campi fascisti – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Fri, 06 Feb 2015 06:01:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 13529763 Sloveni e croati, genocidio ancora avvolto dal silenzio http://anpimirano.it/2015/sloveni-e-croati-genocidio-ancora-avvolto-dal-silenzio/ Fri, 06 Feb 2015 06:01:16 +0000 http://anpimirano.it/?p=6375 Leggi tutto "Sloveni e croati, genocidio ancora avvolto dal silenzio"]]> Il cimitero di Rab
Il cimitero di Rab

Il Giorno del ricordo: nessun accenno ai campi e agli aguzzini del fascismo. Da Arbe a Gonars al Veneto e alla Toscana: migliaia di deportati e di vittime (di MARIO QUAIA )

Per loro non c’è spazio nel calendario. Sono stati privati sia della memoria che del perdono. Sono i morti – qualche migliaio – nei campi di concentramento italiani. A opera degli aguzzini del Duce. La maggior parte erano sloveni e croati, ma tra le vittime si contano anche ebrei e zingari. Moltissimi i bambini. Di loro nessuno ne vuole parlare. Forse erano scomodi anche per la propaganda politica che da sempre ha accompagnato le campagne elettorali su queste terre di confine. Il tema è sempre stato ben delimitato: le violenze titine e le foibe. Su tutto il resto, cioè gli antefatti, soltanto oblio.
Eppure, a distanza di settantanni, la documentazione è imponente. Gli archivi hanno restituito rapporti, statistiche, verbali, testimonianze e perfino fotografie. Il giudizio degli storici è pressoché unanime: si è trattato di veri e propri lager con efferatezze inaudite. Il loro parere, semmai, diverge sul numero dei campi e sul numero degli internati.
Secondo Fabio Galluccio, il numero dei diversi luoghi di detenzione (campi di concentramento, campi per l’internamento militare, colonie di confino, campi per l’internamento civile) era 200; Luciano Casali ne conta 259. A giudizio dello storico Carlo Spartaco Capogreco (I campi del Duce, Einaudi) gli sloveni e i croati deportati dalla primavera del 1942 all’8 settembre 1943 furono non meno di 25 mila.
Domenica è stato celebrato il Giorno del ricordo per rendere un doveroso omaggio alle vittime delle foibe, istituito dal presidente Carlo Azeglio Ciampi e sostenuto dal presidente Giorgio Napolitano. Una scelta felice e condivisa dopo gli anni dell’oblio, della contrapposizione ideologica, delle accuse e dei rancori. E sulle recenti e numerose manifestazioni si è fatto leva sui sentimenti di pietà, sulla riappacificazione e sulla verità quale monito per il futuro.
Sui lager, però, ancora silenzio. Tombale. Perché? Perché negare ancora? Perché nascondere ancora le nostre responsabilità quando anche la Germania, per bocca del cancelliere Angela Merkel, ha sostenuto che «la nostra responsabilità nei crimini nazisti è perenne?». E la nostra responsabilità? Sulle torrette di guardia, nei nostri campi di concentramento, c’eravamo noi “italiani brava gente”.
Ad Arbe (Rab), nella provincia di Fiume; a Melada (Molat), nel Governatorato della Dalmazia; a Gonars (Udine), a Monigo in provincia di Treviso; a Chiesanuova in provincia di Padova; a Colfiorito, in provincia di Perugia e a Renicci, in provincia di Arezzo. È in questi luoghi che si è compiuto un altro genocidio. Settemila sloveni non tornarono più e i croati furono più numerosi.
Sull’isola di Arbe il lager più importante. I prigionieri alloggiavano in tende all’interno di quattro campi distinti, più un cimitero dove finivano i tanti che morivano per fame e freddo. Su circa 7.500 internati i morti accertati furono 1.435, tra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai dieci anni, con un tasso di mortalità superiore a quello registrato a Buchenwald.
La responsabilità di tutta l’organizzazione era affidata al comandante Mario Rabotti, di cui è trapelata dagli archivi una sua celebre frase: «Qui si ammazza troppo poco». Il campo era affidato alle dirette responsabilità del colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, «un mostro dalle sembianze umane», come si legge nel sito della comunità ebraica di Milano: «Sadico e fascista fanatico portava sempre con sé una frusta che utilizzava volentieri». A futura memoria la testimonianza di padre Odorico Badurina, ospite nel convento di Kampor sull’isola: «Gli italiani volevano distruggere gli internati con la fame».
Su quel periodo terribile e buio ha dedicato molte ricerche Alessandra Kersevan, storica e insegnante di questa regione, che ha poi dato alle stampe Lager italiani (Nutrimenti). Fonte principale, gli archivi della Prefettura di Udine dove, in quegli anni, ha operato l’ufficio censura dell’esercito di Mussolini. Documenti ma soprattutto testimonianze. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
«Non c’era niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente»; “Ad Arbe dormivamo sulla paglia, come le bestie. I bambini morivano di fame, nascondevamo i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri». Del resto, gli ordini erano ordini.
Cosi Benito Mussolini, durante un incontro con i suoi generali che si tenne a Gorizia alla fine del luglio ’42: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria va interrotta. È incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. Questa popolazione (sloveni e croati, ndr) non ci amerà mai».
A distanza di settant’anni che non sia il caso di chiedere scusa? Ricomporre anche questa pagina di storia strappata? E andare in delegazione a Rab e deporre una corona di fiori?

