ugo de grandis – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Sun, 30 Nov 2014 07:13:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.2 Il rastrellamento di Schio http://anpimirano.it/2014/il-rastrellamento-di-schio/ Thu, 27 Nov 2014 16:28:08 +0000 http://anpimirano.it/?p=6220 Leggi tutto "Il rastrellamento di Schio"]]> Schio, funerali dei partigiani uccisi
Schio, funerali dei partigiani uccisi

Nella seconda decade del novembre 1944 dodici antifascisti scledensi dellla Btg Fratelli Bandiera caddero nella trappola delle delazioni e finirono nel campo di concentramento di Mauthausen. Solo uno fece ritorno nell’estate del ’45, William Pierdicchi. Fu lui a testimoniare l’orrore dei campi di sterminio e a scatenare in città la reazione di una popolazione ignara. L’eccidio del 7 luglio (54 morti, di cui 14 donne) nelle carceri mandamentali ne fu la più tragica conseguenza.
A 70 anni da quei drammatici avvenimenti, lo studioso della Resistenza Ugo De Grandis, li ricostruirà in una serata aperta al pubblico e voluta dal centro studi Igino Piva “Romero”, venerdì 28 novembre alle 20.45 a palazzo Toaldi Capra a Schio.
Dall’archivio della Corte d’Assise Straordinaria di Vicenza sono emersi documenti che indicherebbero le responsabilità della retata del novembre 1944.
A FINE NOVEMBRE. Fu una vasta operazione di polizia voluta dal fascismo scledense per riscattare la propria immagine nei confronti del Comando tedesco, dopo gli insuccessi collezionati nei mesi precedenti nel mantenimento dell’ ordne pubblico e nella repressione della guerriglia.
Come si rileva dalle testimonianze dei sopravvissuti e dalle denunce dei familiari delle vittime, l’operazione, condotta dal 18 al 30 novembre, condusse al fermo di una trentina di partigiani e collaboratori. Dopo la consegna ai tedeschi del  primo antifascista tratto in arresto, Bruno Zordan, da parte del commissario prefettizio Giulio Vescovi, gli altri furono catturati in casa dagli agenti della Polizia ausiliaria passati al servizio della Feldgendarmerie delle scuole Marconi, Anselmo Dal Zotto, Cirillo Zalunardo, Ivo Contaldi, Firmino Gasparini e Ferdinando Sartori.
LO SCIOPERO. A seguito del ritrovamento all’interno del Lanificio Rossi, di un volantino incitante allo sciopero, il primo a cadere in sospetto fu Bruno Zordan, invalido di guerra, che aveva già subito un processo per offese al capo dell’Ufficio Politico Investigativo di Schio, Savino Bassi. Riuscito in un primo tempo a sottrarsi all’arresto, Bruno fu poi indotto da Vescovi a ripresentarsi a lui, che lo accompagnò personalmente al Comando tedesco di via Maraschin. La stessa sera del 19 novembre furono arrestati Pierfranco Pozzer, 19 anni, residente in via Pasini, e Italo Galvan, 39 anni, che aveva casa e bottega di calzolaio in via don Francesco Faccin. Più tardi si scopri che a denunciare i due, secondo i documenti recuperati da De Grandis, era stato Anselmo Dal Zotto, amico d’infanzia di Pozzer, che l’estate precedente aveva fatto da tramite tra i due per il passaggio di una pistola e di alcuni caricatori.
In autunno Dal Zotto si era arruolato nella Polizia ausiliaria di Vicenza e, dietro la promessa di un aumento di stipendio. aveva accettato di tornare a Schio per collaborare alle indagini.
LE TORTURE. Bruno Zordan e Pierfranco Pozzer furono sottoposti a lunghe e pesanti torture alle scuole “Marconi” e alle carceri mandamentali di via Baratto, così pesanti che il giovanissimo Pierfranco tentò il suicidio; sopraffatti dalle violenze, ai due sfuggirono alcuni nomi degli altri componenti il battaglione, ma fortunatamente Elisabetta Spiller, moglie del capocarceriere Pezzin, udì la confessione attraverso i muri e, tramite una conoscente che sapeva in contatto con la Resistenza, riuscì a dare l’allarme. Molti antifascisti riuscirono a portarsi in salvo, ma altri, non avvisati o forse ritenendosi al sicuro, caddero nei giorni successivi nelle mani dei tedeschi della Feldgendarmerie.
