28 marzo 1944: eccidio di Montemaggio (Siena)

I 19 partigiani uccisi

Il 28 marzo del 1944 alle pendici del Montemaggio in località Porcareccia vicino a Monteriggioni in provincia di Siena, 19 partigiani furono uccisi dalla Guardia Nazionale Repubblicana.
Le vittime erano tutti giovani ragazzi che si erano dati alla macchia per sfuggire alla leva fascista e per unirsi alle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi che operava nella zona compresa tra le province di Siena, Pisa e Grosseto. Due diversi distaccamenti di partigiani, comandati da Velio (detto “Pelo”) e da Mauro (detto “Borsa”), avevano trovato rifugio presso una casa di contadini, casa Giubileo, sulle pendici del Montemaggio.
I gruppi partigiani, che avevano intenzione di compiere alcuni atti di sabotaggio alle vie di comunicazione per Siena, avevano due prigionieri, il capitano della milizia forestale Brandini ed un ufficiale nazista, che avrebbero voluto scambiare con alcuni detenuti politici reclusi nel carcere di Siena.
All’alba del 28 marzo 1944 i militi fascisti, coadiuvati da membri dell’esercito e della Compagnia Giovani, guidati da un noto fascista locale, arrivarono a casa Giubileo e la circondarono intimando ai partigiani la resa. Questi risposero al fuoco; ma, constatata la differenza delle forze in campo e di armi, offrirono di arrendersi in cambio della promessa di avere salva la vita.
Alcuni partigiani tentarono la fuga, ma mentre due riuscirono a mettersi in salvo (tra questi Walter Bianchi, detto “Testina”), due furono uccisi.
I due ostaggi furono subito portati via dai militi mentre i partigiani furono radunati fuori della casa.
I 18 rimanenti furono portati in località la Porcareccia per essere fucilati e furono fatte loro togliere le scarpe. Uno di questi, Vittorio Meoni, riuscì però a fuggire nel bosco ed a mettersi in salvo nonostante le gravi ferite riportate. Per gli altri 17 non ci fu nulla da fare e furono uccisi a colpi di mitragliatrice.
Tutti i partigiani  riposano nella Cappella dei Partigiani eretta all’interno del cimitero di Colle Bassa, questi i loro nomi: Angiolo Bartalini, Piero Bartalini, Emilio Berrettini, Enzo Busini, Giovanni Cappelletti, Virgilio Ciuffi, Franco Corsinovi,    Dino Furiesi,  Giovanni Galli, Aladino Giannini, Ezio Grassini, Elio Lapini, Livio Levanti, Livio Livini, Fulco Martinucci,    Ennio Nencini, Orvino Orlandini, Luigi Vannetti, Onelio Volpini.

La commemorazione del 2009 (“…la Storia è fatta da persone come noi, da persone comuni”):

24 marzo 2013: Museo della Resistenza “Agostino Piol”

Donna Partigiana dello scultore bellunese Pezzei

Ieri, domenica 24 marzo, con un gruppo di compagni avventurosi, siamo partiti da Valmorel per raggiungere il rifugio – museoAgostino Piol” a Pian de le Femene. Zenone Sovilla, organizzatore della ciaspolada, ci ha illustrato e fatto vedere degli spezzoni di interviste a partigiani e storici, che sono serviti per il suo ultimo progetto “Il sentiero sotto la neve”, un film “per interrogarsi su una memoria ormai troppo spesso calpestata o distorta; per aprire qualche pagina scomoda; per tentare di capire”. In questo sito potete vedere parte delle interviste e dei documentari che hanno ispirato questo progetto: http://www.sovilla.org/

