Memoria – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Sun, 31 Jul 2016 13:55:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 13529763 6 Agosto 2016, Mulini di sopra, Mirano: “SIMBIOSI FIUME MUSON – FIUME OTA” http://anpimirano.it/2016/6-agosto-2016-mulini-di-sopra-mirano-simbiosi-fiume-muson-fiume-ota/ Sun, 31 Jul 2016 13:55:08 +0000 http://anpimirano.it/?p=8152 Leggi tutto "6 Agosto 2016, Mulini di sopra, Mirano: “SIMBIOSI FIUME MUSON – FIUME OTA”"]]> 6 Agosto 2016, Mulini di sopra, Mirano: “SIMBIOSI FIUME MUSON – FIUME OTA”

Hiroshima Mon Amour

La sera del 6 Agosto 2016, alle ore 21 ai “Mulini di sopra” di Mirano, avrà luogo “Simbiosi fiume Muson – fiume Ota”

Dal film “Hiroshima Mon Amour”:

La filosofia di Gunter Anders su “Hiroshima” voce di Valter Zanardi e lettura prefazione di Robert Jungk:

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Egildo Moro “Romo”, Partigiano Combattente http://anpimirano.it/2015/egildo-moro-romo-partigiano-combattente/ Sun, 01 Mar 2015 20:21:46 +0000 http://anpimirano.it/?p=6445 Leggi tutto "Egildo Moro “Romo”, Partigiano Combattente"]]> romo

Egildo Moro “Romo”, nato nel 1922, partigiano combattente della Brigata Gramsci sulle Vette Feltrine, vicecomandante di Paride Brunetti “Bruno”, ci ha lasciato il 28 febbraio.
Romo fu uno dei primi ad aderire al movimento partigiano. Partito da Padova dopo l’8 settembre del 1943, aderì subito al gruppo “Luigi Boscarin” in Val Mesaz. Durante i 20 mesi della guerra di Liberazione partecipò alle azioni con diverse brigate, sempre con ruoli di organizzazione interna e di combattente in prima linea.
Romo è stato sempre coerente con le idee, gli obbiettivi e le speranze della Resistenza e fino all’ultimo ha ribadito che rifarebbe le stesse scelte di vita.
Nel dopoguerra, quando iniziò la persecuzione nei confronti dei compagni partigiani, Romo è stato un punto di riferimento per i fuoriusciti nei paesi dell’est. Ciò è testimoniato dall’attestato rilasciatogli da Arrigo Boldrini “Bulow” nel 1984:
“L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – ANPI conferisce il diploma di benemerenza a Egildo Moro in riconoscimento della preziosa opera di solidarietà svolta a favore dei partigiani perseguitati negli anni del dopoguerra per fatti connessi con la lotta di Liberazione Nazionale. Il Presidente Arrigo Boldrini”
L’ultimo desiderio di Romo è quello di voler essere ricordato come “Partigiano Combattente”.

Il funerale in rito civile si terrà al cimitero di Mestrino (PD), martedì 3 marzo alle ore 11.30.

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Romo con il comandante Bruno

]]> 6445 «I dolori della tortura non cadono in prescrizione» http://anpimirano.it/2015/i-dolori-della-tortura-non-cadono-in-prescrizione/ Thu, 26 Feb 2015 15:29:42 +0000 http://anpimirano.it/?p=6437 Leggi tutto "«I dolori della tortura non cadono in prescrizione»"]]> Rapotez_OvadiaLuciano Rapotez, nato a Muggia, partigiano comunista, da anni segretario dell’Anpi di Udine, si è spento il 23 febbraio scorso, a quasi 95 anni. Se ne vanno con lui i dolori delle torture che gli vennero inflitte per 106 ore ininterrotte, per fargli confessare un delitto orrendo, un furto conclusosi con un triplice omicidio di una coppia di coniugi e della loro collaboratrice domestica. Di quel crimine, Luciano Rapotez era completamente innocente. Del fatto fu dapprima assolto in assise per insufficienza di prove, quindi rinviato in appello e, da ultimo, prosciolto in cassazione con formula piena, per non avere commesso il fatto. Con lui furono assolti i suoi presunti complici, tutti suoi compagni di lotta nella resistenza antifascista, tutti comunisti.
Di tutto ciò che avvenne, Luciano Rapotez conservava meticolosamente una doviziosa documentazione, ma io la sua storia l’ho conosciuta direttamente dalla sua voce e l’ho ascoltata ripetutamente nel corso di un documentario girato dalla regista Sabrina Benussi, una videomaker di grande vaglia animata da un’insopprimibile passione civile. A quel documentario girato nel 2010, ho partecipato insieme allo storico Marcello Flores e all’allora giudice Gherardo Colombo.
Luciano Rapotez era una persona di carattere gioviale, con un volto ridente. Era un uomo simpatico, diventammo infatti subito grandi amici e da allora, in ciascuna delle ricorrenze che hanno restituito all’Italia libertà e democrazia, dandole una dignità costituzionale dopo la vergogna dell’infame Ventennio nero, ricevevo una sua telefonata di saluto, nella quale mi richiamava alla comune militanza antifascista. Capitava, quando mi trovavo dalle sue parti in Friuli, che alla telefonata facesse seguito un incontro a qualche manifestazione o semplicemente in un caffè per un bicchiere di vino.
Ogni volta, ogni singola volta che l’ho incontrato, Luciano mi ripeteva quella frase: «Sai Moni, i dolori della tortura non cadono in prescrizione…».
La sua non era un’ossessione, non era neppure un lamento — non ne aveva assolutamente il tono — era un’indignazione vibrante per l’ingiustizia subita e, più che per quella subita da lui stesso, per quella intollerabile che permetteva ad esponenti degli organi dello Stato, di praticare quella ripugnante forma di vile e impunita brutalità contro esseri umani inermi, colpevoli o innocenti, anche dopo la proclamazione della Costituzione e a oltre due secoli dalla pubblicazione di Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri.
L’incredibile vicenda di Luciano Rapotez, è già stata raccontata in un libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, Il caso Rapotez, ed è stata oggetto di una trasmissione televisiva su Rete 4, condotta dal grande giornalista Guglielmo Zucconi.
Recentemente il calvario di Rapotez, è stato anche riportato alla memoria del lettore italiano sul Corriere della Sera del 4 Giugno 2011 da un appassionato articolo di Gianantonio Stella.
Ricordiamolo brevemente. In una sera di gennaio del 1955, dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Luciano Rapotez — ex partigiano che si era distinto per azioni di coraggio straordinario come il trasporto di armi ed esplosivi travestito da ufficiale repubblichino su treni pullulanti di soldati nazisti — viene circondato da tre uomini armati di pistola che si dichiarano poliziotti e mentre gli comunicano la grave imputazione, gli suggeriscono di fuggire per sfruttare la cosiddetta ley de fuga che permette di giustiziare un ricercato che tenti di scappare sparandogli alla schiena. Luciano non cade nella trappola. I tre poliziotti, ex fascisti reintegrati nei ranghi e probabilmente ebbri di spirito di vendetta, lo portano in questura e da quel momento inizia il suo inferno. Lo pestano per cinque giorni e quattro notti, lo sottopongono alla privazione del sonno, del cibo, dell’acqua, gli impediscono di espletare le funzioni fisiologiche, gli applicano l’elettricità ai genitali, inscenano perfino un finto suicidio.
Rapotez, nella Trieste di quegli anni, con il suo irredentismo revanscista, era il colpevole perfetto, comunista, ex partigiano, con un cognome slaveggiante: doveva essere colpevole. Ricordando quelle ore terrificanti, Luciano mi diceva: «Avrei confessato anche l’uccisione di Giulio Cesare». Poi, dopo 106 ore implacabili, ininterrotte, la cella e infine il lungo processo di cui ho già fatto cenno, il suo calvario ebbe fine.
Per porre fine a questa via crucis — e Luciano lo ricordava con profonda gratitudine — si era mosso anche Aldo Moro in persona dopo essere stato informato della sua persecuzione. Quando dopo tre anni e mezzo, esce finalmente dal carcere libero e riabilitato, Luciano non trova né la moglie, né i figli ad aspettarlo: la moglie si è rifatta una vita, «i tempi erano durissimi» spiega con partecipe comprensione.
Il sistema giudiziario riconosce le torture e le altre vessazioni che ha subito, ma per queste non viene risarcito e non gli vengono neppure porte delle scuse. Da quel momento, Luciano Rapotez inizia la sua battaglia legale per ottenere giustizia, assistito gratuitamente da avvocati solidali, rivolgendosi, ad ogni cambio di governo, alle più alte cariche dello Stato — dal Guardasigilli, al Presidente della Corte Costituzionale, fino al Presidente — ottenendo solo algide e ipocrite risposte burocratiche: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Agghiacciante.
Disgustato, Luciano emigra in Germania. Ciononostante non smette di condurre, indomito, la sua battaglia che continua anche quando, dopo la pensione, rientra in Italia.
Sta per cedere, ma nel 2001 vede in televisione la cronaca dei fatti del G8 di Genova e gli orrori della macelleria messicana della caserma Bolzaneto: capisce così che la sua lotta contro la tortura non è un fatto superato, ma una battaglia da proseguire nel presente e nel futuro.
In pieno XXI secolo, l’Italia è sprofondata nella sozzura di una dittatura sudamericana come testimonia Amnesty international.
Luciano riprende la sua missione sacrale e, combattendola, muore senza avere avuto l’agognata giustizia, ma trasmettendo un duro monito: «L’Italia è l’unico paese in cui le parole si pervertono oltre ogni limite: si scrive moderazione e si legge ferocia».
Ci lascia parole scolpite nel sangue e nelle lacrime: «I dolori della tortura non cadono in prescrizione». Lo sanno bene, oltre a Rapotez, i ragazzi di Genova 2001, i Giuseppe Uva, i Federico Aldrovandi, gli Stefano Cucchi, i Francesco Mastrogiovanni e tanti, tanti, troppi altri.