Agli inizi di dicembre alcuni antifascisti meno compromessi furono rilasciati: Vincenzo Bonato, Carlo Mazzon, Pietro Tradigo, Oreste Garuzzi e i familiari di Pierfranco Pozzer, ma nelle mani dei fascisti rimaneva ancora una quindicina di partigiani, tra i quali Antonio Canova “Tuoni” che, in qualita di comandante del Btg. “F.lli Bandiera”, era a conoscenza dell’intera struttura organizzativa. Se “Tuoni” avesse ceduto alle violenze, con la sua confessione avrebbe potuto compromettere poco meno di duecento collaboratori: era un rischio  che non si poteva correre.
IL COMMANDO. Dopo il secondo interrogatorio, durante il quale era stato bastonato e torturato con un ferro da stiro rovente, “Tuoni” fu ricoverato privo di sensi all’ospedale Baratto e guardato a vista da due militi della Brigata Nera, in attesa di riprendere le torture. La sera del 6 dicembre 1944 un commando di una quindicina di partigiani, guidati da Valerio Caroti “Giulio”, comandante della Brigata “Martiri della Val Leogra”, con un’azione ardita e incruenta liberò Antonio Canova.
La ritorsione partì nei confronti dei partigiani ancora trattenuti, che, la mattina dell’11 dicembre, furono tradotti al carcere di San Biagio e consegnati ai tedeschi accompagnati da gravissime accuse. Dieci giorni più tardi, il 21 dicembre, un camion scoperto e un torpedone partirono dal capoluogo e, dopo una breve sosta per panne al ponte della Gogna, portarono una settantina di prigionieri al lager di Bolzano.
I NOMI. Tra i prigionieri vi erano quindici scledensi: tre donne catturate nel corso di un’operazione di polizia a Magrè (Caterina Baron, Fosca Lovato e Irene Rossato) e dodici antifascisti arrestati nella retata di novembre: Giovanni Bortoloso (32 anni), titolare dell’omonima cartolibreria in piazza Rossi; Andrea Bozzo (48 anni), che gestiva una tipografia in via Baratto; Livio Cracco (33 anni), commesso di drogheria, residente in via Pilastro 2; Anselmo Thiella (37 anni), operaio da Bozzo, abitante a Magrè in via Riolo; Vittorio Tradigo (27 anni) contabile presso la Banca Nazionale del Lavoro e residente in via Maraschin; Giuseppe Vidale (49 anni), capo elettricista al Lanificio Rossi, residente in via Pasubio; Andrea Zanon (46 anni), che aveva un officina di calderaio in via Castello; William Pierdicchi (23 anni), studente, residente in via Porta di Sotto, e infine Roberto Calearo (19 anni), di Vicenza, che in quei giorni si trovava a Schio ospite di Pierfranco Pozzer, suo compagno di studi.
IL BLOCCO E. Durante la sosta ai Lager di Bolzano, nell’attesa che fosse formato il convoglio ferroviario per la deportazione fu scoperto un tentativo di fuga dal Blocco E, quello dei “pericolosi”, dove erano segregati gh antifascisti scledensi e ciò aggravò ulteriormente la loro situazione. L’8 gennaio 1945 un gruppo di quasi 500 prigionieri, tra i quali i dodici scledensi, fu condotto a Mauthausen che, assieme al suo sottocampo principale, Gusen, era l’unico classificato nel “Grado III”, ossia per “detenuti con gravi pendenze penali, non rieducabili.
LE MORTI. Le durissime condizioni di vita cui furono sottoposti i detenuti nell’inverno 1944-45 causarono, nell’arco di tempo di poche settimane, la morte di quasi tutti gli antifascisti scledensi: Giuseppe Vidale, Pierfranco Pozzer, Roberto Calearo, Livio Cracco, Andrea Bozzo, Italo Galvan, Anselmo Thiella, Andrea Zanon.
Il 22 aprile, sotto l’incalzare dell’avanzata angloamericana a Mauthausen avvenne una gassazione di massa per eliminare i prigionieri che versavano in peggiori condizioni e, tra i molti, furono assassinati anche Bruno Zordan e Giovanni Bortoloso. Alla liberazione del campo, avvenuta il 5 maggio ad opera degli americani. risultavano ancora in vita William Pierdicchi e Vittorio Tradigo: quest’ultimo, tuttavia spirò nell’ospedale da campo americano cinque giorni più tardi.
IL SOPRAVVISSUTO.  L’unico degli antifascisti scledensi che riuscì a rientrare in città, il pomeriggio del 27 giugno 1945, fu William Pierdicchi ridotto a 38 kg di peso, nonostante fosse stato un giovane robusto.
Dopo una breve sosta a Schio, necessaria per riprendere le forze, William si trasferì per completare la convalescenza dai suoi parenti a Jesi. Fu l’unico a sopravvivere, peso che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita, conclusasi a Vicenza il 20 luglio 2004.