Qui le foto della giornata: http://imgur.com/a/7bGid

24 marzo 1944: strage delle Fosse Ardeatine

Era il 24 marzo 1944 quando i nazisti decisero, come rappresaglia nei confronti di un attacco partigiano avvenuto il 23 marzo contro le truppe d’occupazione tedesche in Via Rasella, a Roma, di rastrellare 355 persone tra civili e militari dalle carceri romane. L’intento dei militari nazisti fu chiaro sin da subito, individuare delle persone da massacrare per vendicare i 32 tedeschi uccisi dai partigiani romani. Il generale in carica nella piazza di Roma era Kurtz Maeltzer, il quale, si racconta, rimase particolarmente colpito dall’attentato compiuto dai partigiani della GAP (Gruppo di Azione Patriottica) di Roma.
Per questo motivo i nazisti, che già si erano resi protagonisti di stragi efferate in diverse località italiane, decisero di vendicarsi uccidendo 10 italiani per ogni tedesco ucciso. Da qui la decisione di rastrellare 355 persone (la notte successiva morì un altro tedesco e si decise di aggiungere altri 10 italiani alla lista), tra le quali si trovavano anche membri del personale sanitario, infermi, feriti e malati. Una vera e propria rappresaglia, vietata peraltro dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Come se non  bastasse i nazisti non compirono alcuna indagine per appurare l’identità dei responsabili dell’attacco di Via Rasella, nè attesero le consuete 24 ore per verificare se gli autori dell’attentato si sarebbero consegnati alle autorità naziste. Inizialmente vennero scelti partigiani o persone colluse o compromesse con l’antifascismo, ma poi, non essendo stata raggiunta la cifra prefissa, i nazisti avrebbero chiesto al questore fascista Caruso (poi fucilato dai Tribunali antifascisti al termine della guerra) di rastrellare altre cinquanta persone tra i detenuti non politici. Un crimine terribile, consumato nelle tristemente note Fosse Ardeatine da Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS, e già responsabile del rastrellamento del ghetto di Roma. Una strage orrenda, forse la peggiore mai consumata in Italia.
I responsabili dell’eccidio, Kappler, Priebke e Kesserling, furono tutti e tre condannati (i primi due all’ergastolo, il terzo alla pena di morte), ma per un motivo o per l’altro nessuno di loro scontò integralmente la pena. Kappler dopo qualche anno nel carcere militare di Roma riuscì a sfuggire in Germania, Priebke fu arrestato dopo una lunga latitanza in Argentina, e Kesserling dopo pochi anni di carcere si riunì ai neonazisti bavaresi, trovando la morte solo per un attacco cardiaco, nel 1960.

Scrive Carla Capponi, che aveva partecipato a quell’azione in via Rasella, nel suo libro “Con cuore di donna- Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista”:
“Per noi quell’ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L’annuncio “questo ordine è già stato eseguito” con cui terminava il breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto “La sentenza è già stata eseguita”, perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano.
Dopo la liberazione di Roma, quando si indagò su quella strage si scoprì che solo tre delle vittime erano state condannate a morte con sentenza; neppure il tribunale tedesco installato a via Lucullo aveva avuto il coraggio o la possibilità di emettere una sentenza che desse appoggio legale a quel massacro. Volevano fare intendere che al di sopra di tutte le leggi del diritto e della morale, c’erano gli “ordini” del comando nazista, il “Deutschland über alles”, della razza ariana, destinata a dominare tutte le altre considerate inferiori e per le quali non c’era bisogno né di tribunale né di sentenze.
Avevano assassinato in fretta gli ostaggi, occultato i cadaveri e lasciato le famiglie senza notizie, così che ciascuna potesse sperare che i propri cari non fossero nel numero dei destinati alla morte e aspettassero fiduciose. Per questo non fecero indagini, non cercarono i partigiani, non usarono il mezzo del ricatto chiedendo la resa dei GAP. L’eccidio doveva consumarsi per vendetta, non per cercare giustizia.
Volevano nascondere un altro crimine, l’avere ucciso quindici persone oltre i trecentoventi dichiarati, come scoprimmo quando, liberata Roma, furono riesumate le salme: trecentotrentacinque. I tedeschi uccisi erano stati trentadue, uno dei settanta feriti era morto durante la notte a seguito delle ferite: Kappler decise di sua iniziativa di aggiungere dieci vittime a quelle già predestinate e, nella fretta di dare immediata esecuzione all’eccidio, ne prelevarono dal carcere quindici, cinque in più della vile proporzione tra caduti tedeschi e prigionieri da assassinare, quindici in più di quelli autorizzati dal comando di Kesserling. Dell’ “errore” si rese conto Priebke mentre svolgeva l’incarico di “spuntare” le vittime prima dell’esecuzione, rilevandole da un elenco all’ingresso delle cave Ardeatine, luogo prescelto per l’esecuzione e l’occultamento dei cadaveri. Lui stesso e Kappler decisero di assassinare anche quei cinque, rei di essere testimoni scomodi della strage”.