Moni Ovadia, Il Manifesto del 26 febbraio 2015

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24 febbraio 1945: i fascisti uccidono Eugenio Curiel “Giorgio” http://anpimirano.it/2015/24-febbraio-1945-i-fascisti-uccidono-eugenio-curiel-giorgio/ Tue, 24 Feb 2015 14:34:50 +0000 http://anpimirano.it/?p=6434 Leggi tutto "24 febbraio 1945: i fascisti uccidono Eugenio Curiel “Giorgio”"]]> curielI temi del rinnovamento anagrafico e della cosiddetta “rottamazione”, sembrano oggi monopolizzare l’attenzione del dibattito politico, sovente a prescindere dalla proposta avanzata. Nella storia non sono mancate fratture generazionali, tuttavia, i risultati più profondi in termini di rinnovamento si sono avuti quando tra vecchie e nuove generazioni si è determinata una saldatura incentrata sulle scelte di campo. La lotta di liberazione dal nazifascismo è un esempio in tal senso proprio per l’irrompere diffuso di giovani cresciuti nel regime che, nella clandestinità, trovarono un terreno d’incontro con i vecchi protagonisti dell’antifascismo sconfitto da Mussolini. Tra le figure dimenticate, eppure più significative, di quella pagina di storia si può annoverare quella del giovane scienziato e partigiano Eugenio Curiel di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.

Nato a Trieste l’11 dicembre 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in Ingegneria a Firenze e il Politecnico a Milano, si laureò in fisica e matematica a Padova nel 1933 con il massimo dei voti e una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Con la docenza universitaria, Curiel iniziò a partecipare anche ai seminari di studi dell’Istituto di filosofia del diritto. Ciò gli diede l’opportunità di curare l’altro versante delle sue passioni intellettuali, facendo i conti con la filosofia idealista di Croce e Gentile per arrivare attraverso Hegel al marxismo, secondo un percorso comune a tanti giovani della sua generazione. A questo periodo risalgono anche i suoi primi scritti e l’avvio di una più matura elaborazine politico-filosofica. Con altri giovani come Atto Braun, Renato Mieli (il padre di Paolo) e Guido Goldschmied costituì la cellula comunista di Padova, quindi nel ’36 stabilì un contatto con il PCI e partì per Parigi. Tra gli esiliati politici, l’arrivo di giovani italiani, che con l’entusiasmo e la voglia di fare si portavano dietro testimonianze dirette della situazione nel Paese, era atteso come una boccata d’aria fresca.

Tornato a Padova con le direttive del partito, Curiel dovette fronteggiare la delusione dei suoi giovani compagni, desiderosi di passare all’azione e poco propensi a dedicarsi alle sole attività di penetrazione nelle organizzazioni fasciste indicate dal centro estero del PCI. In coerenza con le direttive ricevute, Curiel iniziò una stabile collaborazione con il giornale universitario fascista “Il Bò”, dove scrisse 54 articoli tra il 1937 e il ’38 curandone la pagina sindacale. Le lunghissime discussioni redazionali si spostarono alle fabbriche, per l’intuizione di confrontare preventivamente le questioni da trattare nel giornale con gli stessi operai. Ciò consentì al gruppo di costruire solidi legami sociali nel mondo del lavoro, poi rivelatisi fondamentali con lo sgretolamento del regime. Ottenuto nel dicembre del 1937 il passaporto per motivi di studio, riuscì tornare a Parigi dove per due mesi ebbe modo di rafforzare sempre più i rapporti con Donini, Grieco e Sereni. Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convinse a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari che ancora gli erano rimasti e di non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF.

Nel 1938, abbandonata la collaborazione con “Il Bò” ed estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi razziali, Curiel tornò a Parigi in una fase difficilissima per le forze antifasciste, con la Guerra Spagnola avviatasi verso una tragica sconfitta e dissidi sempre più grossi tra le forze della sinistra. Gli offrirono diverse sistemazioni lavorative sicure in Francia, Svizzera e persino negli USA USA – dove ebbe l’opportunità di partire per fare da insegnante al figlio di uno dei più importanti magnati dell’industria cinematografica, Luis Burt Mayer – ma li rifiutò tutti per non abbandonare la sua militanza e l’impegno antifascista nel Paese. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio fu arrestato nel mese di giugno. Sottoposto a interrogatorio a San Vittore e mandato al confino a Ventotene, dal gennaio1940, Curiel si dedicò allo studio e alla formazione dei confinati antifascisti. Lasciata Ventotene, dopo tre anni, insieme agli altri confinati, Curiel tornò in libertà proprio alla vigilia dell’8 settembre.

Trasferitosi a Milano, su indicazione della direzione Alta Italia del PCI, con il compito di creare il Fronte della Gioventù, curare l’edizione settentrionale de “l’Unità” e della rivista “La nostra lotta”, diventò il «partigiano Giorgio». Dopo una medaglia d’oro al valor militare, una lapide e un inno partigiano a lui dedicato, di questa singolare figura, tanto interessante da meritare una sceneggiatura cinematografica, rimangono alcune vecchie pubblicazioni e il ricordo degli ultimi testimoni di quella storia. La generazione di Curiel diede alla guerra di liberazione una parte consistente di quadri e la sua base di massa. Giovani cresciuti nel regime, ma capaci di emanciparsi dal fascismo, aderire all’opposizione e affiliarsi nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie generazioni di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani inquieti e insoddisfatti dal regime c’era un salto generazionale, ciò nonostante tra essi si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza. I leaders del vecchio movimento antifascista, costretti all’emigrazione dopo il carcere e le violenze subite, senza l’apporto delle nuove generazioni difficilmente avrebbero potuto raggiungere una tanto vasta mobilitazione contro il movimento di Mussolini. Le nuove generazioni allevate a “pane e fascismo” e non “contaminate” dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole.

Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici e aver discusso il piano del numero de “l’Unità” in preparazione lasciò la redazione, riconosciuto sulla strada da un delatore, fu raggiunto e ucciso da una squadra fascista. Curiel morì a due mesi dalla liberazione di Milano, non aveva ancora compiuto 33 anni. Le cronache narrano che sul suo sangue un’anziana fioraia milanese gettò una manciata di garofani rossi. Tra tutti, per concludere, il ricordo dell’amico Giorgio Amendola: «Passammo, così, anche l’ultima notte del ’44, e salutammo con gioia il nuovo anno, quello della vittoria ormai certa. Ci vedemmo ancora una volta, qualche settimana dopo, e ci lasciammo in quel bar, all’angolo di Corso Magenta, da cui sarebbe uscito il 24 febbraio per andare in Piazzale Baracca incontro alla morte, alle pallottole dei fascisti. Anche la sua vita fu gettata nel rogo, come quella di tanti altri giovani. Ed il suo sacrificio, così crudele alla vigilia della liberazione, ha fatto di Eugenio Curiel, medaglia d’oro, un simbolo, il capo della gioventù della Resistenza». Quei giovani anteposero un ben preciso progetto, abbattere il regime e ricostruire da zero la democrazia, alla velleitaria pretesa di tagliare orizzontalmente ogni rapporto con le vecchie generazioni, non solo con quelle responsabili della dittatura, ma anche con chi lo aveva combattuto, seppur perdendo. Scelsero piuttosto di “rottamare” il fascismo.

Gianni Fresu (2012)

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La dura condanna dell’astensione italiana sulla risoluzione ONU contro la glorificazione del nazi-fascismo http://anpimirano.it/2015/la-dura-condanna-dellastensione-italiana-sulla-risoluzione-onu-contro-la-glorificazione-del-nazi-fascismo/ Fri, 13 Feb 2015 12:17:03 +0000 http://anpimirano.it/?p=6411 Leggi tutto "La dura condanna dell’astensione italiana sulla risoluzione ONU contro la glorificazione del nazi-fascismo"]]> Antifascisti-sempre-ANPI

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato lo scorso 22 novembre una mozione presentata dalla Russia che condanna i tentativi di glorificazione dell’ideologia del nazismo e la conseguente negazione dei crimini di guerra commessi dalla Germania nazista.

La Risoluzione esprime “profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell’organizzazione “Waffen SS”, anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l’organizzazione di manifestazioni pubbliche”.

Il documento rileva anche l’aumento del numero di attacchi razzisti in tutto il mondo.

Una iniziativa giusta, si dirà, visti i continui rigurgiti fascisti e nazisti ai quali si assiste sempre più spesso in diversi quadranti del mondo.

E invece no. Perché solo 115 dei Paesi rappresentati alle Nazioni Unite hanno votato a favore della mozione, mentre in passato il numero dei sì era stato assai più consistente, ad esempio 130 due anni fa. Incredibilmente ben 55 delegati, tra i quali il Governo italiano, si sono astenuti e 3 rappresentanti – quelli degli Stati Uniti, Canada e Ucraina – hanno addirittura votato contro.

La Vicepresidente nazionale dell’ANPI, Carla Nespolo ha inviato il seguente comunicato stampa, condiviso dall’ANPI Provinciale di Alessandria.

” L’astensione del Governo Italiano sulla risoluzione dell’ ONU, approvata a maggioranza, che sancisce il rifiuto del neonazismo nel mondo e respinge “ogni forma di negazione dei crimini nazisti”, è un atto grave e inaccettabile.

L’Italia è il Paese in cui la Resistenza al fascismo e al nazismo è stata tra le più forti ed estese d’Europa.

La Costituzione Italiana è, per specifica decisione dei Padri Costituenti, una Costituzione Antifascista.

Tanti partigiani, tanti giovani e tante donne, hanno lottato, sofferto e in molti casi hanno lasciato la vita, per sconfiggere nazismo e fascismo.

Vergognosa è l’astensione dell’Italia!

Il fatto che tanti altri Paesi Europei si siano astenuti, rappresenta una svolta pericolosa e regressiva nella stessa politica estera europea, ma non giustifica in alcun modo la scelta del Governo Italiano che ancora una volta ha rinunciato ad un ruolo di protagonista in Europa.