Mauro Sartori, Il Giornale di Vicenza

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Schio, 1943-1945. Storia di dodici «elementi pericolosi» http://anpimirano.it/2014/schio-1943-1945-storia-di-dodici-elementi-pericolosi/ Sat, 03 May 2014 13:08:14 +0000 http://anpimirano.it/?p=5748 Leggi tutto "Schio, 1943-1945. Storia di dodici «elementi pericolosi»"]]> 7777770112969

Questa è l’intervista di Alessandro Pagano Dritto a Ugo De Grandis autore del libro “Elemento pericoloso – Inquisizione e deportazione politica nella Schio di Salò” (Da http://www.vicenzapiu.com).

L’ultimo libro di Ugo De Grandis, Elemento pericoloso. Inquisizione e deportazione politica nella Schio di Salò (1943-1945). L’odissea dei partigiani del Btg. Territoriale «F.lli Bandiera» di Schio deportati a Mauthausen – Gusen (Centrostampaschio, Schio, 2014, 15 euro) racconta delle vicende che portarono all’arresto e alla deportazione in Germania di dodici antifascisti scledensi alla fine del 1944: di questi – Giovanni Bortoloso, Andrea Bozzo, Roberto Calearo, Italo Galvan, William Pierdicchi, Pierfranco Pozzer, Anselmo Thiella, Vittorio Tradigo, Andrea Zanon, Bruno Zordan – solo uno, William Pierdicchi, farà ritorno nel giugno 1945. VicenzaPiù ne ha parlato con l’autore.
In apertura di Elemento pericoloso il lettore trova due citazioni: una da una lettera di Ernesto «Che» Guevara, l’altra da Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Quest’ultima recita: «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: […]. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo […]. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che abbia poi la nostra impronta».

Come mai proprio questa citazione in questo libro?

La risposta più banale è che ho letto Fahrenheit 451 mentre stavo leggendo questo libro. Devo confessare che anni fa ero un lettore vorace; più poi ho scritto di storia e meno ho trovato tempo per leggere libri che non fossero saggi storici. Questa frase mi ha colpito perché mi sembra rappresenti l’essenza di scrivere libri, soprattutto libri di storia, di voler lasciare un segno, una traccia della propria attività. Ogni libro che io scrivo è destinato a lasciare un segno e questo, nello specifico, è anche un libro che rompe con una visione distorta dell’episodio di giustizia sommaria avvenuto alle carceri di Schio nel luglio 1945.

Il libro si regge su un apparato di note che citano denunce presentate dopo la Liberazione, prima e dopo l’eccidio di Schio.
Come si è posto lei, da storico, nei confronti di questa documentazione? Non c’era il rischio che qualcuno, a liberazione avvenuta, calcasse la mano nel presentarle?

Vorrei prima di tutto specificare, visto che nominiamo l’eccidio di Schio, che questo non è e non va considerato un libro sull’eccidio di Schio. Lo dico perché mi capita di incontrare persone che mi chiedono se ho scritto un nuovo libro sull’eccidio di Schio: no. Certo, la vicenda principale che racconto – quella dei dodici antifascisti scledensi inviati in Germania – ha avuto dei riflessi sull’eccidio delle carceri e il libro stesso è nato dall’acquisizione dei fascicoli a carico dei fascisti detenuti al loro interno; fascicoli istruiti dai Reali Carabinieri ricostituitisi dopo il giorno della locale liberazione, il 29 aprile 1945. I Carabinieri condussero le indagini sulla base di segnalazioni di privati cittadini, del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) o dei partigiani e inoltrarono poi i verbali redatti alla Commissione di epurazione. Il rischio che qualcuno calcasse la mano nel denunciare ovviamente c’era; ma si tratta comunque di denunce autografe, che hanno condotto un ufficiale di polizia giudiziaria ad aprire un fascicolo e che quindi hanno un preciso valore. Questi fascicoli sono stati conservati nella sede del Tribunale di Vicenza, alla sezione «Corte d’Assise Straordinaria 1945-1946»: quella Corte che poi cessò di funzionare col famoso decreto Togliatti.