Nel libro “La farfalla impazzita”  Giulia Spizzichino, scrive:
“Non ricordo come, ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c’era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l’attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c’era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte.
Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati, a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l’entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro.
Quando l’odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c’è che l’opera dell’amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso – i documenti erano stati loro sottratti – riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti.
Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all’appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine!
Ricordo che c’erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c’erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino  Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore …”

Oggi cosa resta del fascismo in Italia? Il convegno delle partigiane

Una sala da duecento posti piena, un altro centinaio di persone in esubero sedute per terra o in piedi: così si è presentata la situazione a Palazzo Marino a Milano sabato 16 marzo, al convegno indetto dall’Anpi nazionale, l’associazione dei e delle partigiane, organizzato proprio dal Coordinamento delle donne. Tra queste anche giovani sotto i trent’anni, perché l’associazione ha aperto da alcuni anni le iscrizioni a chiunque voglia partecipare alle attività.
Un titolo forte e chiaro: ‘La violenza e il coraggio – Donne, Fascismo, Antifascismo, Resistenza, ieri e oggi’, a ribadire un concetto semplice: la storia si insegna e si impara a scuola, ma la memoria la si costruisce nel quotidiano dovunque, ed è fatta di scelte: nelle parole che si pronunciano, nei ricordi da tramandare, nelle narrazioni che diventano fili tesi tra generazioni.
Si può scegliere di rubricare come ‘passato’ quella fase della vicenda politica, sociale e umana che ha visto, nella Resistenza, l’unica palestra di democrazia condivisa da uomini e donne cattoliche, comuniste, anarchiche e socialiste; si può cancellare con una alzata di spalle la tragedia del fascismo e delle leggi razziali, per non parlare della retriva retorica familista che ancora l’Italia si trascina nella cultura diffusa anche dai media.
Ma quando si ascoltano le voci vibranti di donne e uomini che hanno vissuto il (primo) ventennio di buio di questo paese è difficile non emozionarsi.
Lidia Menapace e Marisa Ombra invitano le giovani donne che le guardano sedute a terra con occhi attenti a usare ironia e sberleffo contro il patriarcato e il machismo: ”Vi dicono che le donne non possono accedere al sapere scientifico perché hanno il cervello più piccolo? Perfetto, rispondete che di certo anche il diamante è più piccolo di una zucca, che certo pesa di più della pietra preziosa” – chiosa Menapace, classe 1924, della quale da poco è uscito “A furor di popolo”.
L’invito è a non frasi intimidire dagli stereotipi e dai pregiudizi, e fa pensare che arrivi da donne che, come racconta Marisa Ombra nel suo bellissimo “Libere sempre”, a soli 17 anni erano già in montagna a rischiare la vita solo perché portavano notizie e aiuti ai partigiani.
Poco più che bambine molte di loro hanno iniziato la fase adulta dell’esistenza fronteggiando la violenza, e hanno scelto da sole da che parte stare, spesso optando per la lotta nonviolenta. Le intense letture fatte dall’attrice Aglaia Zanetti hanno alternato brani da libri di donne della resistenza a passi tratti da testi sacri dei teorici del fascismo, perle di raggelante attualità rimbalzate anche dagli schermi in sala: “Non darò il voto alle donne. La donna deve ubbidire. La mia opinione della sua parte nello Stato è opposta ad ogni femminismo. Naturalmente non deve essere schiava, ma se le concedessi il voto mi si deriderebbe. Nel nostro Stato non deve contare”. O anche. “La guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”.
Così Benito Mussolini, mentre Ferdinando Loffredo, filosofo e teorico del regime, affermava; “Il lavoro femminile crea nel contempo due danni; la ‘mascolinizzazione’ della donna e l’aumento della disoccupazione. La donna che lavora si avvia alla sterilità”.
Vale la pena di rammentare questo recente passato, per evitare a chi è più giovane di sottovalutare la pericolosità del non custodire e attualizzare la memoria: questo appuntamento, del quale presto si avranno gli atti ha sapientemente mescolato storia di ieri e realtà contemporanea, con l’urgenza di riannodare fili che rischiano di essere tagliati.
I partigiani ci vanno nelle scuole – ha detto Marisa Ombra – magari sono stanchi perché hanno molti anni, ma escono dagli incontri con i giovani pieni di energia, basta che vengano chiamati, e arrivano”.

