6 agosto 1945 – 9 agosto 1945: Hiroshima e Nagasaki

L’Anpi di Mirano ricorda il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, crimine contro l’umanità, avvenuto il 6 e 9 agosto 1945 e invita tutti i cittadini ad essere presenti, venerdì 9 agosto alle ore 11, presso la sede municipale in piazza Martiri a Mirano, alla commemorazione di questa tragedia che ha colpito non solo il popolo giapponese ma tutto il genere umano e gli esseri viventi.

Alla cerimonia sarà presente la sindaca Maria Rosa  Pavanello.

Il Centro Pace  e la Rete degli Studenti Medi del comune di Mirano aderisce e fa propria questa iniziativa.

Agli scettici, agli agnostici, a tutti coloro che: ”ci si sporca le mani ad essere partecipi delle cose del mondo” diciamo: “al nostro posto abbiamo collocato altri, anzi pochi altri, questi, attraverso un uso sofisticato delle immagini e delle parole, stanno imprimendo alla vita del mondo un corso da loro voluto, un corso da cui dipende l’essere e il non essere dell’umanità.” (Gunther Anders)

E non dite che non lo sapevate

 

Come da qualche anno a questa parte, la Città di Busto Arsizio commemora l’anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, dove nel 1945 vennero sganciate le bombe atomiche che provocarono decine di migliaia di morti.
Alle 11.30 di martedì 6 agosto, anniversario del lancio della prima bomba su Hiroshima, il Tempio civico Sant’Anna ospiterà un momento di riflessione: l’iniziativa, che raccoglie l’insegnamento del cittadino benemerito Angioletto Castiglioni, è promossa dall’Amministrazione comunale, dal Comitato Amici del Tempio Civico, e dalla sezione varesina di JCI (Junior Chamber International).
Nel 2009 la Città è stata tra le prime in Italia a promuovere, grazie ad Angioletto Castiglioni, al Comitato e alla Jci, il ricordo della tragedia nucleare. Un impegno nato dalla visita al Tempio Civico e alla Città effettuata nel 2008 da Kentaro Harada, nel 2011 presidente internazionale della JCI, originario della Prefettura di Hiroshima.
Questa collaborazione ha portato a molteplici iniziative, tra cui seminari per l’educazione degli studenti alla pace e l’adesione della Città di Busto Arsizio alla rete internazionale dei Mayors for Peace, un’organizzazione non governativa fondata dalle città di Hiroshima e di Nagasaki con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari.
Un’altra iniziativa è quella dei “Beati i costruttori di pace” che dal 6 al 9 agosto, i giorni di Hiroshima e Nagasaki, organizza un percorso con gli Amici della bicicletta per sensibilizzare le popolazioni e coinvolgere gli amministratori delle Comunità locali, promuovendo anch’essa l’adesione all’ associazione mondiale Mayors for Peace. Il percorso inizia a Cormons il 5 agosto e si conclude il 9 ad Aviano, l’aereoporto militare americano dove c’è uno dei depositi degli ordigni nucleari in Italia,  con la cerimonia di commemorazione di Nagasaki alla quale tutti sono invitati a partecipare.

Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
Sono di Hiroshima
e là sono morta
tanti anni fa.Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi anche il vento ha disperso la cenere.
Apritemi, vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso,
non chiedo neanche lo zucchero, io,
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.

Nâzım Hikmet (Poesie, Editori Riuniti)

Lo storico Luciano Canfora: “Uguaglianza davanti alla legge? È diventata roba da comunisti”

Con le parole costruisci un sogno, un mondo nuovo o solo un fraintendimento. Le parole possono essere piallate, manipolate, riempite d’aria come quei palloncini che s’innalzano al cielo. Le parole sono alberi dritti che puoi far divenire storti. E trasformare in nero ciò che è bianco. La filologia è la compagna di vita di Luciano Canfora, storico dell’età antica e saggista.

C’è il potere e c’è la manipolazione.
È del tutto evidente. Il linguaggio politico è dichiaratamente artefatto. Promuove l’inganno, lo pianifica.
Sa in che menti deve essere somministrata la dose quotidiana di manipolazione.
Nel dopoguerra era ricorrente la divisione del mondo in due parti: qui i liberi, lì gli schiavi. Tra gli eroi della libertà, del mondo libero, erano ricompresi i razzisti del-l’Alabama, Francisco Franco, i torturatori francesi.
Difendevano la libertà contro il comunismo. Berlusconi è sceso in campo proprio con questo intento.
Naturalmente lui non ci crede assolutamente. Avendo però avuto percezione che la bubbola funzionava ha proseguito con l’inganno.
Comunisti i comunisti, e comunisti un po’ tutti gli altri.
Fino al punto parossistico di ripeterlo davanti a Enrico Letta che, poverino…
Comunisti i magistrati.
Dal suo punto di vista è comprensibile. L’applicazione del principio della legge uguale per tutti è all’evidenza un processo comunista. E quindi, correlata, la proposizione: bisogna respingere la sentenza per difendere la democrazia.
Altri parlamentari si sono spinti più in là.
Ho sentito Cicchitto e mi pare Lupi conseguentemente affermare che l’unico rimedio per riportare la democrazia è cassare la Cassazione. C’è una logica, in qualche misura.
Ci sarebbe il popolo da rispettare
Mah. Votare non ha più peso, non ha più senso. Il potere politico prende ordini da quello economico che si trova altrove, a Bruxelles o Francoforte. Il Parlamento è degradato a un organo tecnico. Certo, può liberamente dibattere sulla legge animalista. Anti e pro, fatevi sotto e discutete.
Io voto ma tu fai come ti pare.
Direi meglio: quando la legge elettorale falsifica così dichiaratamente i rapporti in campo ecco che la rappresentanza politica perde ogni legittimazione. C’è una ragione per cui il Pd non riesce a dar corso alla forza parlamentare che detiene. Ha la maggioranza assoluta dei deputati frutto di una disponibilità in voti inferiore, e di molto, al trenta per cento degli elettori.
La politica è dunque inganno?
Nel poker c’è l’azzardo, il bluff. Il paragone non è irriverente.
Si dice sempre: siamo nel pieno di una democrazia incompiuta.
E si dice un’ovvietà, una sciocchezza. La democrazia è incompiuta per definizione.
E che la nostra sia una democrazia anomala.
Sarebbe anomala se altrove il diritto fosse totalmente rispettato. Lei crede che in Grecia il diritto di quel popolo sia rispettato? Hanno chiuso in due ore la televisione pubblica solo perché dava fastidio al governo di Samaras. Nessuno ha fiatato, e neanche i giornali italiani, neanche il suo, ha approfondito questa monumentale ingiustizia.
Ma sarà pur vero che Berlusconi, e il potere che ha dettato, rende singolare e unica la vicenda italiana.
Non c’è alcun dubbio.
E non c’è dubbio che il declino morale della classe dirigente italiana abbia avuto un peso anche nel linguaggio.
Cavour parlava di connubio, descrivendo la necessità di trovare un’adesione tra diversi. Oggi si parla di inciucio.
Espressione dialettale napoletana con cui si intende per la verità il pettegolezzo minuto, il vicolo che mormora.
I due termini misurano la differenza di valore culturale tra le classi dirigenti di ieri e di oggi. Non è un caso che ciclicamente si chiamano al governo i professori.
Sì, i professori sono diventati come la Misericordia. Compagnia di protezione civile.
La Rai dei professori, ricorda? In quella convocazione l’idea di portare alla guida persone migliori di quelle elette per guidare il Paese.
Mettiamo in circolazione persone migliori di noi.
E qui il professor Monti.
Poi l’abbiamo cacciato. Abbiamo idee confuse come le parole che utilizziamo.
Assolutamente sì. Prenda gli inviti alla coesione del presidente della Repubblica. Si invita alla coesione, dunque alla ricerca del punto comune, un sistema formalmente bipolare, dunque estraneo al punto comune.
Amiamo l’uno e il suo opposto.
Vorremmo essere bipolaristi e insieme però coesi.
Hanno capito che siamo tele-elettori e usano le parole a casaccio, un po’ come capita.
Ci sono bubbole indicibili, alcune volte è veramente troppo. (Intervista di Antonello Caporale da “Il Fatto”)