La decisione degli Stati Uniti d’America, del Canada e dell’Ucraina, di votare contro tale risoluzione, se mai, dimostra un’inaccettabile subalternità europea ed italiana, alla volontà americana.

Nè vale a giustificare tale scelta, il fatto che tale risoluzione sia stata proposta dalla Russia.

Tra l’altro si tratta di un documento molto simile ad altri, presentati nel 2011e nel 2012, e sempre votati all’unanimità o quasi, dall’Assemblea dell’ONU.

Persino Israele, Paese notoriamente amico degli Stati Uniti, ha votato a favore del rifiuto dell’ideologia fascista e nazista.

L’Italia si è astenuta! E questo è inaccettabile e deplorevole.

L’ANPI eleva alta e forte la propria voce, contro tale voto, che umilia la nostra storia democratica e offende la Resistenza, i suoi protagonisti e i suoi valori.”

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La famigerata foto. Chi manipola le fonti falsifica il presente e allontana la verità sulle #Foibe http://anpimirano.it/2015/la-famigerata-foto-chi-manipola-le-fonti-falsifica-il-presente-e-allontana-la-verita-sulle-foibe/ Thu, 12 Feb 2015 17:55:40 +0000 http://anpimirano.it/?p=6406 Leggi tutto "La famigerata foto. Chi manipola le fonti falsifica il presente e allontana la verità sulle #Foibe"]]> foibe

Franc Žnidaršič

Janez Kranjc

Franc Škerbec

Feliks Žnidaršič

Edvard Škerbec

Sono i nomi di cinque abitanti di Dane fucilati dai fascisti e questa è la foto di quell’attimo. Qui viene immortalato quel momento che poi è stato usato in una maniera incredibile e offensiva per commemorare il giorno del ricordo. Fate una ricerca su “google immagini” con il termine “foibe” e vedrete quante di queste foto appariranno. Mistificazione allo stato puro. Anche Vespa l’ha fatta vedere, ma per sua sfortuna, in studio c’era Alessandra Kersevan.

Basta con l’uso sbagliato e truffaldino di questa foto, lo dobbiamo a Franc Žnidaršič, Janez Jranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec.

La sequenza fotografica

Il dossier sulle manipolazioni di questa foto

L’opinione di Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica e studioso di fotografia.

Approfondimento sul giorno del ricordo

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Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica http://anpimirano.it/2015/il-giorno-del-ricordo-a-uso-e-consumo-della-terza-repubblica/ Thu, 12 Feb 2015 17:28:28 +0000 http://anpimirano.it/?p=6403 Leggi tutto "Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica"]]> hqdefaultQuando nel 2004 venne istituito il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata l’Italia della “seconda repubblica” stava confusamente cimentandosi, attraverso una convergenza bipartisan, nella riscrittura della storia nazionale per legge.
La narrazione del passato aveva da sempre rappresentato un terreno di scontro politico tra i partiti e l’uso pubblico della storia in chiave revisionista aveva segnato non solo la crisi del paradigma fondativo della democrazia, l’antifascismo, ma soprattutto la piena legittimazione di una “dualità memoriale”, quella dei vinti equiparata a quella dei vincitori, nella quale le ragioni e i torti delle parti in conflitto venivano portate a sintesi da una semplificazione di linguaggi, gesti simbolici ed elementi di fatto che lambivano la parificazione di vittime e carnefici.
L’istituzione del “Giorno del ricordo”, impropriamente indicato nella ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947 visto che le violenze delle foibe si verificarono nel settembre ’43 e poi nel maggio ’45, si collocò come fattore di “riequilibrio” memoriale tra la sinistra e la destra come se la storia fosse una coperta con cui avvolgere la propria legittimità politica anziché faticosa verifica di fatti e processi complessi.
La riscrittura “condivisa” delle vicende storiche italiane comportò l’oblio su questioni centrali della nostra identità nazionale come il consenso al fascismo, le leggi razziali o i crimini di guerra compiuti dalle truppe del regio esercito, e rimasti impuniti, in Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss e nelle colonie africane.
Le ragioni politiche di quello sciagurato “patto sulla memoria” coincisero con le esigenze dei partiti della seconda repubblica che riaffermarono su quel terreno la rispettiva legittimità a guidare il paese nella democrazia dell’alternanza.
Tutto ciò all’alba della nascente “terza repubblica”, quella senza Senato elettivo e imperniata sul Cancellierato forte, potrebbe apparire addirittura superato. Il fattore storico-memoriale sembra aver perduto da un lato la centralità valoriale della legittimità democratica, rappresentata dall’alterità fascismo-dittatura; antifascismo-libertà, e dall’altro quel significato generale di lettura e senso del rapporto tra passato e presente in grado di connettere tra loro vissuti e vicende generazionali tanto distanti a settant’anni dalla Liberazione.
In questo quadro, con la crisi della rappresentanza acuita da quella economica, il conflitto sulla memoria cambia forma e tende a risolversi in un complesso unificante quanto identitariamente indefinito che forse meglio di ogni altra cosa si identifica con la nozione del “partito della nazione”. L’oblio sui crimini di guerra italiani piuttosto che le strumentalizzazioni politiche delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe sembrano perdere la loro stessa alterità, inglobate da una narrazione a-conflittuale, e tendenzialmente vittimaria, che tutto tiene insieme e dunque tutto equipara in modo indolore.
Così, aperto il settennato con la visita alle Fosse Ardeatine, il neo Presidente della Repubblica celebra pochi giorni dopo il “Giorno del ricordo” e l’immagine complessiva appare sempre più sfocata in un quadro della rappresentazione della storia patria che abbandonando la rielaborazione critica del passato si concentra sulla centralità di un presente senza storia.

Davide Conti, Il Manifesto del 10 febbraio 2015

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Tutta la passione di un comandante http://anpimirano.it/2015/tutta-la-passione-di-un-comandante/ Tue, 10 Feb 2015 11:48:06 +0000 http://anpimirano.it/?p=6398 Leggi tutto "Tutta la passione di un comandante"]]> Omniroma_Image__0022_040115_MGZOOMMassimo Rendina, comandante partigiano, non c’è più. Aveva 95 anni (era nato a Venezia nel 1920), forse era nell’ordine delle cose, ma è difficile pensare a quello che resta dell’antifascismo senza di lui.
È stato una figura carismatica, un grande cuore e una straordinaria intelligenza, capace di appassionare gli studenti in tante scuole di Roma con la sua eloquenza antica e coinvolgente, con la tangibile passione per la libertà e la giustizia che lo animavano.
Presidente dell’Anpi regionale del Lazio, era stata la sua ostinazione a ottenere da Veltroni la creazione della Casa della Memoria a Roma. Ne era stato a lungo il principale animatore e la vera ispirazione: aveva la visione di un punto di riferimento internazionale, e con la sua competenza di uomo della comunicazione si adoperava (purtroppo con successo limitato) affinché disponesse delle più avanzate tecnologie per collegarsi con il mondo intero.
Ogni conversazione con lui era intessuta di ricordi dei suoi rapporti con figure importanti della storia, da Aldo Moro a papa Wojtyla, sempre raccontati con una prospettiva insolita, piena di rispetto ma mai subalterna.
La storia della sua vita è un filo che attraversa la storia d’Italia (una lunga intervista che facemmo alla Casa della Memoria bastò solo a raccontarne una metà; ne pubblicheremo una parte sul «manifesto» nei prossimi giorni).
Giornalista prima della guerra, poi ufficiale dei bersaglieri in Russia, ne torna ferito e aderisce subito dopo l’8 settembre alla Resistenza, nelle brigate Garibaldi con cui entrerà a Torino liberata il 25 aprile. Nel dopoguerra, lavora a «l’Unità», poi entra alla Rai, dirige il telegiornale, viene cacciato da Tambroni perché reo di antifascismo, e reintegrato da Moro. Continuerà a scrivere su giornali e riviste, e sarà autore di due libri utilissimi: Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995) e il prezioso Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995).
Claudio Costa ha curato nel 2011 un film che porta il suo nome di battaglia, «Comandante Max», in cui Massimo Rendina racconta i suoi anni di guerra, in Russia e nella Resistenza.
Quando finalmente ci mettemmo seduti per un’intervista vera e propria, parlammo a lungo dei rapporti fra cristianesimo e comunismo. Era un cattolico convinto, restato sempre schierato a sinistra, in modo indipendente, critico, e proprio per questo incrollabile.
Per tutta la vita, ha continuato ad aderire non ai partiti, ma ai principi.
Me lo ricordo dopo un 25 aprile particolarmente difficile, a Porta San Paolo, quando Renata Polverini, allora presidente della Regione Lazio, ebbe la sfacciataggine di salire sul palco e alcuni dei partecipanti pensarono di punirla tirandole uova o qualcosa del genere – e colpirono Massimo invece. Lui questo gesto lo disapprovava e diceva: è quasi un fatto simbolico, certe forme di protesta, invece di colpire il bersaglio reazionario, finiscono per fare male a noi. Forse aveva ragione, forse no; ma ci stava male.