Nel giugno 1945, però, gli Alleati stanziatisi a Schio lamentarono in un famoso discorso pubblico proprio la mancanza o l’estrema esiguità di denunce nei confronti dei prigionieri politici rinchiusi nelle carceri.
Cos’era successo con queste denunce?

Come abbia fatto Stephen Chambers a dichiarare in pubblico che quei fascicoli mancavano, io ancora non me lo so spiegare: erano fascicoli ben noti, che posso immaginare non passassero attraverso il comando inglese, ma prima di fare una dichiarazione del genere avrebbe dovuto quanto meno documentarsi. Dopo l’eccidio di luglio, la maggior parte delle persone di cui ho trovato i fascicoli è stata tra l’altro deferita alla Corte d’Assise Straordinaria quale colpevole di crimini fascisti. In molti casi vi furono però continui rinvii finché fu cancellata la causa: finirono insomma tutti nelle pastoie della burocrazia. Teniamo comunque sempre presente un vizio di fondo con cui gli studiosi e i lettori di oggi devono fare i conti: la scomparsa di molti di questi documenti. Prima della Liberazione, quindi in ambito ancora fascista, esisteva infatti una disposizione ben precisa di cancellarli: lo prova un documento superstite dove si chiede espressamente che lo stesso non venga distrutto. Dopo Liberazione, invece, molto materiale fu distrutto o dai fascisti e dai tedeschi in ritirata o dagli stessi partigiani che poi presero possesso delle caserme. Testimoni di parte partigiana mi hanno raccontato dell’enorme falò fatto con grande ingenuità per liberare i locali dal materiale contenuto e considerato ormai inutile. Addirittura molti fogli furono affissi ai muri del centro per dimostrare cosa avevano fatto i detenuti e quei fogli sono stati irrimediabilmente persi.

Vorrei però si capisse una cosa. Noi parliamo di denunce, di materiale necessario da un punto di vista legale per incriminare una persona: ed è giusto. Non dobbiamo però dimenticare di guardare a quei lontani eventi con gli occhi di chi aveva vissuto la guerra: dal punto di vista di queste persone le denunce quasi nemmeno servivano. Vestivi la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR)? Questo bastava a fare di te un colpevole, perché avevi partecipato. D’altronde questo era quanto era bastato durante tutta la guerra per portare la gente in carcere, per torturarla: quella era stata la legge e non si può prescindere da questo nel giudicare i fatti dell’epoca.

Elemento pericoloso dedica molte pagine alla figura dei delatori.
Che peso ebbero nell’economia del fascismo vicentino e scledense?

Anche se l’obiettivo primario del mio libro era ricostruire la vicenda dei dodici antifascisti, è chiaro che per giungere a quello era necessario prima dare conto anche di un quadro d’insieme dell’apparato poliziesco scledense: di quello ufficiale, tangibile, ma anche di quello ufficioso che si reggeva sull’attività delatoria dei privati cittadini. Per questo mi soffermo in particolar modo su queste figure, che ebbero un peso notevolissimo. Erano quelli che vivendo in città, frequentando i negozi e i bar, potevano raccogliere le voci. Dopo la Liberazione Manlio Dazzi [cfr. p. 114] riportò che il fratello Giovanni, direttore delle poste cittadine durante la guerra, aveva ricevuto moltissime lettere delatorie che aveva provveduto a intercettare e distruggere: c’era insomma un vero concorso in questo. Purtroppo anche di queste lettere oggi ne sono rimaste poche, ma quelle poche sono comunque significative del clima che si respirava: il tale ha un quadro di Matteotti, il tale parla male dei fascisti, mandarlo in Germania. Si guardi per esempio la vicenda di Sidonia Boscato [cfr. pp. 129-134]: nativa di Isola Vicentina, sfollata a Schio da Torino, non conosceva assolutamente la città. Presa in casa dalle sorelle Lovise, note collaboratrici del fascio repubblicano e poi vittime dell’eccidio, sostenne di essere stata costretta dalle due a denunciare varie persone: il professor Angelo Corà, le massaie della latteria di Via Fusinato e persino un cugino renitente alla leva. Ci sono poi vari esempi di un’attività che probabilmente fu molto più ampia.