3 agosto 1944: strage della famiglia Einstein

In località “Le Corti”, risiede, nella tenuta “Il Focardo”, di sua proprietà, l’Ing. Roberto Einstein, cugino di Albert Einstein, il grande fisico americano, assieme alla moglie ed a due figlie. Gli Einstein sono Ebrei e le due figlie, in seguito alle leggi razziali sono state escluse dagli studi. Luce, la maggiore, dall’Università, Cici, la minore, dalle Scuole Medie. Il fattore ed i contadini sono affezionati agli Einstein e li proteggono. Gran parte della Villa è stata requisita dal comando germanico e c’è sempre un via-vai di ufficiali nazisti, che-però -non danno alcuna molestia né minacciano la vita di quelle persone perseguitate dal fascismo. Ai primi di agosto 1944 nella zona si verifica la ritirata delle forze armate del 30 reich, tallonate dalle armate anglo-arnericane. L’Ing. Einstein, per le insistenze del Fattore e dei contadini, si ritira nel folto del bosco per sfuggire a possibili pericoli della soldataglia abbrutita in fuga. Nel tardo pomeriggio del 3 agosto 1944 giunge al “Focardo” una pattuglia di SS che vuole riposare e pretende di avere vitto e vino. Poi, alle ore 20.00 quei soldati criminali catturano la Signora Einstein e le due figlie, che si trovano in una cantina con un gruppo di contadine e trascinano le tre sventurate nella Villa. Nell’interno dell’immobile, certamente si svolge un pressante interrogatorio. Quei criminali vogliono ad ogni costo catturare Robert Einstein, già cittadino germanico, fuggito in tempo dalla Patria, per trovare rifugio in Italia. Ad un tratto la Signora Einstein, accompagnata da due aguzzini, esce dalla Villa e gira per i campi, chiamando a gran voce il marito. Ma i contadini ed il Fattore riescono a tenerlo in salvo tra loro ed i nazisti riportano la povera donna nella Villa, poiché i tentativi di catturare l’Ingegnere con i suoi ripetuti richiami si sono dimostrati inutili. Poi, d’improvviso, la quiete notturna è scossa da raffiche di mitraglia e subito dopo, dalla zona in cui si erge la villa si alzano alte fiamme. Sono le prime ore del 4 agosto 1944 …Le SS hanno assassinato le tre donne. Sembra che esse siano state violentate prima di venire uccise e, quindi, la villa è stata data alle fiamme. Undici mesi dopo, sull’unica tomba, racchiudente le tre salme straziate dal piombo e intaccate dall’incendio, l’Ing. Robert Einstein si toglierà la vita. (da http://almanaccoresistente.wordpress.com)
http://it.wikipedia.org/wiki/Strage_della_famiglia_Einstein

3 agosto 1943: il paese di Mascalucia si libera dai tedeschi

Francesco Wagner uno dei caduti

Il giorno 3 agosto, l’enorme risentimento contro la guerra e il disprezzo verso i tedeschi accumulato dal popolo siciliano  esplose in due paesini alle falde dell’Etna, a pochi Chilometri da Catania.
Per prima “ esplose” Mascalucia, dove stazionavano circa 2000 soldati tedeschi. Nel paese era presente un nucleo di sodati italiani, addetti alle fotoelettriche.
Soldati tedeschi, dopo avere sottratto la motocicletta ad un miliare italiano portaordini e il fallito tentativo di rubare  i quattro cavalli del carrettiere Bonaccorso, tentarono di rapinare i cavalli ad una famiglia catanese (Amato) – sfollata nel paese -;  spararono, provocando un morto ed un ferito. In un altro punto del paese, in un casolare, un tedesco ubriaco sparò, uccidendo il soldato Giuseppe La Marra. Successivamente i tedeschi  uccisero un altro soldato italiano, Francesco Wagner, ventiduenne mantovano.
I componenti della famiglia Amato – di mestiere, armieri, avevano un deposito nel paese  – risposero con le armi. Fu il “segnale” dell’inizio della resistenza popolare.
In breve molti cittadini armati di fucili e pistole ( distribuiti dalla famiglia Amato, prelevate dal proprio deposito di armieri) scesero per le strade, sparando ai soldati tedeschi. Molti colpi furono tirati dalle  terrazze delle case e dal campanile della chiesa principale del paese. Ai cittadini si affiancarono i soldati italiani, i carabinieri e i Vigili del fuoco, sfollati da Catania. I soldati portarono altre armi e bombe a mano.
La sparatoria durò circa quattro ore. Armi di vario tipo, munizioni e camionette furono catturate ai tedeschi.
I tedeschi, dopo avere lasciato diversi caduti – quattordici, raccontano le cronache dell’epoca, vari cadaveri non furono mai ritrovati -, si ritirarono dal paese.  Rimasero uccisi un cittadino del paese e due soldati italiani  tra i tanti che si erano schierati con gli abitanti.
Il 17 agosto del 2007, davanti il Palazzo di Città,  una lapide è stata inaugurata per commemorare la resistenza dei coraggiosi abitanti di Mascalucia ai nazisti.
Durante la stessa giornata , a pochi chilometri di distanza, a Pedara, dopo che un contadino aveva ucciso, a colpi di pietre,  un soldato tedesco – un altro rimane ferito – in difesa del  proprio mulo preda del razziatore, scoppia la rabbia popolare. Parecchi giovani si armano ( oltre ai fucili personali altre armi furono date dai carabinieri), dislocandosi tra le vie del paese. I tedeschi, ricevuti rinforzi, occuparono il paese, iniziando un vero e proprio rastrellamento. Arrestarono 13 cittadini, portati successivamente in una località montana di Zafferana nell’albergo “Airone”, requisito dai tedeschi. Furono lasciati liberi il 10 agosto, quando i tedeschi furono costretti ad abbandonare quelle posizioni.
Ormai i soldati tedeschi, incalzati dalle truppe Alleate, sono allo sbando. Lasciano Zafferana, liberata definitivamente l’8 agosto. Il giorno prima la liberazione aveva toccato Mascalucia. (da http://anpicatania.wordpress.com)