Alessandro Portelli (Il Manifesto del 10/2/15)

http://youtu.be/D5uXc4zCFE0?list=PL60F55FF1BE69F3D7

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12 luglio 1942: Strage di Podhum http://anpimirano.it/2015/12-luglio-1942-strage-di-podhum/ Sat, 07 Feb 2015 20:38:51 +0000 http://anpimirano.it/?p=6385 Leggi tutto "12 luglio 1942: Strage di Podhum"]]> La targa commemorativa della strage
La targa commemorativa della strage

Chi va in visita oggi al villaggio di Podhum, distante una decina di chilometri da Fiume, può ottenere informazioni sulla tragedia consumatasi in quel luogo il 12 luglio 1942 dal signor Branko Cargonja, nato nel 1941. Aveva un anno di età quando, insieme a sua madre, finì in un campo di concentramento nei pressi di Palermo in Sicilia.
Oggi è presidente dell’UAB, associazione dei combattenti antifascisti di Cavle, una borgata della quale quanto resta di Podhum è una frazione. Nelle immediate vicinanze di Podhum, costruito nell’immediato dopoguerra, si può visitare un Parco della Rimembranza, circondato da un alto muro, al cui interno sorge un altissimo monumento a forma di fiore i cui petali sono formati da lastre di ottone: una per ciascun fucilato. Al centro del Parco, in fila, si vedono tombe ricoperte da lastre di marmo: tante quanti furono i fucilati. Tutto intorno al Parco, sul muro di cinta, all’interno, sono murate lapidi di bronzo con i nomi e la data di nascita di ciascun fucilato. Molti cognomi si ripetono. Ban, Barak, Baretincic, Brnja, Burul, Caval, Cucic, Grabar, Hatezic, Juricic, Kukuljan, Marsanic, Matejcic, Petrovic, Reljac, Rozic, Stancic, Stipic, Skaron, Supak e Zezelic: sono i cognomi delle persone che persero la vita, fucilate dai soldati italiani quel 12 luglio, in un campo ai piedi di una collina non lungi da Podhum. Le vittime di quel massacro, compiuto per ordine del prefetto della Provincia del Quarnero Temistocle Testa ed eseguito sotto il comando del maggiore Armando Giorleo, erano tutti abitanti di Podhum che fu poi dato alle fiamme. I fucilati erano maschi per lo più dai 16 ai 64 anni. I bambini, i vecchi e le donne, l’intera popolazione del paese, furono deportati nei vari campi di internamento in Italia, dai quali parecchi di loro non fecero più ritorno.

L’eccidio fu compiuto, secondo Testa, per vendicare “sedici soldati uccisi dai ribelli di Podhum” nella prima decade di luglio, mentre fonti del Fascio di Fiume puntarono il dito, all’epoca, sulla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, mandati dal regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare i “barbari slavi”. Nel caso concreto dovevano essere snazionalizzati i bambini di un villaggio, Podhum appunto, che insieme all’intera vasta regione alle spalle di Fiume, era stato annesso alla nuova Provincia del Carnaro. La quale, dopo essere stata una delle più piccole provincie del Regno sabaudo, si gonfiò a tal punto con l’incorporazione del Gorski Kotar fino al fiume Kupa, da diventare una delle maggiori dell’Italia, ma al tempo stesso la meno italiana, con una popolazione al 90 per cento “allogena”, e cioè croata e slovena. Le fonti italiane non hanno mai fornito informazioni precise sui due coniugi, dei quali non indicano neppure le date di nascita, né le loro professioni, limitandosi a recitare: “soppressi a Podhum da parte jugoslava” il 16 giugno 1942 (cfr. “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni: 1939 1947”, ediz. Società di Studi Fiumani, Roma, 2002). Secondo le fonti partigiane i due maestri elementari vennero fucilati il 14 giugno, dopo un processo sommario, “per attività di spionaggio” condotta dai coniugi Renzi contro il Movimento di Liberazione. In particolare Giovanni Renzi viene indicato come “organizzatore e capo di una banda di miliziani belogardisti al soldo dei servizi segreti militari italiani”. I due maestri, peraltro, erano malvisti, anzi odiati dalla popolazione di Podhum per le dure e immeritate punizioni e i maltrattamenti inflitti ai bambini loro affidati solo perché non riuscivano ad esprimersi in italiano. Da parte mia ho appurato che la donna, nativa di Patti in provincia di Messina, aveva cinquantanni, mentre lui, nativo di Trieste e “di qualche anno più anziano”, era “seniore” della Milizia fascista (MVSN).

In un resoconto telegrafico del prefetto Testa, rimasto nel ricordo della popolazione come “il boia del Fiumano e dei Territori Annessi della Kupa”, non vengono menzionati i Renzi come coloro che furono all’origine della repressione per vendetta delle truppe italiane. Il “caso” di Podhum si inserisce, in verità in un disegno generale di sterminio delle popolazioni slave sui territori annessi della Slovenia e della Croazia nel quadro, cioè, di un’operazione preparata accuratamente. Risale al 1° marzo 1942 la malfamata Circolare “3-C” del generale Mario Roatta comandante della II Armata operante in quei territori, un documento programma (riassunto in un opuscolo di circa 200 pagine e distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito), grazie al quale nel solo mese di luglio 1942 furono deportati diecimila civili dai territori coinvolti in una cosiddetta Operazione Primavera. Le direttive di quella circolare assunsero come cardine operativo il principio di spopolamento tramite la deportazione dei civili e il massacro dei “ribelli”. In altre parole, la “3C” di Roatta, contenente tra l’altro la formula “non dente per dente ma testa per dente”, rappresentò il paradigma di una normativa repressiva di tipo coloniale nei confronti delle popolazioni dei territori annessi destinati alla bonifica etnica con i mezzi più brutali, facendo terra bruciata, in vista di una imminente colonizzazione italiana. Con documenti alla mano lo spiega lo studioso Davide Rodogno nel suo volume “Il Nuovo Ordine Mediterraneo” (2003) e in un saggio sui territori occupati in Slovenia e Croazia apparso sulla rivista triestina “Qualestoria” (2004) dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia.

Piani di sgombero della popolazione
Le operazioni per lo “sgombero di intere popolazioni” mediante distruzione di villaggi, fucilazioni e internamenti erano cominciate in Slovenia e Dalmazia in aprile, ramificandosi col passare delle settimane. Stando al Rodogno, il 23 maggio, a Fiume, Roatta incontrò Mussolini, il quale ribadì che “la migliore soluzione si ha quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario”. A sua volta Roatta “espose al duce il suo personale metodo per risolvere la situazione”. Bisognava innanzitutto “chiudere la frontiera con la (nuova) provincia di Fiume e con la Croazia, sgomberare tutta la popolazione che abitava ad oriente del vecchio confine, sgomberare tutta la regione per una zona di profondità variabile da 3 a 4 chilometri”. Mussolini concordò “nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone”. Nello stesso mese di maggio, infatti, furono dati ordini per approntare campi di internamento per ventimila persone, alle quali si sarebbero unite in seguito alcune centinaia di migliaia per far posto a coloni italiani (un piano che non sarà realizzato per la capitolazione dell’8 settembre 1943), sicché il numero complessivo dei campi di internamento distribuiti lungo l’intero territorio del Regno d’Italia, senza considerare quelli costruiti nelle regioni occupate dell’Adriatico orientale, raggiungerà la cifra di duecento. Nel giugno 1942 si passò alla fase esecutiva con la benedizione di Mussolini, secondo il quale si doveva reprimere la popolazione “con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri”. Parole alle quali va accostata, per la regione dei Territori Annessi alla Provincia di Fiume, la definizione del Prefetto Testa, secondo il quale l’occupazione italiana di quei territori era “il più efficiente esempio di colonizzazione (…) di un popolo che ogni giorno di più sta dimostrando di essere quello che è sempre stato, cioè una razza infe­riore che deve essere trattata come tale e non da pari a pari”. Era razza inferiore solo perché si ribellava all’asservimento (cfr. Teodoro Sala “Guerra e amministrazione in Jugoslavia 1941-43: un’ipotesi coloniale” in Annali della Fondazione Luigi Micheletti, l’Italia in guerra, N. 5/1990-1991).
Per cominciare furono organizzate vaste “rappresaglie sui familiari di latitanti ribelli”. Un’ordinanza del 7 giugno stabilì che tutti coloro i quali avessero abbandonato i Comuni di residenza per unirsi ai ribelli sarebbero stati iscritti in apposite liste compilate da ogni Comune. Una volta catturati, gli iscritti alle liste sarebbero stati passati per le armi; le loro famiglie considerate ostaggi, quindi confinate nelle loro case (e passate per le armi se le avessero abbandonate) oppure deportate e i loro beni confiscati. Stando alla circolare, era necessario conseguire almeno il risultato di rendere “inabitabile la zona per i ribelli e inutilizzabili tutte le sue risorse”. Nei fatti le case non furono mai confiscate, bensì distrutte col fuoco dopo immancabili saccheggi. In più il Comando del XVIII Corpo d’Armata chiese e ottenne dal superiore Comando d’Armata l’autorizzazione di distruggere tutte le case e villaggi ribelli, di fucilare i maschi “a secondo delle condizioni e delle circostanze”, di internare le popolazioni compresi donne, vecchi e bambini sorpresi nella loro zona di residenza. Le forme più estreme di repressione furono applicate nei villaggi dei territori slavi inclusi nella Provincia del “Carnaro” ovvero nella vasta zona dei “Territori Annessi del Fiumano e della Kupa”, che andavano dal Castuano al Monte Nevoso, da San Pietro del Carso e Primano fino a Grobnico, da Costrena (Susak) a Pasac e Cavle fino a Delnice e Cabar sulle montagne della “Svizzera croata” come era sempre stato chiamato il Gorski Kotar. Lo storiografo Amleto Ballarini, profugo fiumano a Roma dal 1947, coautore del poderoso volume “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume” già citato, constata che già nell’aprile del 1942, con un’ordinanza del prefetto Testa del 24 di quel mese, l’esercito italiano fu autorizzato a compiere rappresaglie sugli ostaggi e sulla popolazione civile del territorio, senza aggiungere che lo stesso Testa, in data 30 maggio, “in virtù dei poteri conferitigli dal R. D. Legge del 18 maggio 1942-XX n. 452 per i Territori Aggregati alla Provincia di Fiume”, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’internamento nei campi in Italia di un numero indeterminato ma da noi esattamente già riferito di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano “allontanati giovani maggiorenni senza infor­mare le autorità”. Convinto che essi avessero raggiunto “nel bosco i ribelli” “per commettere azioni di banditismo, ladronerie e terrorismo”, il prefetto se la prese con le famiglie, facendole deportare. Non solo. Il manifesto rese noto: “in data odierna sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia”.
Ricorderemo una raccomandata del 25 giugno 1942 spedita dal Prefetto di Bolzano allo Stato Maggiore dell’Esercito, nella quale il funzionario, preoccupato, comunicava: “Sono giunti in questa provincia 25 sfollati (sic!) dalla provincia di Fiume, congiunti di ribelli, che sono stati sistemati nei Comuni di Salandro e di Lasa”. Il Prefetto pregava che non venissero più “assegnati altri sfollati da Fiume”, alla provincia di Bolzano perché essi suscitavano “cattiva impressione nella popolazione allogena”, cioè tedesca. Il manifesto di Testa del 30 maggio, intanto, ammoniva, nella sua conclusione, che la rappresaglia sarebbe continuata. Infatti, continuò.