Quindi gli antifascisti avevano da affrontare sia i fascisti in uniforme che i loro informatori civili.

Certo. Come ho scritto nell’introduzione, non erano certo i nazisti i nemici peggiori degli antifascisti; per carità, nessuna assoluzione nei loro confronti, ma non erano i tedeschi a fare i lavori più sporchi. A livello locale e anche più ampio, il comportamento classico del tedesco durante un rastrellamento, per esempio, era quello di catturare una persona e mandarla subito al plotone di esecuzione. Ma le torture non le facevano i tedeschi. Le torture le facevano i fascisti; soprattutto – ed erano i più incalliti – i fascisti risaliti sotto la pressione dell’avanzata alleata da Sud, quelli la cui casa era già nell’Italia liberata, quelli che non avevano ormai più niente da perdere. Nelle due retate che io ho ricostruito nel libro – la prima nel dicembre 1943, gennaio 1944, e la seconda di giugno – sono stati sempre i tedeschi a rimettere in libertà: le autorità di polizia fasciste avevano mandato loro prigionieri senza neppure una denuncia, chiedendo di deportarli. In novembre – la retata dei dodici – invece non andò così, perché lì le denunce c’erano. Ma c’è comunque di che riflettere.

Nel suo libro lei racconta anche l’episodio di Giovanni Bernardi (cfr. p. 264), prelevato dai partigiani perché sentito mentre in pubblico parlava male del movimento ribelle.
Se qualcuno le dicesse che questo episodio testimonia l’esistenza di due sistemi paralleli ed equivalenti che agli occhi l’uno dell’altro erano sistemi di delazione, cosa risponderebbe?

Gli direi che la guerra è guerra. Quando uno spara per uccidere, dal punto di vista morale, etico, la colpa è uguale. Dipende perché uno lo fa.

Anche se la maggior parte dei suoi libri riguarda la Resistenza locale, i suoi volti e le sue vicende spesso complesse, con Elemento pericoloso non è la prima volta che lei si occupa anche del fascismo saloino, sempre in dimensione locale.
Che idea si è fatto di quest’ultimo?

A Schio il fascismo, quello monarchico quanto quello repubblicano, ha sempre fatto fatica ad attecchire: lo confermava nelle sue comunicazioni lo stesso «Zipo», l’agente dell’OVRA attivo in paese intorno al 1937 e tra i responsabili della retata di quell’anno. È ovvio che per funzionare doveva avere una sua base di consenso, ma gli iscritti al fascio repubblicano furono qui meno di duecento su una popolazione di 20.000 abitanti, che è un po’ poco. Tra questi, molti non erano neppure di Schio: erano «foresti», come si diceva, persone risalite da altre regioni. Era, quello al fascismo, un consenso diffuso soprattutto nelle classi agiate, ma con ramificazioni anche nelle classi popolari; questo in virtù del famoso «fascismo sociale» che, da Mario Plebani in poi, si tentò di far attecchire scontrandosi però con la reazione operaia. In generale, il Commissario Prefettizio Giulio Vescovi e tutto l’apparato che a lui faceva capo dimostrarono più volte di non essere all’altezza dei loro compiti.

Proprio questo appena citato è forse il nome del fascismo scledense che più si ritrova tra le pagine di Elemento pericoloso.
Chi era il Commissario Prefettizio Giulio Vescovi e come è stata vista la sua figura in ambito storiografico?