http://www3.comunemascalucia.it/index.php/component/content/article/1-ultime-notizie/728-mascalucia-il-3-agosto-del-1943-fu-il-primo-a-far-respirare-aria-di-liberta-ai-suoi-cittadini.html

2 Agosto: “Il mio urlo su quella barella oggi serve per non dimenticare”

«Ai ragazzi delle scuole dico sempre: ottantacinque morti e duecento feriti non sono un mantra da recitare all’anniversario. Dietro ci sono storie, vite perdute, famiglie distrutte. Domandate, informatevi, cercate e fatevi voi un’opinione».
Marina Gamberini è la ragazza della foto simbolo di quel giorno maledetto in Stazione, trasportata su una barella mentre urla il suo sgomento. Solo pochi minuti prima era con le colleghe della Cigar nell’ufficio che stava proprio al piano sopra la sala d’aspetto di seconda classe. Un bell’ambiente, ragazze tutte giovani, complici, che nelle pause pranzo gironzolavano in stazione con le loro divise. «Ci sentivamo delle hostess, conosciute da tutti, il caffè e una passeggiata sul primo binario, così per staccare un po’ dall’ufficio. E’ un ricordo ancora bellissimo».
Dopo le lunghe cure in ospedale, furono mesi, e anni, difficili. Covando la voglia irreale di potersi sostituire alle amiche perdute. «Volevo andare ad abitare nella casa di una di loro, comprare i mobili che lei aveva scelto e mi aveva fatto vedere». Poi, finalmente, di nuovo un lavoro: in Comune, insieme ad una vita quasi normale. Adesso, uscita da una convalescenza, c’è di nuovo l’impegno. Della sua vita da sopravvissuta, Marina vuole fare un modo per continuare a cercare il perché di quella strage: lo fa andando nelle classi. Ed è difficile, dice: ogni volta è un dolore che riemerge, ma lei adesso si sente forte, batte la fatica. E allora racconta di lei, delle colleghe, ma vuole andare oltre.
«Incontro ragazzi puliti, che non sanno nulla di quella storia. Ma è meglio così. Quante volte, anche adesso, in altri contesti sento che ci sopportano, passiamo per pesanti, e solo perché siamo ancora qui, con tenacia, a chiedere la verità, perché adesso ne conosciamo solo un pezzettino. I ragazzi no, invece: vedo che ci ascoltano, perché sono interessati davvero e non per obblighi d’ufficio. Vogliono capire e non hanno verità che ogni tanto qualcuno pretende di confezionare».
C’è un documentario adesso, che racconta di una mattina all’Itis Belluzzi, parlando coi ragazzi della IV B: Marina si tortura le mani, fa qualche pausa, prende il respiro. Ascolta, e racconta. «Sembra assurdo capire che di quel giorno si possa dire tutto e il contrario di tutto, la tristezza è questa. Tutti ne parlano, ma manca ancora la verità. Successe, ma perché?».
Anni di silenzio, per mascherare un dolore e un senso di colpa, per essere lei sola uscita viva da quell’ufficio di ragazze che svanì dentro un’esplosione. «Se sono qui ancora a parlarne, è anche per quietare quel sentimento che tra noi feriti è molto diffuso». Marina è nel comitato direttivo dell’Associazione familiari, ed è quasi una figlia per Lidia Secci, la moglie di Torquato che fu il primo presidente. «Quanti momenti anche di sconforto abbiamo passato in questi anni, delusioni atroci, come non bastasse già quello che avevamo passato. Quando annullarono la sentenza di primo grado del processo, quando il nostro avvocato di parte civile si schierò improvvisamente contro di noi. E, ancora oggi, ogni volta che sentiamo insinuare altre ipotesi. Per questo sosteniamo Paolo (Bolognesi, ndr) nella sua richiesta per avere il reato di depistaggio. Noi queste cose le abbiamo già vissute, è una cosa tremenda pensare che qualcuno apposta metta in piedi una falsità. Ma non si mette un punto interrogativo davanti a una sentenza».
Il sindaco Merola, accogliendo una proposta apparsa su “Repubblica”, da parte dell’associazione “Piantiamolamemoria”, ha promesso che presto sedici vie e piazze saranno dedicate alle vittime bolognesi della strage alla Stazione. «Ben venga. Abbiamo bisogno di tutto, se serve per capire e ricordare che dietro a quelle lettere di metallo che compongono i nomi sulle lapidi, c’erano delle vite, una storia. A Katia (Bertasi, ndr) hanno dedicato un centro sociale». Marina sarà venerdì in piazza, accompagna sempre Bolognesi fin sotto il palco, poi si allontana. «Nella sala d’aspetto faccio ancora fatica ad entrarci, ho paura di non controllare i nervi, e preferisco così. Ma a volte penso che non dovrei avere pudore».
Invece non ha più paura, e se la ha, la vince. E vuole continuare ad andare nelle scuole. «A volte mi viene un frizzo di ottimismo. E se qualcuno un giorno raccontasse quale era il disegno? Se da un’indagine esce qualcosa che spieghi chi decise di fare quella strage? Ma non vorrei fosse un’illusione. Una speranza invece ce l’ho: goccina per goccina, nel passaparola tra i ragazzi che ascoltano e poi raccontano le nostre storie, vorrei che il 2 Agosto non resti una formuletta. “85 morti, 200 feriti”. E’ invece una storia, ancora senza il perché».  (di Luca Sancini da “Repubblica”)

Meno garanzie per la Carta solo per tenere in vita il governo

Non vedo nessuna ragione di derogare all’articolo 138, accelerando i tempi. Se non una, forse: mantenere in vita questo governo”. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, fa parte della commissione dei saggi che lavora, molto sotto traccia, a una proposta di riforma della Carta. Istituita nello scorso giugno, è composta da 34 tra giuristi ed esperti di discipline politiche ed economiche. Settimane fa la commissione ha perso Lorenza Carlassare, dimessasi per protesta contro la sospensione del-l’attività parlamentare voluta dal Pdl (e accettata dal Pd) come ritorsione per la fissazione in calendario della sentenza Mediaset. Ultimati i lavori, a ottobre i saggi consegneranno le loro relazioni sulla riforma, che verranno poi inoltrate al comitato dei 42: i parlamentari a cui il ddl costituzionale affida il compito di riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Costituzione.