Ancora repressioni
Già il 4 giugno gli uomini del 2° Battaglione Squadristi di Fiume furono mandati a incendiare le case dei seguenti villaggi i cui nomi originali erano stati in precedenza italianizzati:
Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje,, tutte ad eccezione di dieci;
Bittigne di Sopra (Gornje Bitinjej, tutte eccetto la scuola e due officine di un ente agricolo italiano; Monte Chilovi (Kiiovce,e, tutte eccetto la chiesa, la Casa dei ferroviari e quattro case private;
Ratteccevo in Monte (Ratecevo, tutte le case, esclusa la chiesa.
Lo stesso giorno, nel capoluogo comunale di Primano (Prem) fu incendiata una casa.
A KilovCe vennero fucilate 24 persone, ma le vittime furono molte di più, come si apprende dal manifesto fatto affiggere dal comando del battaglione a scopo intimidatorio, perché i corpi di molte vittime della spedizione erano disseminati nei campi ed i fascisti, in attesa di rinforzi, non si erano azzardati a contarli. Saltando (o ignorando) altre ben più sanguinose repressioni il già citato Ballarini ci fa sapere che il 25 giugno uno speciale tribunale fascista condannò a morte tre “alloglotti” dei dintorni di Fiume e l’indomani, 26 giugno, “si ebbe notizia che 13 ostaggi erano stati fucilati”, non si dice dove. Aggiungiamo noi altre sanguinose repressioni che precedettero di poche settimane l’eccidio di Podhum, tutte compiute non lontano da Podhum. Un comunicato del generale Lorenzo Bravarone informò che il 6 giugno, durante un’operazione condotta nell’estrema parte nord­orientale dell’Istria, non lontano da Abbazia e Fiume, erano state arrestate e deportate nei campi di concentramento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone, abitanti di Castua-Kastav, Marcegli-Marcselji, Rubessi-Rubessi, San Matteo-Viskovo e Spincici; i loro beni mobili, compreso il bestiame grosso e minuto, furono “confiscati” dalle truppe per le loro cucine o abbandonato al saccheggio delle truppe stesse. Le loro case furono incendiate, dodici persone passate per le armi senza alcun processo. In una comunicazione riservata al questore di Fiume, non datata, ma presumibilmente risalente al mese di giugno 1942 firmata dal vice­commissario Eugenio Colonna e dal “seniore” della Milizia fascista Ercole Santucci, si legge: “… stamane il 2° Battaglione squadristi emiliani con l’ausilio dell’Ufficio di PS di Mattuglie e della Tenenza CCRR di Castua, dopo aver provveduto all’accerchiamento delle frazioni Giorgini (?), Spincici, Tometici, Bani e Serdoci di Castua, ove risiedevano i trentadue giovani che recentemente si sono uniti alle bande dei partigiani, procedette al fermo dei familiari dei predetti, nonché degli abitanti delle case vicine a quelle di costoro (…). Dopo che… ebbe provveduto alla confisca dei beni mobili dei fermati, il 2° Battaglione squadristi emiliani procedette ad una azione di rappresaglia verso le abitazioni di coloro che erano passati ai partigiani (…). Gran parte della popolazione del Castuano che assisteva all’operazione stessa ha manifestato il desiderio di essere internata nel Regno… Il numero degli internati è di N. 500’’. Dal che si nota la spudoratezza fascista di contrabbandare per desiderio degli abitanti di quei villaggi una deportazione che li portava a subire ulteriori sofferenze e perfino la morte nei “campi del duce”. Parecchi di loro, infatti, finirono nel campo di sterminio “Kampor” sull’isola di Arbe dove, tra il giugno 1942 e l’inizio di settembre 1943, su sedicimila deportati ne morirono di stenti, di fame e di malattia oltre tremila, per la gran parte bambini e vecchi. Scrivendo ai giorni nostri di quel “campo di lavoro”, il giornale “Secolo d’Italia” (23 novembre 2011) affermava testualmente: “Non era né un campo di concentramento, né un campo di sterminio”, e le vittime furono “in maggioranza comunisti croati e sloveni”. Figuratevi comunisti in fasce o di pochi anni, vecchi ultrasettantenni e donne d’ogni età. Purtroppo, tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio, altre spedizioni fasciste seminarono distruzioni e morte in paesi della stessa zona, con il massacro di numerosi abitanti e la distruzione col fuoco di decine e decine di case a Brnelici, Zoretici, Milasi, Tmovic’i, Kukuljani, Podkilavac, Cernik, Mavrinci ed altre bor­gate. La distruzione di Podhum, quindi, fu soltanto il momento saliente di una catena di crimini di guerra. Non a caso, alla spedizione delle truppe contro quel grosso villaggio, presero parte anche i già incontrati battaglioni Squadristi di Fiume e Squadristi emiliani.

Podhum fu condannato a morte non tanto perché avesse dato alla Resistenza più uomini di altri villaggi della zona, e non soltanto perché ignoti paesani avevano ucciso i due maestri della scuola elementare. Podhum era il maggior centro abitato nella zona dell’aeroporto di Grobnico, ai margini della camionabile Luisiana che allacciava Fiume a Karlovac, situato ai confini della regione del Gorski Kotar nella quale gli italiani avevano intrapreso un’operazione anti-guerriglia in grande stile, la cosiddetta Operazione Risnjak. L’uccisione dei due Renzi offrì solo il pretesto agli occupanti per compiere il massacro. Quello di Podhum fu soltanto uno delle centinaia di crimini di guerra, purtroppo rimasti impuniti, compiuti dall’occupatore italiano nei territori della Slovenia, Croazia, Dalmazia, Erzegovina, Montenegro ed altri territori della Jugoslavia invasi dalle truppe di Mussolini all’inizio di aprile 1941, ma per la ferocia con cui venne eseguito e il risultato orrendo ottenuto, non potrà mai essere dimenticato. Come si legge nel libro Tragedija sela Podhum (tr.: La tragedia del villaggio di Podhum) scritto dallo storico croato Ivan Kovacic, ex direttore dell’Istituto storico del Movimento di Liberazione di Fiume e Litorale croato, tuttora residente a Fiume, i preparativi per l’attacco contro il villaggio, per la sua distruzione, lo sterminio della sua popolazione maschile e la deportazione di tutti gli altri abitanti, ebbe inizio ancora l’8 luglio del 1942. Quel giorno, in località Kisur, non lontano dall’altura di Kikovica, si attendò un grosso reparto di truppe italiane scese dai monti del Gorski Kotar. Nei tre giorni successivi a quel reparto si unirono altre unità inviate da Fiume, sicché fu chiaro che si apprestavano a sferrare un’operazione di “rastellamento” e “pulizia” del territorio dalle “bande dei ribelli comunisti” che nella zona montana della Provincia ampliata, all’epoca consistevano in un battaglione di trecento uomini, il 1° del II Distaccamento di liberazione nazionale della Croazia. Nessuno comunque poteva immaginare che, invece di affrontare i “ribelli” nei boschi e sui monti, quelle truppe armate fino ai denti sarebbero state impiegate per terrorizzare la popolazione dei villaggi inermi subito al di là del vecchio confine di Fiume, bruciarli e fucilare i contadini. Fin dalle prime ore del mattino del 12 luglio, un reparto di 250 soldati, con cinque carri armati, accerchiò il paese. Mentre il grosso manteneva l’assedio, alcune decine di soldati entrarono a Podhum, affiggendo manifesti con i quali si comunicava alla popolazione l’imposizione del coprifuoco con il divieto di qualsiasi movimento dalle 8 alle 10 del mattino di quel giorno. Conclusa l’affissione, i soldati presero ad entrare nelle case cacciandone fuori tutti i maschi dai 15 ai 65 anni di età. Senza molte parole, ma puntando minacciosamente le armi, raccolsero duecento uomini, spingendoli fuori dal paese.

La paura che aveva invaso la popolazione si trasformò in sgomento in quegli uomini quando alcuni di loro, che comprendevano la lingua italiana, ascoltando gli ordini dati dal maggiore Giorleo ai suoi soldati, capirono che li stavano portando alla fucilazione. Se ne resero perfettamente conto, poi, quando al maggiore Giorleo si avvicinò un ufficiale dell’aviazione del vicino aeroporto, chiedendogli se per caso c’erano fra gli uomini da fucilare anche operai occupati sul campo d’aviazione. Gli fu risposto: “Per ordine del prefetto, non si fanno eccezioni”. Poco dopo, di fronte alle vittime predestinate, si presentò il comandante della stazione dei Carabinieri di Jelenje, Luigi Menaldo, estrasse dalla borsa d’ordinanza alcuni fogli e prese a leggere i nomi dei morituri, dichiarati parenti stretti di “banditi ribelli” e perciò condannati a morte. Questi, fatti uscire dalle file, vennero successivamente fucilati a piccoli gruppi, cinque alla volta. I primi furono Nikola Cucic, Matija Caval, Stjepan Hatezic, Blaz Marsanic e Vinko Rozic. Spinti dai soldati, i cinque si allontanarono di circa 200 metri, allineandosi in un avvallamento dal quale non potevano esser visti dai loro compaesani, i quali udirono però, eccome, il fragore delle raffiche di una mitragliatrice. Dei cinque uno tornerà vivo, Nikola Cucic. Più di due anni dopo si saprà: prima che partisse la raffica, l’uomo spiegò di essere un funzionario dello Stato italiano, addetto alla manutenzione delle strade; potè presentare i documenti e perfino una fascia tricolore che, al lavoro, portava sul braccio. E questo gli salvò la vita. “Ieri sera tutto l’abitato di Podhum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti militari dell’armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Podhum stop Il resto della popolazione et le donne et bambini sono stati internati stop”.