Il ricordo di Giulio Vescovi era rimasto nell’ombra per molto tempo. Fu poi Luca Valente, con la sua opera prima [Una città occupata. Schio – Val Leogra settembre 1943 – aprile 1945, Edizioni Menin, Schio, 1999, 3 Voll., Ndr.] a riportarlo a memoria positiva con successo. Letta quell’opera, subito rimasi perplesso. Non era possibile, pensavo, che una persona messa a capo di un comune importante come Schio, con un’occupazione tedesca così spinta nelle fabbriche, con una zona militarizzata come era questa della Val Leogra, potesse essere una persona così buona come lui la descriveva, un moderato, uno che non si rendesse conto di cosa succedeva realmente.
Figlio di un medico condotto, Giulio Vescovi non era di origine scledense – la famiglia era di Roana – ma aveva vissuto a Schio sin da bambino. Non so come mai abbiano dato l’incarico proprio a lui; probabilmente aveva grosse aderenze a livello provinciale, era anche amico personale del Capo della Federazione dei Fasci di Vicenza Giovanni Caneva, squadrista della prima ora e non certo un moderato. La cerchia che Vescovi frequentava non era insomma quella dei moderati e anche l’immagine che ne esce da quanto io racconto nel libro mi sembra sia leggermente diversa da quella fornita da Valente. Ne è emblematica la corrispondenza col comando tedesco, con Vescovi che si felicita per il fallito attentato ad Adolf Hitler, che denuncia i soldati tedeschi per disfattismo un mese prima della fine della guerra. Esiste una lettera firmata, quella del vigile urbano Domenico Pretto, che dimostra come il Commissario fosse pienamente inserito nell’apparato repressivo e non poteva nemmeno essere diversamente; anzi, di certo lui pagò pesantemente il non aver saputo mantenere l’ordine in città, di non aver saputo risolvere lo sciopero di marzo contro le deportazioni in Germania e poi di non aver avuto successo nell’opera di repressione del movimento partigiano e di non aver attirato giovani alla leva repubblicana. Così come non partì la socializzazione del Lanificio Rossi di cui lui era stato messo a capo. Lo smacco definitivo fu però lo sciopero operaio dell’ottobre contro i casi di violenza carnale di cui si erano resi colpevoli alcuni miliziani fascisti.

Una cosa che si nota guardando i dodici che furono poi inviati a Mauthausen è che il lettore non è in presenza del tipico stereotipo del comunista operaio, bensì di imprenditori, proprietari di bottega, studenti.
Qual era quindi il tipico elemento pericoloso, per parafrasare il titolo del libro, agli occhi del fascismo scledense?

Il tipico elemento pericoloso, per rimanere tra i dodici, era Livio Cracco, perché Cracco anni prima era stato catturato mentre cercava di recarsi a combattere in Spagna; o anche Anselmo Thiella, arrestato nel 1932 per associazione sovversiva. Se con le professioni nominate vogliamo identificare un deportato di tipo «borghese», direi che questa parola possa andare purché ci si intenda: tra i dodici l’unico che potremmo veramente definire «borghese», cioè appartenente a una famiglia agiata, era Pierfranco Pozzer, diciannovenne studente universitario figlio di un agrimensore e di una maestra, e con lui anche Andrea Bozzo, imprenditore. Gli altri erano chi tipografo, chi proprietario di una libreria, chi commesso, chi impiegato.

Per sfatare o confermare nel piccolo di questa vicenda scledense un mito, quello della Resistenza come movimento rivoluzionario comunista in nuce: i deportati si possono classificare come comunisti o piuttosto come antifascisti in senso lato?

Sicuramente tra i dodici erano comunisti Cracco e Thiella, ma io preferisco parlare generalmente di antifascisti. Nelle mie opere io credo di non aver mai spinto sul tasto del comunismo, perché non sarebbe giusto. Tra i resistenti c’erano cittadini cattolici, anche religiosi, c’erano gli azionisti. Anche un ricordo che di Pozzer venne dato dal foglio comunista L’Amico del Popolo mi è sembrato una forzatura. Leggera, forse, perché lui era comunque amico del partigiano Armando Pagnotti «Jura», di famiglia comunista; ma preferisco comunque parlare dei dodici come antifascisti.

Nell’introduzione al suo libro lei dedica molto spazio alla figura di William Pierdicchi, allora studente universitario alla Ca’ Foscari di Venezia, l’unico dei dodici a essere ritornato da Mauthausen.
Che ruolo ha avuto Pierdicchi nella sua attività di storico?

Io fino al 2001 ero un grande appassionato di storia locale, avevo letto tutto quanto si poteva leggere e parlato anche con qualcuno che mi era vicino e aveva vissuto l’epoca della Resistenza. Ricordo che per esempio i Quaderni di Enzo D’Origano erano usciti mentre io lavoravo in Libia e io me li ero portati da leggere laggiù: era anche più bello leggere all’estero per rivivere le cose quando si tornava a casa. Poi, quando mi sono fermato, mi sono detto che era giunto il momento di conoscere quelli che erano rimasti, che tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila stavano per altro cominciando in gran parte a venire meno. E così feci, preferendo però sempre farmi introdurre da qualcuno, da un parente o da un conoscente. Volevo evitare – e voglio, anche ora – in tutti i modi che una persona accetti di parlarmi controvoglia o con diffidenza. Purtroppo nel caso di William questo non è stato possibile e me ne dispiaceva perché immaginavo che un colloquio con una persona che era stata deportata e aveva passato quello che lui, da deportato, aveva dovuto passare sarebbe stato difficile. Stiamo parlando – ne accenno anche nella prefazione – di una persona che aveva sempre rifiutato l’invito di un amico che abitava in collina perché la vista delle abetaie gli ricordava il paesaggio di Gusen, dov’era stato rinchiuso: quindi di una persona che ricordava, ma per la quale ricordare era una pena non indifferente.

