere un altro crimine, l’avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all’eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell’ “errore” si rese conto Priebke mentre svolgeva l’incarico di “spuntare” le vittime prima dell’esecuzione, rilevandole da un elenco all’ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l’esecuzione e l’occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage”.

Nel libro “La farfalla impazzita”  Giulia Spizzichino, scrive:
“Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c’era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l’attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c’era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte.
Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati, a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l’entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro.
Quando l’odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c’è che l’opera dell’amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso – i documenti erano stati loro sottratti – riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti.
Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all’appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine!
Ricordo che c’erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c’erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino  Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore …”

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