Trascinati di fronte al plotone d’esecuzione, riuscirono a sfuggire al piombo con la fuga, mentre un terzo che pure aveva cercato di scappare, fu raggiunto dalle raffiche durante l’inseguimento. Sul luogo della strage nessuno degli ufficiali, carabinieri, soldati e camicie nere andò a contare i cadaveri. Qualcuno si limitò a fotografarne i mucchi. Bene o male, il “lavoro” era stato compiuto. Mentre erano in corso le fucilazioni, il villaggio venne saccheggiato e poi incendiato. Il fuoco distrusse esattamente 370 case di abitazione e 124 altri edifici. Oltre mille capi di bestiame grosso tra pecore, mucche, cavalli e maiali, e 1300 capi di bestiame minuto furono portati via. Infine 889 persone, ossia 185 famiglie, finirono deportate nei campi di internamento in Italia: 208 maschi anziani, 269 donne e 412 bambini. Uno dei superstiti all’eccidio, Roko Reljac, ha lasciato una testimonianza inserita in un libro di testo per le scuole elementari della Regione di Fiume dal titolo NOB i socijalisticka revolucija (trad.: La LPL e la rivoluzione socialista) curato dagli storici fiumani Antun Giron e Petar Stercic, pubblicato a Zagabria nel 1975. La riportiamo: “Il 12 luglio 1942 riuscii a sfuggire alla fucilazione presso il villaggio di Podhum dove quel giorno gli Italiani massacrarono la popolazione del mio paese. Le cose andarono così: quel giorno era domenica e tutto era calmo. Mia moglie era uscita per andare a Susak a vende­re la legna. La mia casa sorgeva al centro del paese dove alle 8 di mat­tina arrivò un camion militare dal quale scese un soldato, entrò in casa mia e mi consegnò un manifesto, ordinandomi di affiggerlo subito, cosa che feci. Il manifesto, firmato dal prefetto della Provincia di Fiume, Testa Temistocle, diceva che chiunque fosse stato sorpreso per la strada dopo le ore 10 antimeridia­ne sarebbe stato fucilato. Dopo averlo incollato al muro, rientrai in casa e non uscii più.Nel frattempo tornò mia moglie. Non era riuscita ad arrivare a Susak ma soltanto al villaggio di Cavle, da dove i soldati italiani la costrinsero a tornare indietro. Subito dopo entrò in casa un altro soldato che, puntandomi contro il fucile, mi ordinò “Fuori, via!”. Nel frattempo notai che un carro armato si stava avvicinando al paese nel quale erano già stati radunati dieci paesani. Intorno al paese e nel paese, ma anche sulle colline circostanti, tutto era stato bloccato dalle truppe italiane. Ci condussero alla fine del paese, sulla strada che porta all’aeroporto sulla piana di Grobnico. Arrivati a un centinaio di metri dalle ultime case del paese, vi trovammo un folto gruppo di persone di quella parte del villaggio arrivate prima di noi, circa cento uomini, una donna e alcuni minorenni. Sempre alla fine del paese vedemmo quattro camion con a bordo i lanciafiamme. Per un po’ restammo seduti per terra, circondati dai soldati e dalle mitragliatrici. Poi arrivò un brigadiere dei Carabinieri, comandante della stazione di Jelenje, Monaldo Luigi. Si avvicinò a un maggiore e, accanto a lui, prese a leggere ad alta voce da un elenco che aveva portato con sé i nomi di nostri compaesani ‘ribelli’ e cioè partigiani, indicando pure il numero civico delle loro case. Cinque uomini, familiari dei ‘ribelli’ si fecero avanti e subito vennero messi da parte”. Dal grande gruppo, inoltre, separarono i più vecchi ed i ragazzi, ordinandogli di sedere per terra. Quando finirono di separare gli uomini, condussero via i primi cinque messi da parte, spingendoli verso le pendici della collina sui fianchi del paese, in direzione dell’aeroporto. “Arrivarono così a circa 200 metri da noi, ai piedi della collina. Alcuni minuti dopo sentimmo una raffica di mitragliatrice, seguita da alcuni colpi di fucile o di pistola. Di nuovo si avvicinarono i soldati e dal grande gruppo separarono altri quindici uomini, conducendoli nella stessa direzione dei primi cinque, accompagnati stavolta anche dal brigadiere Monaldi e dal maggiore. Dopo alcuni minuti si udirono diverse raffiche di mitragliatrici, seguite da singoli spari di pistola o di fucili con i quali, probabilmente, veniva dato il colpo di grazia ai fucilati”. Indietro tornarono il brigadiere, il maggiore, alcuni soldati e ufficiali. Questi ultimi condussero via un altro gruppo di uomini destinati alla fucilazione. “Stavolta c’ero anch’io. Arrivati ai piedi della collina scorsi dapprima due carri armati e poi un mucchio di cadaveri. Fra l’uno e l’altro carro, a terra, erano posizionate le mitragliatrici, accanto alle quali c’erano i mitraglieri. Dal lato dei carri armati rivolto alla collina c’era un reparto di soldati e, dal lato opposto rivolto a Sud, gli ufficiali dei reparti scelti per eseguire il massacro e la distruzione col fuoco del paese…Giunto sul posto in cui giacevano i corpi dei compaesani massacrati, mi staccai dagli altri e presi a correre disperatamente verso l’altura”. A una morte certa scelse la possibilità della salvezza. Dopo un centinaio di metri “udii le raffiche delle mitragliatrici, un dolore alla gamba destra ed alla scapola”. Era ferito, ma vivo. Continuò perciò a fuggire, correndo come un pazzo verso la collina, finché non si accasciò sfinito. Raccogliendo le ultime briciole di forza, si trascinò in una buca sulla pietraia, nascondendosi dietro un folto cespuglio. Così Roko fu salvo. Dietro di lui, prendendo però una direzione diversa, era fuggito pure Josip Reljac, fratello diciassettenne di Roko. Pure lui venne ferito, ma riuscì a salvarsi ugualmente. Alcuni soldati impegnati nell’inseguimento dei fuggiaschi, non riuscirono a rintracciarli. Tuttavia spararono diversi colpi. Roko Reljac uscì dal suo rifugio appena a sera inoltrata, raggiungendo il bosco, e, nel bosco, i partigiani ai quali si unì e con i quali combatterà fino alla liberazione. Dal bosco potè vedere le ultime fiamme che distruggevano il suo paese.

A conclusione del massacro compiuto fuori dal paese, i soldati italiani tornarono a Podhum, dove poterono udire le madri dei fucilati, le vedove e gli orfani che lanciavano al cielo i loro urli disperati, mentre gli uomini tacevano. La tragedia, purtroppo, non si era ancora conclusa. Nell’interminabile pomeriggio di quella insanguinata domenica d’estate i soldati cacciarono nuovamente gli abitanti superstiti dalle loro case, vi penetrarono e, incoraggiati dagli ufficiali, si dedicarono “entusiasticamente” al saccheggio. Via via che i soldati di alcuni reparti portavano fuori gli animali dalle stalle e dagli ovili, altri si riempivano gli zaini di oggetti trovati nelle case; gli uomini di altri reparti appiccavano il fuoco alle abitazioni, alle stalle e alle officine vuote. Nuovamente si levarono in alto le urla disperate delle donne, strillarono i bambini, i vecchi non trattennero più le lacrime. Davanti alle fiamme che distruggevano i loro focolari, i circa novecento superstiti di Podhum – vecchi, donne e bambini – furono spinti brutalmente dai soldati, radunati nuovamente e, come bestie, caricati su camion, nuovamente suddivisi per gruppi, per essere trasferiti a Fiume, da dove sarebbero stati trasportati verso i campi di internamento: dall’isola adriatica di Arbe a Gonars nel Friuli, fino a Le Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone: i campi della fame, delle epidemie e, per molti, della morte. Da un telegramma del 30 luglio 1942 firmato da Buffarini-Guidi si apprende che il Ministero dell’Interno comunicò a 49 Prefetture l’arrivo nei campi di concentramento dei deportati da Podhum e da altre zone croate e slovene occupate e annesse, precisando che gran parte di essi provenivano dal territorio fiumano:
“Est stato disposto immediato allontanamento da provincia del Carnaro di altri mille congiunti di ribelli – punto – prefetto Fiume regolerà partenze at piccoli scaglioni (…) disponendo che viaggino possibilmente in scompartimenti separati facendoli accompagnare da agenti di forza pubblica et munendoli di dichiarazione indicante nominativi et loro qualità sgomberati”.
L’Ispettorato Servizi di Guerra avrebbe rimborsato poi le ferrovie per quei trasporti in base a tariffe ridotte “per sgomberare popolazioni civili da frontiera orientale”. Vennero pure date disposizioni per dislocare i deportati in numero di venti in ciascuna delle quarantanove provincie, sottoponendoli ai lavori forzati. Si chiariva:
“La particolare, delicata, situazione in cui sono venute a trovarsi le provincie del Carnaro e di Zara, nonché quelli dei territori jugoslavi annessi all’Italia, ha chiesto la pronta attuazione di speciali provvidenze di ordine politico (…) Recentemente è stato disposto l’allontanamento dalla provincia del Carnaro di nuclei familiari per un complessivo di mille unità e lo smistamento in altre province escluse quelle dell’Italia meridionale e in­sulare, in ragione di venti per ciascuna”.