Ascoltiamoli di più.

(di Monica Lanfranco, dal blog de “Il Fatto Quotidiano” del 21 marzo 2013)

Protocollo d’intesa per la raccolta, conservazione e diffusione delle memorie giuliano – dalmato – istriane

In data  1 marzo 2013 il quotidiano “La Nuova Venezia” riportava la notizia della firma di un protocollo d’intesa tra Comune di Venezia, Isever, rEsistenze, Anpi e ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Invitiamo tutti a leggere attentamente il protocollo d’intesa e gli allegati del progetto.

Questo è il protocollo

L’allegato per la creazione dell’archivio multimediale

L’allegato del progetto di raccolta a cura di Antonella Scarpa

Pordenone: Il confine orientale tra mito e realtà

Sabato 23 marzo alle ore 17.30 nella saletta T. Degan presso la Biblioteca civica di Pordenone si terrà la conferenza – dibattito:

IL CONFINE ORIENTALE TRA MITO E REALTÀ: “L’OCCUPAZIONE FASCISTA, LE STRAGI E I CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER SLOVENI E CROATI, LE FOIBE E L’ESODO.”

INTERVERRÀ LA STORICA ALESSANDRA KERSEVAN

Negli ultimi anni in Italia si è sollevato un acceso dibattito pubblico attorno alla costruzione di una verità ufficiale che ha dato il via ad un walzer di commemorazioni, monumenti, lapidi, intitolazioni di strade. Grazie al contributo di Alessandra Kersevan, attraverso un esercizio di rigorosa contestualizzazione storica, ci proponiamo di individuare e discutere quelli che appaiono gli elementi di mistificazione, falsificazione e propaganda e quelli che si rifanno ai dati reali emersi dallo studio scientifico dei fatti.

Organizzazione del Coordinamento Antifascista e dell’Anpi di Pordenone

Mappa per arrivare alla Biblioteca

19 marzo 1921: strage di Strugnano – Strunjan

Il 19 marzo del 1921, nella località istriana di Strugnano, piccolo paese nei pressi di Pirano, gli squadristi fascisti, durante una delle loro scorrerie in terra d’Istria, spararono su un gruppo di bambini intenti a giocare vicino ai binari della linea ferroviaria. Due di questi morirono sul colpo, cinque vennero feriti e tre rimasero per sempre invalidi.