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Il lager di Monigo (Treviso) http://anpimirano.it/2013/il-lager-di-monigo-treviso/ Tue, 29 Jan 2013 13:26:41 +0000 http://anpimirano.it/?p=2850 Leggi tutto "Il lager di Monigo (Treviso)"]]>
Podgornik Savo, studente universitario prigioniero nel lager di Monigo

Il 31 gennaio 2013  a Mogliano Veneto le classi terze della Scuola Media degli Istituti Comprensivi 1 e 2 incontreranno Francesca Meneghetti, autrice del libro “Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso (1942-1943)”. L’incontro si svolgerà presso la sede della scuola media ed è riservato ai soli alunni.  Questa iniziativa rievoca  il progetto angosciante che lo Stato italiano fascista aveva riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio: la deportazione di massa della popolazione civile.
Il sistema dei campi di concentramento fascisti, anche se non raggiunse il livello di orrore e sterminio nazista, non deve essere giudicato marginale e la dimenticanza di questa parte di storia accompagnata dalla distruzione di molte delle strutture che la simboleggiano, ci obbliga ad acquisire una maggiore consapevolezza del nostro passato attraverso una corretta divulgazione della memoria per trarne una lezione civile in questa nostra società che deve essere sempre più aperta alla convivenza tra i popoli. Solo in questo modo si potrà contribuire ad una più attenta conservazione di questi luoghi e a mantenere alto il monito contro ogni forma di prevaricazione dei diritti e delle libertà personali.

Erano in tanti a sapere. Eppure nessuno sapeva. Sono passati più di settant’anni, ma quel colossale buco nero nella memoria dei trevigiani sembra difficile da riempire. A colmare il vuoto e a riavvicinare la coscienza che è esistito, appena fuori le mura della città, una specie di lager dove si moriva e dove i bambini facevano la fame ci prova ancora una volta Francesca Meneghetti che con Istresco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha da poco pubblicato «Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso (1942- 43)». Avevamo già letto molto, sul passato per nulla edificante della caserma Cadorin: lì, lungo la strada Feltrina a pochi chilometri da piazza dei Signori, nel 1942 venne istituito un campo per internare gli slavi. Quelli repressivi: i ribelli, i sospettati di essere sensibili al messaggio partigiano o comunista, gli abitanti di zone di confine, chi viveva nei luoghi di azione partigiana. E quelli filo-fascisti, che temevano ritorsioni e pertanto andavano protetti. Se ne contarono dagli otto ai diecimila, di internati civili in transito per quello che tutti chiamavano il “Campo di Monigo”, quasi a voler fare un distinguo ben preciso fra il capoluogo e il sobborgo ai margini della città. Quasi fosse e sia ancora adesso più opportuno e raffinato addossare alla periferia l’ombra dell’operazione. Ma il nome non fa la differenza, perché fra il luglio del ’42 e il settembre del ’43 vi morirono 230 persone. Cinquantatré i bambini che non sopravvissero a fame e malattie. Certo, Monigo non fu un campo di sterminio nazista. Gli slavi – quel popolo che secondo Mussolini non ci amava e non ci avrebbe mai amati – non indossavano una divisa. L’obiettivo non era l’annientamento della personalità, ma la pianificazione organizzativa messa in atto era quella tedesca e il campo era un luogo di patimento e dolore. Per la fame, per le malattie, per le umiliazioni subite, per la separazione forzata dalle proprie famiglie e anche per l’ozio quotidiano. Il libro di Francesca Meneghetti è uno studio approfondito e puntuale che ci restituisce non solo il ritratto degli internati, della loro vita da reclusi, delle malattie e delle cause di morte. La studiosa, dopo averci fatto capire da vicino cosa succedeva al di là del muro, sceglie infatti di capire cosa c’era al di qua, analizzando storicamente e storiograficamente il ruolo delle reti umanitarie che sapevano e che entrarono in contatto con il campo, le sue istituzioni, i suoi “ospiti”. Al di qua del muro c’erano la Croce Rossa, la Chiesa, il prefetto. E c’era una città, Treviso, che ha dimenticato. Perché? Meneghetti cerca risposte confortate da ragioni storiche, ma non può fare a meno di chiedersi come mai, dopo tutte le ricerche e le pubblicazioni degli ultimi anni, il campo di concentramento di Monigo è rimasto un tema di nicchia, familiare solo agli specialisti. Perché Treviso non ha il coraggio di ricordare? «A distanza di settant’anni dagli eventi, oltre vent’anni dopo la dissoluzione della cortina di ferro, dovrebbero essere maturi i tempi per le istituzioni di rivisitare il passato e riconoscere, ciascuno per la propria parte, le responsabilità e gli errori del passato». Un coraggio di ricordare che finora è mancato. Come manca una lapide in memoria di chi nel nostro lager sotto casa ha perso la vita. (Sara Salin, Il Mattino del 29 aprile 2012)

http://www.dalrifugioallinganno.it/campi_veneto_exjugo_monigo.htm

http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=434

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