Si concludeva che era “da presumere che altri sfollamenti verranno effettuati dai territori della frontiera orientale” per cui si invitavano i Prefetti “di voler fin d’ora predisporre la ricezione di altri contingenti di sfollandi”. Laddove per sfollati si intendevano i deportati. E furono altre migliaia ad affluire da Fiume, come dicono documenti del 26 agosto e 22 settembre del prefetto di Fiume, che nel telegramma di agosto sollecitò la “designazione località cui dovranno essere avviati duemila sfollandi pericolosi ribelli che sono stati parzialmente ristretti campo militare di Arbe”. Tornando a Podhum, la cronaca dell’eccidio potrebbe concludersi con la scena degli incendiari e fucilatori che, diversamente dai fucilati che non avevano più voce e dagli “sfollati” che non avevano più lacrime per piangere, se ne tornarono alle loro caserme cantando, con gli zaini ricolmi fino all’inverosimile, carichi di tutto ciò che i saccheggiatori erano riusciti a trovare nelle case prima di impugnare i lanciafiamme. Sui muri di una casa distrutta dal fuoco rimase la scritta W IL DUCE!
Una sola casa fu risparmiata a Podhum, quella di una vecchia donna quasi novantenne inchiodata al letto accanto al marito gravemente ammalato. Insieme a loro sfuggirono al grande crimine i fratelli Ignazio e Roko Ban che, all’ordine perentorio di abbandonare la casa quel mattino, si erano nascosti nella fossa per la conservazione delle rape accanto alla cucina. Quando poi il fumo dell’incendio penetrò anche nel loro rifugio e dal villaggio erano già state portate via le donne, i bambini e i vecchi, uscirono dalla fossa, nascondendosi nell’orto dietro casa in attesa della notte e della salvezza. Forse si riferiva alla strage di Podhum una delle lettere che i soldati italiani scrivevano a casa e perciò controllata dalla censura. Di essa si sono conservati negli archivi i brani “tolti di corso”. Nel luglio 1942 il soldato Fioravanti Luigi così scriveva a Fioravanti Giuseppe residente a Palombara Sabina: “Carissimi genitori (…) ma ogni tanto però ci portano a rifare qualche rastrelamento adesso cie semo stati 4 giorni avemo fatto un macielo tutte le case pruciate con tutta la robba dentro… vediamo se si sottomettono fino che loro sparano a noi noi pruciamo sempre le case adesso. vederai che la smettono se noi sequitamo a fare così a pruciare tutto io caro fratello ò preso una svelia che è tanto carina porta 8 giorni di carica e poi 2 barattoli di caffe…”.

Uno dei rarissimi testimoni dell’eccidio di Podhum oggi ancora vivente è Milan Zaharija, intervistato all’età di 86 anni per la rivista “Zeleno plavo” di Fiume n. 26 del settembre 2011. Nell’estate del ’42 aveva sedici anni e già da dieci mesi pur vivendo nel paese, faceva 11 corriere partigiano. Sulla sua “pagella” di combattente della Resistenza si leggono le lunghe marce sulla neve del Gorski Kotar e una grave ferita riportata in battaglia con la perdita di un braccio nettamente troncato da una scheggia di granata da mortaio negli scontri per la liberazione di Lokve. A salvarlo dal massacro del 12 luglio 1942 fu il caso. Il giorno precedente aveva lasciato il paese per accompagnare un gregge di una novantina di pecore messe insieme dai paesani per mandarle ai partigiani, e precisamente a un re­parto ridotto quasi alla fame, il cui accampamento distava meno di un chilometro da Podhum, sul monte Crni Vrh. Ma lasciamo raccontare le cose al protagonista:
“Quelli di Podhum – dice – come gli abitanti degli altri villaggi della zona di Grobnico, di tanto in tanto mandavano medicinali, viveri, vestiario ed altri aiuti ai partigiani nel bosco. Così avvenne quel sabato, l’11 luglio, con le pecore. A prenderle scesero dal monte due partigiani, ma le bestie non vollero mettersi in viaggio senza il loro pastore, che ero io, e perciò partii con loro. Ero vestito leggero: camicia e pantaloni corti. Sul monte, invece, anche a luglio faceva freddo, sicché il comandante mi rimandò a casa. Tornando a valle, verso le quattro del mattino arrivai all’altezza della frazione di Soboli quando scorsi, non visto, sei carabinieri. Mi fu subito chiaro che stava per succedere qualcosa di brutto. Senza farmi vedere, raggiunsi la casa dei miei amici, anche loro pastori, Stanko e Ivan Broznic e in essa mi nascosi. Mentre me ne stavo rifugiato in quella casa, vedemmo che nei pressi della cava di pietra si stavano radunando alcuni reparti di soldati. Decidemmo perciò di allontanarci, fuggendo sopra una collina distante un chilometro. Dalla cima di una roccia vedemmo i soldati che cominciavano a spingere gli abitanti del paese verso la cava da dove, un gruppo alla volta, li condussero alcune centinaia di metri più avanti. E lì li fucilavano, gettando i cadaveri nella cava. Vidi pure fuggire i fratelli Roko e Josip Reljac che riuscirono a raggiungere la collina ed a nascondersi nella macchia. Tentò la fuga anche Cvetko Zezelic, ma prese la via dei campi e non ce la fece a salvarsi: le raffiche lo raggiunsero dopo due, trecento metri. Io e Ivan Broznicc non potemmo far altro che assistere al massacro e piangere…”.

Dalla collina Zaharija assistette pure, poco più tardi, all’incendio del suo paese, alla sua distruzione. Tornò poi tra i partigiani e vi resterà fino alla liberazione del suo villaggio e dell’intera Jugoslavia. Nel settembre del 1943, dopo la capitolazione dell’esercito italiano, aiutò centinaia di soldati – tra i quali c’erano probabilmente anche quelli che avevano incendiato Podhum – a sfuggire alla caccia dei tedeschi e a raggiungere l’Italia…

Giacomo Scotti da “Patria indipendente” del 19 febbraio 2012

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Marcello Basso: intervento al Senato del 16 marzo 2004 (Istituzione della giornata del Ricordo) http://anpimirano.it/2015/marcello-basso-intervento-al-senato-del-16-marzo-2004-istituzione-della-giornata-del-ricordo/ Fri, 06 Feb 2015 16:57:14 +0000 http://anpimirano.it/?p=6380 Leggi tutto "Marcello Basso: intervento al Senato del 16 marzo 2004 (Istituzione della giornata del Ricordo)"]]> Marcello Basso
Marcello Basso

Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, intervengo sul provvedimento “Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milosevic; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.

Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di riaprire qualche libro di storia e di riascoltare le versioni ed i racconti di alcuni rappresentanti dell’Associazione nazionale partigiani. Da questo punto di vista è senz’altro utile – lo suggerisco – la lettura dei “Quaderni della Resistenza” pubblicati da parte del Comitato regionale dell’ANPI del Friuli-Venezia Giulia.

La memoria storica va sottratta alla speculazione. Quando parliamo di seconda Guerra mondiale, di fascismo e di Resistenza vi è un’unica storia. Questa storia riguarda tutti gli italiani ma – direi – anche tutti gli europei. È una storia che non può essere né ignorata né oltraggiata. È incontestabile, allora, che la Germania nazista e l’Italia fascista, scatenando la seconda Guerra mondiale, si macchiarono della responsabilità di causare all’umanità oltre 50 milioni di morti, la metà dei quali, circa 25 milioni, civili.

Tra il 1940 e il 1945 si verificò un vero e proprio scontro di civiltà. La libertà e la democrazia alla fine prevalsero, ma il prezzo pagato fu senz’altro immane. Né la “riconciliazione” di cui oggi si parla può comportare il riconoscimento di valori comuni fra chi combatté per restituire il mondo alla libertà e alla democrazia e chi propugnò la cosiddetta civiltà dei cimiteri, dei reticolati e del cono d’ombra dell’Olocausto.

A quasi sessant’anni di distanza, guardiamo con sentimento di cristiana pietà a tutti i morti. Di fronte alla morte, il giudizio si interrompe! La morte rende tutti uguali! Ma fermo e dirimente rimane il giudizio sulle vite consumate. Quelle vite possiamo continuare a giudicare: le vite per la libertà e le vite per il regime. “Tutti uguali davanti alla morte, non davanti alla storia”, scrisse Italo Calvino.

E ancora, possiamo interrogarci non sulle ragioni, ma sulle motivazioni di chi quasi per un soffio o per un impennamento dell’anima, scelse, giovanissimo, di stare dall’altra parte della barricata. Rispondere a queste motivazioni significa trovare una spiegazione storica, non una giustificazione. E comunque nessuna revisione storica potrà mai cancellare gli orrori di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e della Risiera di San Sabba. Nessuna revisione storica potrà mai cancellare i campi di sterminio di Dachau, di Auschwitz e le tante altre stazioni di un’interminabile via crucis di dolore e di vittime innocenti.

La nuova Europa, della quale l’Italia è parte importante e integrante, e che andrà via via comprendendo gran parte dei Paesi dell’Est europeo, nasce dalla Resistenza e dalla liberazione dal nazismo e dal fascismo. Dobbiamo avvertire in modo forte la necessità di ravvivare il ricordo di una storia di cui si rischia di perdere traccia.

Ai giovani andrebbe spiegato che c’è una differenza sostanziale tra dittatura e democrazia e che la forza di una Nazione come la nostra, ma direi la forza dell’intera Europa, sta proprio nella sua memoria storica, non come eredità di un odio e di una vendetta, ma come memoria costitutiva della sua vita civile e politica. L’Europa unita non potrà permettere che rinascano gli orrori del passato.

La nuova Europa ha davanti a sé grosse responsabilità: i problemi enormi di interi popoli che devono riorganizzare il loro futuro sulla democrazia e sulla libertà, affermando il valore universale della pace e della convivenza tra gli uomini come attuale e vitale esigenza, ricostruendo una cultura che sappia ascoltare e che sia in grado di considerare le diversità come una ricchezza.