Questa la testimonianza di Piero Valente:
“Faccio un resoconto di quanto mi raccontò mio padre che fu testimone oculare del fatto.
Quel giorno, festa di San Giuseppe, si svolgeva la tradizionale festa da ballo con gente che era arrivata con il trenino della Parenzana anche da Isola e da Pirano. Era pomeriggio inoltrato e nell’area antistante, al centro della quale c’era un grande olmo, giocavano numerosi bambini. Questo albero fu importante nei fatti.
La stazione della ferrovia era adiacente all’edificio della Lega. Il fatto avvenne poco dopo con l’arrivo del treno proveniente da Trieste, che si era fermato regolarmente in stazione per far scendere i passeggeri e farne salire altri. Appena il treno si mise in moto, la gente (tra cui mio padre) udì degli spari e uscì dalla sala interna per vedere cosa fosse successo. Ebbero solo il tempo di vedere gli ultimi vagoni del convoglio che stava entrando nella galleria che portava a Portorose. Sul prato giacevano i corpi di due bambini, Domenico Bartole e Renato Braico. Avevano avuto la sfortuna di giocare davanti al grande olmo, mentre gli altri vennero salvati dai proiettili proprio dal tronco della pianta.
Certe persone testimoniarono che sul treno c’erano numerosi giovani in camicia nera, qualcuno anche ubriaco”.

Le più complesse vicende del confine orientale

Sabato 16 marzo alle ore 18 a Trieste presso la libreria Knulp, in occasione della pubblicazione del numero 300 de “La Nuova Alabarda e la coda del diavolo” si terrà l’iniziativa pubblica:

“Le più complesse vicende del confine orientale”: come se ne parla dopo otto anni dall’istituzione della legge sul giorno del ricordo del 10 febbraio?
Relatrice Alessandra Kersevan, ricercatrice storica ed editrice.

Le foibe istriane del 1943: presentazione dei due dossier “Il caso Norma Cossetto” ed “In difesa di Ivan Motika”, editi da “La Nuova Alabarda”.
Relatrice Claudia Cernigoi, giornalista e ricercatrice storica.

A cura del gruppo di Resistenza Storica e della redazione de “La Nuova Alabarda”.

Felice Porro, uno della Banda Tom

Felice Porro, a destra in basso

Dopo la pubblicazione dell’articolo http://anpimirano.it/2013/i-tredici-della-banda-tom abbiamo ricevuto questa testimonianza dal nipote di uno dei partigiani della Banda Tom scampati al rastrellamento:

Dai pochissimi racconti del nonno (è sempre stato molto difficile farlo parlare della guerra) che ora è un arzillo 88enne ma con qualche problema di memoria, lui si unì alla Banda Tom nel 1944. Qualche mese dopo il papà lo mandò a chiamare perché la mamma stava male e lui lasciò momentaneamente la banda che poi sarebbe stata catturata di lì a qualche mese. Purtroppo non conosco le date con precisione e anche quando la memoria non gli difettava faticava a inquadrare cronologicamente i vari periodi. Ho più volte cercato informazioni perché sono sempre andato orgogliosissimo del nonno e del suo contributo alla guerra partigiana (lui stesso mi ha cresciuto nel sacro rispetto dei principi e dei valori della Resistenza e dell’antifascismo) ma purtroppo si trovano solo sporadici riferimenti negli archivi riguardo alla sua militanza nelle file di Giustizia e Libertà negli ultimi mesi che hanno preceduto la Liberazione.
Le allego una foto in cui è ritratto insieme ad alcuni compagni d’arme (ma non so se si riferisca al periodo della Banda Tom) lui è quello accovacciato a destra nella foto.
Cordiali Saluti.
Alessandro Porro

Belluno 10 marzo 1945: Bosco delle Castagne

“Cari compagni mandatemi del veleno non resisto più. Montagna”

Il 10 marzo 1945, furono dieci i partigiani impiccati al Bosco delle Castagne: Mario Pasi “Montagna”, Giuseppe Santomaso “Franco”, Francesco Bortot “Carnera”, Marcello Boni “Nino”, Pietro Speranza “Portos”, Giuseppe Como “Penna”, Ruggero Fiabane “Rampa”, Giovanni Cibien “Mino”, Giovanni Candeago “Fiore” e Ioseph, un soldato francese. In memoria di quei fatti, domenica alle 10, si svolgerà la cerimonia commemorativa presso la stele al Bosco delle Castagne.