Professoressa, partiamo dallo stravolgimento dell’articolo 138. Che ne pensa e cosa ne pensano gli altri saggi?

La commissione non se ne è mai occupata, perché non rientra nel suo ambito di intervento. Non parlo per gli altri, e dico la mia opinione da cittadina: non c’è nessun motivo di modificarlo. Se non uno: prolungare la vita di questo governo, legandola alla riforma costituzionale. Finché questo processo è in corso, il treno va.

Molti costituzionalisti sono contrari alla deroga: definiscono questa norma come “la valvola di sicurezza” della Carta.

Sono assolutamente d’accordo: il 138 è la clausola di salvaguardia, perché regola tempi e modi delle modifiche alla Costituzione. Ridurre l’intervallo tra le due deliberazioni delle Camere sulle leggi costituzionali (da tre mesi a 45 giorni, ndr) è sicuramente un passo che comporta dei rischi. Non c’è nessuna emergenza che lo giustifichi.

Veniamo alla commissione dei saggi. Sul vostro lavoro circolano pochissime informazioni. Sembra quasi che lavoriate in modo carbonaro.

Proprio per rimediare, nei giorni scorsi ho proposto e ottenuto che i resoconti delle nostre riunioni venissero pubblicate su Internet (sul sito rifor  mecostituzionali.gov.it  ). Ci deve essere trasparenza su quello di cui discutiamo.

Alcuni, tra cui i Cinque Stelle, avevano proposto la diretta streaming dei lavori.

Sono contraria. Con la diretta tv tutti rimarrebbero troppo influenzati. Nessuno parlerebbe in modo sincero, perché penserebbe ai possibili effetti sul pubblico.

Di cosa state discutendo?

Gli argomenti sono quattro: bicameralismo, Titolo V (Regioni, Province, Comuni, ndr), forma di governo e legge elettorale.

È vero che lavorate a una riforma presidenzialista?

Stiamo discutendo con ampia diversità di opinioni. Vi sono posizioni semipresidenzialiste e altre che vogliono il rafforzamento e la razionalizzazione del Parlamento.

Lei è contraria al semipresidenzialismo?

Sì, perché ritengo rappresenti una forma di sfiducia verso la politica, come luogo di mediazione e rappresentanza delle diverse opinioni. Inoltre, nel semipresidenzialismo il potere esecutivo ha un peso eccessivo. Preciso anche un’altra cosa. Molti spingono per una riforma di questo tipo, sostenendo che dobbiamo armonizzarci con il resto d’Europa. Ma il semipresidenzialismo negli altri Paesi è l’eccezione, non la regola.

Ci sono punti su cui voi saggi concordate?

Molti di noi sono concordi sul-l’esigenza di passare da un bicameralismo perfetto, come quello attuale, a un sistema con un Senato delle autonomie. Due Camere con le stesse competenze esistono solo in Italia. Inoltre siamo d’accordo sulla necessità di ridurre il numero di parlamentari. Anche se su questo punto non bisogna esagerare.

Il ddl costituzionale prevede un comitato dei 42 che preparerà la riforma. Poi dovrà essere approvata dal Parlamento, ma con poche possibilità di intervento: per esempio, ci saranno grandi limiti agli emendamenti. Non teme una riforma blindata?

Sì, e per questo spero che venga dato ampio spazio al dibattito. La Costituzione è troppo importante per essere oggetto di tentativi di forzatura. (di Luca De Carolis da “Il Fatto” del 31 luglio 2013)

Salvatore Settis: Non hanno il diritto di cambiare la Costituzione

“Ho firmato l’appello del Fatto Quotidiano con grande convinzione perché ritengo che la Costituzione sia davvero in pericolo”. Salvatore Settis, studioso di fama internazionale e importante voce critica del nostro tempo, ha parole chiare e dure sulla vicenda.

Professore, che sta succedendo con il disegno di legge di modifica dell’articolo 138?

Sta avvenendo una forzatura. Questo è un governo di necessità e di scopo che doveva fare un certo piccolo numero di cose fra cui al primo posto c’era sempre stata la riforma di quell’orrenda legge elettorale che ci ritroviamo. Ora invece scopriamo che la prima cosa che deve fare è cambiare la Costituzione – e non è cosa secondaria, parliamo della forma dello Stato e di governo – mentre la riforma del porcellum , così chiamato non per caso, viene demandata alla stessa commissione come se fosse un pezzo della Costituzione. Non mi convince per nulla che questa modifica diventi una necessità immediata, addirittura da fare prima della legge elettorale. E l’intervista che ha dato la Gelmini (ieri su Repubblica, ndr) ci dice che siamo sotto scacco di un ricatto: il fatto che riforma costituzionale e quella elettorale stiano insieme dimostra che c’è tutta una manovra della destra per incidere profondamente sulla Costituzione, che Berlusconi definiva sovietica. Spero vivamente che il Pd rinsavisca in tempo.

I Padri costituenti, lungimiranti, pensarono al 138 in maniera articolata: in un suo intervento molto duro su Repubblica lei lo chiama frutto di “calibratissima ingegneria istituzionale”…

La Costituente vera, l’unica che abbiamo avuto nel 1946 e 1947, è tutt’altro rispetto alla Costituente finta, quella che si vuol fare adesso. Le due differenze principali sono che quella vera fu eletta per scrivere la Costituzione, aveva perciò uno scopo. Invece il Parlamento di oggi non è legittimato per esprimere una Costituzione, anche per il modo con cui non è stato eletto ma nominato col porcellum. Al lavoro della Costituente vera poi si affiancò una grande opera di alfabetizzazione costituzionale (c’era un ministero apposito, retto da Nenni sia col governo Pardi che con quello De Gaspari): c’erano trasmissioni quotidiane alla radio in cui si educava e si informava. Si trattava di coinvolgere nel progetto di scrittura della Costituzione più gente possibile. Ora si tratta invece di tenerlo il più nascosto e lontano possibile dall’opinione pubblica, magari promettendo improbabili sondaggi via web che sono tutt’altra cosa.

