montinaro – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Thu, 23 May 2013 11:16:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 13529763 23 maggio 1992: strage di Capaci http://anpimirano.it/2013/23-maggio-1992-strage-di-capaci-2/ Thu, 23 May 2013 04:23:19 +0000 http://anpimirano.it/?p=4003 Leggi tutto "23 maggio 1992: strage di Capaci"]]>
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani

Questa la strage di Capaci raccontata da Daniele Biacchessi:

Occhi osservano dall’alto della collina. Occhi minacciosi, pieni di odio. Occhi che hanno il colore del tritolo incrociano occhi buoni di uomini e donne. Sono dentro un’automobile che corre verso la morte.
L’ultima corsa di Giovanni Falcone inizia all’aeroporto di Ciampino, a Roma, sabato 23 maggio 1992. Sono le 16,50. Un jet dei servizi segreti decolla con a bordo il giudice e la moglie Francesca Morvillo.Destinazione Palermo, aeroporto di Punta Raisi.Atterrerà 53 minuti dopo.
Li attendono 6 agenti con le loro auto, 3 Fiat Croma blindate. Le vetture si muovono dall’aeroporto.Falcone sceglie la Croma bianca.Lui è al volante, la moglie gli siede accanto. Imboccano l’A29.
La campagna siciliana sfila ai lati con i suoi colori di maggio.Il sole taglia di traverso i finestrini mentre un caldo vento di scirocco accarezza tutti i loro volti.C’è odore di mare.
Sulla statale che corre parallela all’autostrada, una Lancia Delta si mette in moto. E’ quella di Gioacchino la Barbera.
Palermo dista solo 7 chilometri.Le auto si stanno lentamente avvicinando allo svincolo Capaci-Isola delle Femmine.Dalle colline che sovrastano l’autostrada alcuni uomini seguono la scena, scatto dopo scatto, come se fosse la sceneggiatura di un film.Ma un film proprio non è.
L’interruttore che mette in moto il meccanismo della strage è un segnale in codice.Una telefonata ” sbagliata”, entrata nella storia di sangue di Capaci.
“Pronto Mario?”
“No, ha sbagliato numero”
Il cellulare di La Barbera squilla alle 17:02.Sa che quella telefonata non è un errore ma un segnale preciso.Con lui, in un casolare vicino alla statale, ci sono altri sette uomini.Sono al vertice di Cosa Nostra.
La Barbera sale sulla sua Lancia Delta e imbocca la strada che corre parallela alla Palermo – Punta Raisi.Arrivato ad un punto prefissato si ferma e aspetta.Ferrante e Salvatore raggiungono l’aeroporto.Gioè e Troìa inseriscono una ricevente vicino a 500 chilogrammi di esplosivo, in un tombino dell’autostrada.Poi salgono con Brusca e Battaglia sulle colline di Capaci, sotto lo sperone di rocce bianche che interseca il profilo di Montagna Grande.Dall’autostrada, spuntano 3 Fiat Croma.La Barbera riparte e le segue a distanza.Alle 17:49 chiama Gioè sulle colline.
Meno di un secondo e la telefonata s’interrompe. Sono le 17,56 minuti e 48 secondi, l’uomo della collina, Giovanni Brusca, sfiora il tasto del comando a distanza.L’impulso raggiunge il tombino dove è collocata la ricevente.I cinque quintali di tritolo, seppelliti nel canale di scolo, divampano, il boato è enorme, solleva cento metri di asfalto.Si apre una voragine, larga trenta metri e profonda otto, che risucchia metallo, uomini, alberi, massi.
Nella prima auto catapultata a 5 metri gli agenti di scorta muoiono sul colpo: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.Nella seconda, spezzata in due tronconi, il giudice e la moglie, respirano ancora.Una pattuglia della polizia accosta.Giovanni Falcone e Francesca Morvillo moriranno all’Ospedale Civico di Palermo, un’ora più tardi.L’autista del giudice e gli altri due poliziotti, feriti gravemente, sopravvivono.L’uomo della Lancia Delta è ormai lontano.
L’esplosione di Capaci deflagra fino a Montecitorio.Il 25 maggio viene eletto il nuovo presidente della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro, 73 anni, democristiano.Lo Stato e la politica sono sotto accusa per la morte di 5 funzionari dello Stato.L’Associazione Nazionale Magistrati denuncia: il potere politico è fondato sul consenso criminale.
Ci saranno manifestazioni: a un mese dalla strage di Capaci, 100 mila persone arrivano a Palermo da tutta Italia per sfilare contro la mafia. Sono in gran parte giovanissimi.
Il governo Andreotti approva norme antimafia di emergenza: carceri speciali per i boss, indagini segrete di polizia e premi per i pentiti.
Il ministro della Giustizia Claudio Martelli propone Paolo Borsellino come Superprocuratore antimafia.Intanto il pentito Antonino Calderone avverte: ci saranno altri delitti eccellenti.
Paolo Borsellino lo ripeteva come fosse un’ossessione:“Il mio problema è il tempo ”.Lo diceva in quei cinquantasette giorni dell’estate 1992. Perché morto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino sapeva di essere per Cosa Nostra il primo della lista.
Il 19 luglio 1992 a Palermo è una calda domenica.Le indagini sulla morte di Giovanni non competono a Borsellino, ma alle sette del mattino il procuratore Giammanco gli comunica che finalmente potrà occuparsi anche delle indagini su Palermo e provincia, come lui da tempo richiedeva.
Paolo Borsellino pranza in famiglia nella casa di Villagrazia di Carini.Poi, nel tardo pomeriggio, decide di far visita all’anziana madre. Tra il mare e la casa della signora Maria a Palermo c’è un’autostrada, e quel pomeriggio le tre “croma” blindate su cui viaggiano il giudice e la sua scorta transitano vicino allo svincolo di Capaci, dove una striscia di vernice rosso sangue sul guard-rail già ricorda la strage del 23 maggio.
Arrivati in città, raggiungono via Mariano D’Amelio, una strada chiusa, ostruita al fondo da un muro di tufo che recinta un cantiere edile. Paolo Borsellino fa giusto in tempo a citofonare al numero civico 21, quando alle sue spalle esplode una Fiat 126 carica di tritolo.
Muore sul colpo e con lui i sei uomini della scorta: Antonio Vullo, Emanuela Loi, Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano.
Così si moriva a Palermo.Soli.Senza la protezione morale dello stato che si serve.Senza neanche il tempo di vivere.Senza un saluto, senza aver chiuso l’ultima pagina di un inchiesta.Soli e minacciati… lavorando e basta.Soli…Semplicemente soli.
A vent’anni di distanza dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio emerge quello che in molti nel 1992 sospettano: non può esserci soltanto la mafia dietro a quegli eccidi. Le indagini e i processi istruiti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino stavano scoperchiando l’intreccio ormai confermato tra Stato e mafia, tra uomini delle istituzioni e potere affaristico e criminale.
Qualcosa che nel 1992 si poteva soltanto sussurrare, ma che oggi si può gridare  a gran voce.