Questo il ricordo del fatto nelle parole di Giovanna Zangrandi nel libro “I giorni veri. Diario della Resistenza”:

Belluno, marzo 1945
Nella cucina del recapito 67 c’era traffico stamane, anche una certa euforia, c’erano diversi comandanti che parlavano di faccende, Carlo, Gianni e degli altri. C’era Burrasca che raccontava con enfasi il colpo fatto da Radiosa Aurora: l’altra notte andarono nel Bosco delle Castagne a mettere delle mine legate a cartelli con su «abbasso Hitler» e abbasso altre cose del genere là dove i tedeschi fanno i tiri. Eccoli infatti al mattino, arrivarono ben marciando e videro, tentarono di cavare gli indegni cartelli: kaputt un po’ di loro.
Ma adesso qualcuno è salito di corsa al 67, ha fiato in gola; dice che sta arrivando una colonna tedesca e che sta parandosi avanti dieci ostaggi dei nostri prelevati nelle carceri. Uno lo trascinano inerte su di una scala, forse è Montagna. Dieci dei nostri li portano al Bosco delle Castagne e non c’è bisogno di dirsi di più.
Montagna è un medico di Ravenna, arrivò qui con i primi organizzatori, lo presero e l’hanno torturato e torturato perché non parlava. Dopo il colpo grosso alle carceri nella scorsa primavera, dopo l’altra evasione rocambolesca di Attilio Tissi, un terzo colpo a Baldenich era impossibile. Hanno torturato Montagna fin che le piaghe delle botte gli hanno fatto marcio e cancrena; dentro un pezzo di pane è riuscito a mandar fuori un biglietto: «Compagni; mandatemi del veleno, non posso più…»; l’ho visto quel biglietto, scritto storto a matita, se vivrò ricorderò fino all’ultimo barlume quella riga e mezza a matita.
E adesso lui e gli altri nove per rappresaglia. I nostri comandanti e alcuni ragazzi corrono come matti, ma è impossibile far niente: se danno battaglia, se sparano, i tedeschi si mettono davanti i nostri e li sparano.
Questo greto sassoso di fiume bruciato e si corre tra i sassi, si corre come bestie impazzite, si vorrebbe far qualcosa e si corre.
La colonna verdognola avanti, tra gli alberi ancora spogli: si sono sentiti dei comandi rapidi, lontano tra gli alberi.
Si sono visti i nostri alzarsi, tirati su, a due a tre per albero, sulla collina; non sappiamo quale sia Montagna e i nomi esatti degli altri, dieci sono, dai tronchi sbuca un piede, una testa torta, uno con una maglietta a righe; in quell’albero che ne porta tre forse c’è anche il ragazzo dell’Ada, non conta chi sia, sono dieci e adesso sono ormai fermi come i tronchi che li portano.
Uno ha detto: «Far fesserie non serve. Ormai…». Un altro: «Andarsene noi vivi, pochi e quasi disarmati, restar vivi per ucciderli bene, quelli».

Il biglietto menzionato dalla Zangrandi è quello riprodotto in apertura: è di Mario Pasi, antifascista, medico e dirigente partigiano,  delle formazioni operanti nel bellunese. Catturato dalle SS alla fine del 1944, fu torturato e seviziato per quattro mesi e ridotto in fin di vita dal famigerato tenente Georg Karl, comandante della Gestapo di Belluno, ma rifiutò sempre di fornire informazioni. Fu fatto trasportare dai suoi stessi compagni perché non camminava nemmeno più, con le gambe fracassate dalla bastonate, una già divorata dalla cancrena. Questa è una poesia di Mario Tobino, anche lui partigiano combattente, dedicata a “Montagna”:

Il Pasi era un giovanotto
veniva dalla Romagna,
insieme eravamo giovani,
si camminava muovendo le spalle,
le donne avean per noi debolezza.
Lui lo impiccarono i tedeschi
dopo sevizie che non ho piacere si sappiano,
io ho un cappotto di anni,
ma, o Pasi, sei stato
il piu bell’italiano di mezzo secolo.

Il programma della celebrazione

Le foto della celebrazione del 10 marzo 2013