Nelle zone della frontiera orientale, nelle terre istriane e dalmate, per secoli italiani e slavi hanno vissuto in pace, senza violenza alcuna. L’equilibrio tra le diverse etnie fu mantenuto prima, e per diversi secoli, dalla Repubblica di Venezia, successivamente dalla stessa Austria.

A rompere questo equilibrio è stato il nazionalismo fascista, che introdusse ogni sorta di violenza, compreso un vero e proprio genocidio culturale. Si può dire che la spirale d’odio fu innescata dal discorso di Mussolini a Pola, già nel 1920: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.

Fu così! All’avvento del fascismo seguì una politica di “snazionalizzazione” nei confronti di oltre mezzo milione di slavi incorporati nel Regno d’Italia dopo la prima Guerra mondiale. Il fascismo proibì a queste popolazioni di parlare la loro lingua e di stampare i propri giornali; si chiusero le loro scuole, si sciolsero le loro organizzazioni culturali, sportive e ricreative; si bruciarono le loro sedi.

Si volle, in questo modo, italianizzare e fascistizzare tutta la Venezia Giulia, eliminando ogni espressione politica e culturale slava. Si italianizzarono persino i cognomi. Si trattò di una sistematica opera di colonizzazione dei territori slavi della Venezia Giulia; molti contadini slavi furono cacciati e le loro terre affidate a contadini italiani. Il tribunale speciale emanò sentenze di condanna a morte anche nei confronti degli sloveni, colpevoli – si dice – di cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni italiane.

Il 5 aprile 1941 l’Italia dichiarò guerra al Regno di Iugoslavia. Fu un’aggressione, come si sa, assolutamente immotivata. La Iugoslavia soccombette alle 56 divisioni italiane, tedesche, ungheresi e bulgare. Fu l’inizio di una violenza inaudita, di massacri di civili, di fucilazioni di partigiani. Lo Stato iugoslavo fu smembrato e diviso tra la Germania e l’Italia. In Croazia il Governo fu affidato ad un fascista croato, Ante Pavelic, e agli ustascia. Vennero armati cetnici e ustascia, che iniziarono una lunga lotta intestina che causò quasi 800.000 morti.

Iniziarono anche le deportazioni di massa: decine di migliaia di civili, vecchi, donne e bambini, vennero rinchiusi in tanti lager gestiti da italiani, come quello di Arbe, l’attuale Rab. È questa un’altra pagina vergognosa dell’occupazione italiana della Slovenia che contribuì ad allargare la spirale d’odio.

Dopo l’8 settembre il Friuli e la Venezia Giulia escono dalla sovranità italiana per essere affidati a un commissario nazista. Con ordinanza di Hitler si costituì la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana; territori destinati a diventare una marca del Terzo Reich tedesco, qualora la Germania avesse vinto la guerra.

Le formazioni fasciste della Repubblica Sociale vennero usate per l’attività poliziesca, delatoria e antipartigiana sotto il comando delle SS. Questo fu il vero ruolo dei fascisti, del Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” e dei battaglioni della X MAS, tanto cari all’onorevole Menia da citarli – come dicevo – nella relazione al provvedimento in esame!

La resistenza iugoslava agli aggressori fascisti e nazisti iniziò già nel luglio del 1941; come si sa, fu guidata dai comunisti di Tito unitamente alle diverse espressioni del nazionalismo iugoslavo. Si fece valere l’equazione “italiano uguale fascista”, equazione che le migliaia di italiani che morirono combattendo al fianco delle formazioni partigiane slave riuscirono solo in parte a mettere in discussione. Del resto, tale equazione era stata introdotta e diffusa proprio da Mussolini.

Qui va ricercata la ragione per cui le foibe del 1943 in Istria furono la tomba anche di qualche innocente che aveva il torto di essere italiano.

Dopo l’8 settembre molte regioni iugoslave insorsero contro gli invasori perpetrando persecuzioni particolarmente violente. Le vittime furono, a volte, semplici impiegati comunali, simbolo del potere dominante italiano, commercianti e piccoli gerarchi locali, sacrificate sull’altare di vendette personali che poco c’entravano con la politica e la guerra.

Tristemente esemplare – lo voglio ricordare – è l’uccisione della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole unicamente di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. L’allora rettore dell’università di Padova, il grande antifascista professor Concetto Marchesi, volle apporre una targa in ricordo della studentessa presso la sua università.

È indubbio che tra gli insorti vi fu anche la presenza di autentici criminali. La vicenda delle foibe è stata, sicuramente, una grande tragedia. È comunque da rifiutarsi, perché aberrante, un accostamento tra foibe da una parte e Shoah dall’altra che, con la Risiera di San Sabba, visse sul confine orientale una pagina particolarmente drammatica. Quest’ultima fu il frutto razionale e scientifico dell’ideologia nazista, la stessa che produsse Auschwitz, Mathausen e Dachau.

I partigiani slavi e italiani non hanno mai avuto tra le loro finalità la purezza della razza, così come risulta fra l’altro dalla relazione finale della commissione mista italo-slovena che recentemente ha concluso i propri lavori.

Diversamente i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati inferiori: ebrei, slavi, zingari. Stessa sorte era ovviamente riservata agli oppositori politici. Il metodo adottato dai nazisti era il ricorso agli eccidi di massa, alle stragi, alle rappresaglie contro ostaggi innocenti. Ecco allora che usare le foibe come contraltare dell’Olocausto per dimostrare che tutti sono stati ugualmente colpevoli e operare, così, una indiretta rivalutazione del fascismo è un esercizio da evitarsi.

Rimane la gravità degli infoibamenti anche come conseguenza dello scoppio di odi e rancori collettivi a lungo repressi.

Alle foibe del 1943 seguirono le foibe dell’aprile-maggio 1945. Anche in questo caso vi furono coinvolti non solo fascisti e nazisti, ma altresì persone che con il fascismo non c’entravano: è ragionevole pensare, allora, che qualcuno c’entrasse in quanto italiano. Fu sicuramente la conseguenza dell’odio che permeava il confine orientale; fu la conseguenza dell’imbarbarimento dei costumi, dello stravolgimento dei valori, degli odi nazionali.

Nelle foibe finirono anche esponenti del CLN che si opponevano all’annessione dei territori italiani di confine da parte di Tito, il quale, sul finire del conflitto, assunse l’antico comportamento di tutti i vincitori di guerra: annettere parti, anche consistenti, del territorio degli sconfitti, proprio nella logica del nazionalismo espansionistico.

E, infine, è possibile collegare le foibe con l’esodo, è possibile, cioè, considerare l’esodo come la conseguenza della paura delle foibe?

Un illustre istriano, il professor Diego de Castro, autore di due pubblicazioni (“La questione di Trieste” e “Memorie di un novantenne”) lo esclude. Se si fosse trattato di pulizia etnica i morti sarebbero dovuti ammontare a centinaia di migliaia. Le motivazioni erano, piuttosto, politiche e non etniche.

Si può dire, in riferimento all’esodo, che solo le persone fuggite nel maggio 1945 lo fecero per paura dell’infoibamento: si trattava di persone compromesse con i fascisti e con i nazisti. Sicuramente i grandi esodi, da Fiume nel 1946 e da Pola nel 1947, non sono ascrivibili a questa paura.

Non è certamente ascrivibile alla paura delle foibe l’ultimo esodo, quello del 1955, conseguente all’Intesa di Londra dell’ottobre 1954 che definì la spartizione del territorio libero: Trieste all’Italia e la zona B, comprendente fra le altre le cittadine di Pirano, Umago, Porto Rose, Isola e Capodistria alla Iugoslavia. L’esodo fu la conseguenza di una precisa scelta di libertà: vivere sotto il regime comunista di Tito, con un confine chiuso e una frontiera invalicabile, o, invece, scegliere l’Italia.

Si trattava di optare per la cittadinanza italiana o per quella iugoslava. Per la grande maggioranza degli istriani era impensabile vivere separati da Trieste, considerata la vera capitale dell’Istria.

Questa è stata la vera tragedia dell’Istria, assieme, ovviamente, a quella degli infoibati, che vanno ricordati con pietà e ai familiari dei quali è doveroso conferire una medaglia in ricordo, escludendo coloro i quali hanno compiuto efferati delitti contro la persona e hanno giurato fedeltà e volontaria sudditanza al supremo commissario del Terzo Reich.

L’esodo è stato un’immane tragedia umana. Una ferita che, così come è stato scritto, inciderà fino alla morte nell’animo di tutti coloro i quali abbandonarono la propria terra. Per questo l’abbandono non rappresentò l’ultimo momento del dolore, ma soltanto il suo inizio.

Una tragedia, dicevo, immane che, come sostiene Mario Bonifacio, istriano, classe 1928, antifascista, andatosene con la famiglia da Pirano nel 1955 e che oggi vive a Venezia ed è attivo nell’Istituto storico della Resistenza di quella città, determinò la scomparsa dei cosiddetti istro-veneti, la popolazione veramente autoctona dell’Istria, almeno da 2.500 anni. Si tratta dei discendenti degli Istri, affini ai Venetici e, al pari degli altri veneti, culturalmente latinizzati da Aquileia.

Questa è storia! Io voterò questo provvedimento! Lo farò perché ritengo giusto ricordare chi è morto in modo orrendo nelle profondità delle foibe carsiche. Lo farò perché ritengo sia inderogabile ricordare il dramma dell’esodo istriano-dalmata; vorrò farlo, però, nella chiarezza più assoluta.

Delle nefandezze e delle violenze perpetrate anche dall’esercito italiano in Iugoslavia mi ha parlato a lungo un artigliere, mio padre. La sua divisione, nel Sud della Iugoslavia, dopo l’8 settembre 1943, si riscattò combattendo non contro, ma assieme alle partigiane e ai partigiani di Tito; non facendosi prendere dai tedeschi, ma facendo prigioniera un’intera divisione tedesca. Poi, gli artiglieri italiani si imbarcarono per Bari e da lì, assieme agli Alleati, parteciparono alla liberazione totale dell’Italia. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).

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