Intervista a Giuseppe Costanza, l’autista di Falcone sopravvissuto alla strage

“Ho Vinto Io”: Rosaria Schifani racconta la strage di Capaci

http://www.youtube.com/watch?v=4eqdsjrav9c&feature=share&list=FLkACoSwDssj_XxMTkX3K0IA

]]> 4003 23 maggio 1992: strage di Capaci http://anpimirano.it/2012/23-maggio-1992-strage-di-capaci/ Tue, 22 May 2012 18:43:44 +0000 http://anpimirano.it/?p=913 Leggi tutto "23 maggio 1992: strage di Capaci"]]> Sono passati 20 anni da quando la mafia uccise il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli esecutori sono stati presi ma i mandanti sono ancora liberi. Così come sono liberi i mandanti della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta, Emanuela Loi (prima agente donna a far parte di una scorta e a morire in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Questi sono i nomi che non dovremo dimenticare. Sono i nomi che conosciamo. E gli altri? Chi sono i mandanti delle stragi che hanno avvelenato il nostro Paese? Di chi la colpa per gli armadi nascosti, le agende rosse sparite, la giustizia negata? Di certo, come dice Wu Ming, “una società civile ansiosa e impaurita, nonché mobilitata sulla base della paura, è una società che tira la carretta a capo chino, più disposta a delegare scelte cruciali, più disposta ad accettare ogni politica che si annunci ansiolitica, senz’altro meno disposta a recepire le istanze dei movimenti. Movimenti che il potere addita all’opinione pubblica come piantagrane contrari al blocco d’ordine, pardon, alla concordia nazionale”. E allora? Le risposte forse le sappiamo ma vorremo averle davanti agli occhi, in un articolo di giornale che annunci a caratteri cubitali “Ecco i nomi dei mandanti delle stragi!”, con tanto di foto in prima pagina…chissà magari un giorno si riuscirà a sapere quello che tutti sappiamo e che Pier Paolo Pasolini ci aveva già indicato nel lontano 14 novembre del 1974:

Cos’è questo golpe? Io so

di Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Da non perdere il video “Ho vinto io” dove Rosaria Schifani racconta la sua storia:

http://www.youtube.com/watch?v=4eqdsjrav9c ]]>
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