Qual era nel dopoguerra il livello di quella discussione?

Leggendo gli atti della Costituente – un testo meraviglioso che bisognerebbe antologizzare – si impara una cosa che oggi sembra quasi una favola: i deputati della Costituente studiavano! Andavano a fondo. Su proposta di Giorgio La Pira furono tradotte in italiano tutte le costituzioni del mondo. C’è un libretto prezioso che fu distribuito a tutti i costitutenti: quando affrontavano qualsiasi argomento, che fossero temi culturali o le modifiche costituzionali, avevano uno sguardo mondiale. In questo contesto si discusse se si poteva cambiare o meno la Costituzione.

Ed eccoci all’articolo 138.

Che è la procedura con il quale cambiarla. La Costituzione fu interpretata come rigida, che non è il contrario di flessibile, bensì di segmentata. Vuol dire che tutte le sue parti si tengono insieme. Un articolo non si può cambiare senza cambiare l’architettura dell’insieme. Appunto per questo c’è il 138, proprio per evitare che una maggioranza improvvisata o temporanea potesse modificare un articolo a sua immagine e somiglianza sfigurando l’intera architettura della Costituzione. La Carta può esser cambiata, ma con grande prudenza e largo consenso. Come ha detto il giurista Alessandro Pace, “è modificabile ma non derogabile”.

Nel dibattito di allora il democristiano Benvenuti disse che le modifiche non dovevano esser affrettate perché altrimenti potevano “recare la complicità del presidente della Repubblica”. Cosa voleva dire?

La preoccupazione era che un presidente fosse messo con le spalle al muro, costretto a firmare una modifica. Era una sorta di garanzia della figura suprema del presidente.

Vede analogie con oggi?

Esprimo la speranza che ci siano a Roma i custodi della Costituzione. Compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: spero che da una riflessione accurata su quello che sta accadendo possa ricavare la coscienza che la sua persuasione morale (se vogliamo dirlo in italiano e non col pessimo anglismo moral suasion) debba esser esercitata nella direzione di un rigorosissimo rispetto dell’articolo 138. (di Marco Filoni da “Il Fatto” del 30 luglio 2013)

“La Costituzione stravolta nel silenzio”. L’appello contro la riforma presidenziale

Pubblichiamo l’appello contro il ddl di riforma costituzionale firmato da Alessandro Pace, Alberto Lucarelli, Paolo Maddalena, Gianni Ferrara, Cesare Salvi, Massimo Villone, Silvio Gambino, Antonio Ingroia, Antonello Falomi, Domenico Gallo, Raffaele D’ Agata, Raniero La Valle, Beppe Giulietti e Mario Serio:

Ignorando il risultato del referendum popolare del 2006 che bocciò a grande maggioranza la proposta di mettere tutto il potere nelle mani di un “premier assoluto”, è ripartito un nuovo e ancor più pericoloso tentativo di stravolgere in senso presidenzialista la nostra forma di governo, posponendo a questa la indilazionabile modifica dell’attuale legge elettorale. In fretta e furia e nel pressoché unanime silenzio dei grandi mezzi d’informazione la Camera ha iniziato a esaminare il disegno di legge governativo, già approvato dal Senato, di revisione della Costituzione in plateale violazione della disciplina prevista dall’articolo 138, che costituisce la “valvola di sicurezza” pensata dai nostri Padri costituenti per impedire stravolgimenti della Costituzione.

Ci appelliamo a voi che avete il potere di decidere, perché il processo di revisione costituzionale in atto sia riportato nei binari della legalità costituzionale. Chiediamo che l’iter di discussione del disegno di legge costituzionale presentato dal governo Letta segua tempi e modi rispettosi del dettato costituzionale (…). Chiudere, a ridosso delle ferie estive, la prima lettura del disegno di legge, contrastando con le finalità dell’articolo 138 della Costituzione, impedisce un vero e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nel dibattito. In secondo luogo vi chiediamo di restituire al Parlamento e ai parlamentari il ruolo loro spettante nel processo di revisione della nostra Carta.

L’aver abbandonato la procedura normale di esame esplicitamente prevista dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame delle leggi costituzionali, l’aver attribuito al governo un potere emendativo privilegiato, la proibizione di porre le questioni pregiudiziali, sospensive o di non passaggio agli articoli, l’ impossibilità per i singoli parlamentari di sub-emendare le proposte del governo o del comitato, la proibizione per i parlamentari in dissenso con i propri gruppi di presentare propri emendamenti, le deroghe previste ai regolamenti di Camera e Senato, costituiscono altrettante scelte che umiliano e comprimono l’autonomia e la libertà dei parlamentari e quindi il ruolo e la funzione del Parlamento.

Le conseguenze di tali scelte si riveleranno in tutta la loro gravità allorché, una volta approvato questo disegno di legge, l’istituendo comitato per le riforme costituzionali porrà mano alla riforma delle strutture portanti della nostra organizzazione costituzionale (dal Parlamento al presidente della Repubblica, dal governo alle Regioni) sulla base delle norme che oggi la Camera sta approvando in flagrante violazione dell’art. 138. (…) Vi chiediamo ancora che le singole leggi costituzionali, omogenee nel loro contenuto, indichino con precisione le parti della Costituzione sottoposte a revisione. (…) Non si tratta, in definitiva, di un intervento di “manutenzione” ma di una riscrittura radicale della nostra Carta non consentita dalla Costituzione, che apre ampi spazi all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari.

Chiediamo, infine, che nell’esprimere il vostro voto in seconda lettura del provvedimento di modifica dell’articolo 138, consideriate che la maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti le Camere per evitare il referendum confermativo, in ragione di una legge elettorale che distorce gravemente e incostituzionalmente la rappresentanza popolare, non coincide con la realtà politica del corpo elettorale del nostro Paese. Rispettare questa realtà, vuol dire esprimere in Parlamento un voto che consenta l’indizione di un referendum confermativo sulla revisione dell’articolo 138. È in gioco il futuro della nostra democrazia. Assumetevi la responsabilità di garantirlo.

Per firmare: https://www.change.org/it/petizioni/costituzione-non-vogliamo-la-riforma-della-p2-firma-l-appello

Festeggiamenti per Priebke che compie 100 anni: l’appello dell’ANED fiorentina a tutti i Parlamentari eletti in Toscana

Illustrissima/o Senatore, Deputato,

abbiamo deciso di scrivere questa lettera per porVi all’attenzione un evento che riteniamo leda la Memoria  di quanti hanno perso la vita per mano della follia omicida dei nazisti.
Si tratta della festa di compleanno di Erich Priebke, ufficiale delle SS condannato all’ergastolo per aver pianificato la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Un nazista della prima ora che con incommensurabile orrore si è reso complice di 335 omicidi di innocenti, studenti, lavoratori, partigiani, ebrei, fucilandoli al buio delle antiche cave di pozzolana.
Priebke gode di grande stima da parte dei giovani neonazisti in quanto, a differenza di molti altri gerarchi nazisti, non si è mai pentito pubblicamente dei suoi crimini commessi contro l’umanità.
Priebke il prossimo 29 luglio compirà 100 anni ed è proprio di queste ore la notizia secondo cui il militare della SS stia organizzando una festa in suo onore.
Appare evidente che la nostra Associazione non possa impedire lo svolgimento di una festa privata ma con la presente chiediamo fermamente che alla cerimonia del criminale nazista non siano presenti rappresentanti delle Istituzioni italiane, come purtroppo, per simili eventi, è già avvenuto in passato.
Lo dobbiamo alla Memoria di centinaia di innocenti deportati, torturati ed uccisi negli ex lager nazifascisti che, nella maggior parte dei casi, non hanno avuto la possibilità neanche di festeggiare il loro 20esimo compleanno.
Per tutte queste ragioni, chiediamo a tutti i Senatori e Deputati eletti  nella nostra regione di:

1) Sottoscrivere pubblicamente questa nostra richiesta, inviandoci risposta di adesione via mail Aned Firenze  – [email protected] – e provvederemo ad aggiornare i nostri profili internet;

2) Sensibilizzare l’intero Parlamento affinché vi sia una presa di posizione comune ed univoca che imponga indispensabili limiti di decenza agli eventuali festeggiamenti.

Perché è compito dell’intero Parlamento tutelare la Memoria delle vittime delle stragi naziste.

In attesa di una Vostra risposta, Vi ringraziamo per l’attenzione e la disponibilità,

Aned Firenze

Aggiornamento del 26/7/13: i parlamentari toscani accolgono l’appello

24 luglio 1943: si riunisce il Gran Consiglio del fascismo

Il Gran consiglio del fascismo fu istituito il 15 dicembre del 1922, quale organo supremo del Partito Nazionale Fascista, e tenne la sua prima seduta il 12 gennaio 1923.
Divenne organo costituzionale del Regno con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, che lo qualificava come «organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922». Nell’ultima seduta, quella del 24 luglio 1943, fu sancita la caduta del governo Mussolini e il suo arresto. Dei 28 componenti del consiglio 19 votarono a favore, 8 furono contrari e ci fu un astenuto. I 19 che votarono a favore, dopo la liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi, furono condannati alla pena di morte come traditori (a parte Cianetti che ritrattò e venne condannato a 30 anni di prigione), ma solo 5 furono catturati e fucilati (Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi). Tutti gli altri componenti, a parte Farinacci e Buffarini Guidi, che furono fucilati dopo il 25 aprile, morirono tranquilli nel proprio letto, dopo essere stati riabilitati come persone qualunque e non tenendo conto dei loro incarichi ai massimi livelli della gerarchia fascista. Queste le loro storie dopo la guerra:

Dino Grandi: per la mozione del 25 luglio, Grandi fu condannato a morte in contumacia al processo di Verona, che si tenne nel territorio della Repubblica Sociale Italiana. Grandi, tuttavia, avendo presagito quanto stava per accadere già immediatamente dopo la caduta di Mussolini, riparò in Spagna già nell’agosto del 1943. Nello stesso anno si trasferì in Portogallo, ove visse sino al 1948. Negli anni cinquanta fu consulente assiduo delle autorità americane, in particolare dell’ambasciatrice a Roma, Clare Boothe Luce. Grandi servì spesso da intermediario in operazioni politiche ed industriali tra Italia e Stati Uniti. Si trasferì quindi in America Latina, ove visse soprattutto in Brasile, da dove rimpatriò negli anni sessanta per aprire una fattoria modello nella campagna di Modena. Morì a Bologna nel 1988 all’età di 93 anni.

Giuseppe Bottai: dopo la destituzione di Mussolini vive per alcuni mesi nascosto in un convento di Roma. Nel 1944 si arruola con il consenso delle autorità politiche francesi, sotto il nome di Andrea Battaglia, nella Legione straniera, dove rimarrà fino al 1948. Nel 1947 viene amnistiato per le imputazioni post-belliche connesse alla partecipazione avuta nella costituzione del regime fascista e che gli erano costate una condanna all’ergastolo, mentre la condanna a morte di Verona è divenuta ovviamente nulla con la dissoluzione della Repubblica Sociale Italiana. Tornato in Italia, nel 1953 fonda la rivista di critica politica ABC, di cui sarà direttore fino alla morte. Per un certo periodo, dirige dietro le quinte Il Popolo di Roma, un quotidiano finanziato da Vittorio Cini per fiancheggiare il centrismo. Muore a Roma il 9 gennaio 1959. Ai suoi affollati funerali a Roma sarà presente, tra le numerose autorità, il ministro della Pubblica Istruzione, allora in carica, Aldo Moro, amico di famiglia poiché il padre di questi, Renato, era stato tra i collaboratori di Bottai al ministero.

Luigi Federzoni: alla fine della guerra fu processato assieme a Bottai, Rossoni e Acerbo, unico presente, dall’Alta Corte di giustizia per il suo passato fascista e condannato all’ergastolo nel maggio 1945 (fu amnistiato nel dicembre 1947). Latitante, dopo esser stato nascosto nel Pontificio Collegio ucraino S. Giosafat a Roma, fuggì dall’Italia e tra il maggio 1946 e l’aprile 1948 visse sotto falso nome in America Latina. Nell’aprile 1948 poté rientrare in Portogallo, dove insegnò storia dell’umanesimo all’università di Coimbra e nel 1949 letteratura italiana all’università di Lisbona. Tornò in Italia definitivamente, dopo un viaggio nell’estate 1948, nel 1951 e si ristabilì a Roma con la famiglia. Impegnato nello studio della recente storia d’Italia (fece tra l’altro parte del Comitato di divulgazione storica dell’Unione monarchica italiana) e nella scrittura delle proprie memorie, il F. mantenne in questi anni uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione con Umberto di Savoia, sia durante la sua permanenza in Portogallo, sia dopo il rientro in Italia: in particolare – come dimostrano le minute dell’ampia corrispondenza conservata nell’archivio personale – gli inviava informazioni e notizie relative alla situazione politica italiana, ai vari partiti e soprattutto al partito monarchico. Morì a Roma il 24 gennaio 1967.

Cesare Maria De Vecchi: procuratosi un passaporto paraguayano, si trasferì nel giugno 1947 in Argentina. Ritornò in Italia solo nel giugno 1949, dopo che la Cassazione aveva cancellato senza rinvio la sentenza della corte d’appello di Roma II Sezione Speciale con la quale era stato condannato ad anni 5 di reclusione, condonati, per aver promosso e diretto la marcia su Roma, con le attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art.7 lett.b DLL 27-7-44 n.159.

Alfredo de Marsico: per la sua adesione al fascismo, terminata la seconda guerra mondiale, fu privato della cattedra per sette anni e allontanato dall’attività forense per quattro. Eletto, come indipendente, senatore tra le fila del Partito Nazionale Monarchico di Achille Lauro, dal 1953 al 1958, venne nominato nel 1964 professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Numerose furono le onorificenze ricevute dal De Marsico in quel periodo: venne nominato, ad esempio, cittadino onorario di Avellino, cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e gli fu consegnata una medaglia d’oro dall’Ordine degli avvocati di Lucerna. Fu, inoltre, otto volte presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli, di cui tenne la guida fino al 1980. Dopo la morte, venne posto in suo onore un busto in Castel Capuano e la cerimonia fu accompagnata dal discorso funebre del presidente dell’Ordine, l’avvocato Renato Orefice. Nel 1995, un decennio dopo la morte, un altro busto in bronzo fu collocato nella sala del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli.

Giacomo Acerbo: fu catturato dagli Alleati e condannato dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo a 48 anni di reclusione successivamente ridotti a 30. In quel periodo, amministratore dei suoi beni fu l’Avv. Pasquale Galliano Magno, (già presidente del CLN, avvocato della famiglia Matteotti nel processo di Chieti e capolista del PCI nell’elezioni amministrative di Pescara). Trasferito presso il carcere dell’isola di Procida, per il breve periodo rimastovi insegna matematica agli ergastolani presenti. Annullata la sentenza dalla Cassazione il 25 luglio 1947, fu poi riabilitato e nel 1951, in seguito a sentenza del Consiglio di Stato, fu riammesso all’insegnamento universitario. Nel 1953 e nel 1958 si candidò alle elezioni con i monarchici, ma senza successo. Nel 1962 fu decorato dal Presidente della Repubblica Antonio Segni della medaglia d’oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Nel 1963, in occasione del suo collocamento a riposo per limiti d’età, fu insignito all’unanimità del titolo di Professore Emerito di Economia e politica agraria dal Senato Accademico dell’Università La Sapienza di Roma. Subito dopo, tuttavia, venne richiamato in servizio in qualità di docente di Ordinamento e tecnica dei crediti speciali nel corso di specializzazione in Discipline bancarie. E’ morto a Roma il 28 novembre 1973.

Dino Alfieri: deferito nel dopoguerra per i reati previsti dal decreto legge luogotenenziale del 27 luglio 1944 (instaurazione della dittatura, suo mantenimento, ecc.) fu prosciolto in istruttoria dalla sezione speciale della Corte d’appello di Roma con sentenza del 12 nov. 1946, perché la sua azione non integrava i termini del reato rispetto all’accusa maggiore e per amnistia per quelle minori. Uguale conclusione favorevole ebbe, il 6 febbraio 1947, il procedimento dinanzi alla Commissione per l’epurazione del personale del ministero degli Esteri. Su entrambe le procedure ebbe notevole influenza il parere formulato, su richiesta del tribunale, dal ministero degli Esteri. Nel dopoguerra, pensionato come ambasciatore, l’A. ebbe presidenze in organismi economici a carattere internazionale. Morì a Milano il 2 genn. 1966.

Edmondo Rossoni: i superiori salesiani, senza battere ciglio, accolsero benevolmente la sua richiesta d’aiuto destinandolo presso la casa della Procura, un minuscolo edificio di tre piani situato in un dedalo di stradine in via della Pigna nei pressi del vicolo della Minerva al civico 51. In seguito, nel timore di essere riconosciuto dai ragazzi del piccolo oratorio sottostante, nei primi mesi del 1944, l’ex gerarca fascista decise di lasciare la Procura salesiana per trovarne un altro più appartato lontano da occhi indiscreti. Con il sopraggiungere del fronte alleato nei pressi di Roma, per maggiore sicurezza, fu deciso di trasferirlo – sotto mentite spoglie – in un monastero più appartato dell’Appennino meridionale e poi fu preso in custodia dall’Abate Generale dei Benedettini, mons. Emanuele Caronti che nel novembre del 1945 lo ricondusse dapprima a Roma e poi, il 30 agosto 1946, accompagnato presso l’aeroporto di Ciampino dal solerte abate Emanuele Caronti, Rossoni, vestito alla foggia degli ecclesiastici statunitensi, munito del passaporto di copertura prese il volo verso misteriosi lidi, che lo avrebbe condotto in Irlanda presso la nunziatura apostolica di Dublino, facendo dapprima scalo a Ginevra per poi raggiungere Parigi, da dove avrebbe raggiunto Dublino. Da qui, poi, riparò in Canada, dove rimase fino alla promulgazione dell’amnistia approfittando del provvedimento emanato dalle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione che annullarono senza rinvio la sentenza di condanna all’ergastolo emessa appena due anni prima dall’Alta Corte di giustizia, i reati che gli erano stati addebitati furono definitivamente derubricati. Di conseguenza l’ex gerarca fascista poté rientrare indisturbato nella capitale, ritirandosi a vita privata». Muore a Roma l’8 giugno 1965.

Giuseppe Bastianini: sfuggì alla esecuzione ordinata da Mussolini rifugiandosi sulle montagne toscane del Chianti e poi in Svizzera fino alla fine della guerra. Al termine della seconda guerra mondiale il governo jugoslavo del Maresciallo Tito lo accusò di essere un criminale di guerra, per il suo ruolo di Governatore della Dalmazia, insieme al generale Mario Roatta e a Francesco Giunta, suo successore in tale veste. La Commissione italiana d’inchiesta per presunti criminali di guerra, nominata dallo Stato maggiore dell’esercito il 6 maggio 1946 sostenne che il comportamento di Bastianini era improntato a “eccessivo ossequio verso Mussolini” e di essersi circondato “di elementi fascisti che, non di rado, trascesero ad eccessi, così da provocare nella popolazione locale vivo risentimento anche contro il Governatore Bastianini dal quale non videro rispettate quelle esigenze fondamentali alle quali sentivano di avere diritto” ma la Corte d’Assise speciale di Roma nel 1947 lo assolse da ogni accusa così come la Commissione per le sanzioni contro il fascismo. Nel 1959, tornato a Milano, pubblicò presso la piccola casa editrice “Vitagliano” le sue memorie, dal titolo “Uomini, cose, fatti: memorie di un ambasciatore“, ripubblicato da Rizzoli nel 2005 con il titolo Volevo fermare Mussolini. Bastianini morì a Milano il 17 dicembre 1961.

Annio Bignardi: nel dopoguerra ha ricoperto cariche in associazioni sportive.

Alberto De Stefani: dopo la caduta di Mussolini ed il collasso del regime fascista, il D. si rifugiò in un monastero di Roma (dall’inizio del 1944 al luglio del 1947) per sfuggire prima alla esecuzione capitale cui era stato condannato per tradimento dal tribunale di Verona della Repubblica sociale italiana, poi per proteggere ancora la sua contumacia nell’Italia repubblicana davanti alla Alta Corte, che lo assolse. Scrisse i Racconti del risveglio e in successive stesure, a partire dal 1942, il più importante Fuga dal tempo (Perugia 1948; Bologna 1959), libro che ebbe un non indifferente successo di critica e di pubblico. Ma le sue doti di acuto osservatore politico e di economista di vaglia vennero ugualmente messe a frutto. Sia dalla Repubblica nazionale cinese che gli richiedeva periodici rapporti sulla situazione politica europea, sia soprattutto dal Vaticano, dove le sue osservazioni trovavano sempre un attento auditorio. Come quando il D., rilanciando l’idea del radiomessaggio pontificio natalizio del 1942, si fece propugnatore di “una grande crociata veramente verificatrice per un ordine sociale e politico cristiano” da parte della Chiesa, invitata ad aggregare attorno al “comune principio cristiano” i diversi popoli “pronti a difenderlo e vederlo attuato nella vita politica e sociale del mondo” (lettera a don Rivolta, 1ºgenn. 1945, in Arch. della famiglia De Stefani). In questo quadro la Chiesa veniva a rappresentare l’istituzione totale, guida della società, sintesi definitiva e inappellabile delle diverse istanze politiche, sociali ed economiche, tanto da indurlo ad affacciare l’ipotesi di una sorta di “internazionalizzazione” del governo ecclesiale. Il 15 giugno del 1948 venne riabilitato all’insegnamento universitario che lasciò nel novembre dell’anno successivo per raggiunti limiti d’età, pur conservando l’incarico di direttore dell’istituto fino all’anno accademico 1953-54, anno in cui la facoltà gli conferì il titolo di professore emerito. Seppur ritirato dalla politica attiva, fu ancora ascoltato consigliere del nuovo personale politico democristiano. Nel 1953 aderì assieme a Bottai alla costituenda Associazione nazionale combattenti d’Italia che si sciolse nel 1958. Dal 1948 al 1955 collaborò quale notista economico a Il Tempo, dal 1956 al 1959 al Giornale d’Italia, e poi di nuovo a Il Tempo dal 1960 fino alla morte. Morì a Roma il 15 gennaio 1969.

Giovanni Balella: alla fine della guerra contribuì alla ricostituzione della Confederazione degli industriali, per la quale ricoprì il ruolo di responsabile dei rapporti esterni, occupandosi anche del rilancio del quotidiano romano Il Giornale d’Italia. Balella infatti creò la Stec (Società tipografico-editoriale capitolina) e diede il via alla costruzione della nuova sede del giornale, dopo aver acquistato un terreno a piazza Indipendenza, in zona Campo Marzio. Successivamente prese il posto di Furio Cicogna al CNEL, in rappresentanza della Confindustria, e continuò ad occuparsi del settore delle Fibre chimiche, ricoprendo sia ruoli nell’associazione industriale del settore sia nelle società operative, in particolare nella Italviscosa e nella Chatillon. E’ morto il 20 gennaio 1988.

Tullio Cianetti: dopo la liberazione emigrò in Mozambico, dove morì il 7 agosto 1976.

Carlo Scorza: al termine della Seconda guerra mondiale si rifugia a Gallarate (Varese). Scoperto ed arrestato nell’agosto del 1945, riesce a evadere riparando in Argentina. Rientrato in Italia nel 1969, si trasferisce in un piccolo comune vicino a Firenze, dove si spegne nel 1988. Ha scritto un memoriale sulla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio 1943.

Guido Buffarini Guidi: Il 25 aprile seguì Mussolini fino a Como dove, resosi conto dell’inconsistenza del Ridotto alpino repubblicano, insistette a lungo per convincere il duce ad espatriare in Svizzera. Il giorno seguente, mentre tentava di raggiungere la Svizzera, fu catturato dai partigiani. In seguito fu processato e condannato a morte da una Corte d’Assise straordinaria; la sentenza fu eseguita per fucilazione nel campo sportivo “Giuriati”, zona Città Studi a Milano il 10 luglio 1945, poco dopo aver sventato un suo tentativo di suicidarsi con il veleno. Anni dopo alla vedova di Buffarini Guidi fu riconosciuta la pensione riferita al grado di colonnello di artiglieria del marito.

Enzo Galbiati: Avendo superato indenne gli eventi dell’aprile 1945 Galbiati si stabilì a Milano. Nel 1955 querelò per diffamazione a mezzo stampa Vanni Teodorani (genero di Arnaldo Mussolini), che lo aveva accusato di codardia per i fatti del 25 luglio. Diversi ufficiali della Milizia confermarono, testimoniando nel corso del processo, che una reazione della Milizia (anche con la divisione corazzata M) era possibile. Il processo si chiuse nel 1956 con l’assoluzione di Teodorani relativamente alla ricostruzione storica degli eventi del 25 luglio, ma con una pena pecuniaria per gli epiteti da lui rivolti a mezzo stampa a Galbiati. Dopo il processo Galbiati si ritirò prima a Bordighera e successivamente in una casa di riposo di Solbiate, dove morì il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno (23 maggio 1982). Per sua espressa volontà Galbiati è stato sepolto nel “Principato” di Seborga, nella tomba di famiglia da lui stesso progettata.

Carlo Alberto Biggini: Il 25 aprile 1945, Biggini è a Padova, presso la sede del suo dicastero, dove anche grazie alla protezione di alcuni autorevoli antifascisti che aveva contribuito a salvare, supera la fase più critica del dopo-liberazione. Un male incurabile lo costringe però al ricovero, presso la clinica San Camillo di Milano, dove si spegne il 19 novembre 1945, poco prima di compiere 43 anni.

Antonino Tringali Casanova: morto nel 43.

Ettore Frattari: Nel dopoguerra ha continuato la sua attività nel settore agricolo, diventando anche Presidente nazionale della sezione economica della ortofrutticoltura.

Roberto Farinacci: Fucilato il 28 aprile 1945.

Giacomo Suardo: morto nel 1947.