Perché, quando vi incontraste, sulle circostanze del proprio arresto Pierdicchi le mentì, come lei stesso ha poi constatato anni dopo?

Confesso che questa è stata una cosa che mi ha sconvolto. Io all’epoca non avevo l’esperienza che l’attività di storico poi intrapresa mi ha permesso di avere oggi. Non nutrii quindi alcun dubbio su quanto mi raccontò, di essere stato preso mentre tentava di fuggire da Schio: era una versione dei fatti più che plausibile. Un decennio dopo ho scoperto che invece era andata diversamente. Posso ipotizzare che anche lui mantenesse quell’atteggiamento di «prudenza» che – come scrivo anche nel libro [cfr. p. 119, n. 182] – aveva già contraddistinto, trent’anni prima, la storiografia resistenziale scledense: nonostante processi e articoli di giornale che magari presentavano esplicitamente nomi e cognomi, i Quaderni della Resistenza, per esempio, questi nomi preferivano comunque siglarli o ometterli. Ma almeno i Quaderni di Emilio Trivellato risalivano agli anni ’70; la testimonianza di Pierdicchi, invece, era già del 2001. La spiegazione che mi sono dato di questo atteggiamento è che, non conoscendomi, Pierdicchi non potesse sapere con certezza l’uso che avrei poi fatto della sua testimonianza. Ovviamente è solo un’ipotesi, ma ancora oggi non so darmi una risposta più precisa.

Cosa volle dire per i dodici antifascisti scledensi, essere inviati in Germania?

Nei campi tedeschi la mortalità ebbe un tasso altalenante nel corso del conflitto, perché i prigionieri venivano tenuti in vita, nutriti, secondo precise esigenze di lavoro, mai più di quanto servisse: quindi c’erano periodi in cui il tasso di mortalità era più alto, periodi in cui era più basso, secondo le esigenze del momento. Io non ho nessun motivo per ritenere che Pierdicchi, l’unico sopravvissuto dei dodici scledensi, abbia dovuto a particolari strategie la sua salvezza. Credo che fu un caso, una o due settimane in più e avrebbe potuto non farcela nemmeno lui: pensiamo a Vittorio Tradigo, un altro degli undici, che assistette alla liberazione del campo e poi morì il 10 maggio. Quello che però mi sono chiesto è stato: perché proprio degli scledensi ne morirono comunque undici su dodici, quando secondo la letteratura specifica la mortalità del trasporto 115, che portò anche loro in Germania, fu del 55%, poco più della metà? Io ritengo che questo non possa essere stato un caso. Dario Venegoni, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Ex Deportati (ANED), mi ha assicurato che il destino di ognuno era già segnato alla partenza: loro sapevano chi eri, dove destinarti e quanto farti vivere. Quell’undici su dodici, insomma, è partito da qua.

Cosa voleva dire, per il fascismo delle’epoca, inviare una persona in Germania?

Per il fascismo nostrano inviare una persona in Germania voleva dire, come diceva Caneva, eliminare dalla società le persone nocive [cfr. p. 105]. Questa rimane, per carità, una questione dibattuta; lo stesso Emilio Trivellato, l’autore dei Quaderni della Resistenza, ha smussato qualche spigolo. Nessuno qui a Schio poteva sapere esattamente cosa si trovasse oltre le Alpi, nemmeno i gerarchi fascisti; ma quello che questi sapevano bene era come si comportavano i tedeschi con gli antifascisti, con gli oppositori politici e con le popolazioni dei paesi occupati, perché li avevano visti in azione sin dalla sera in cui, qui a Schio, hanno assaltato la Caserma Cella. Inoltre quanti erano tornati dalla Germania dopo esservi andati per lavorare avevano raccontato come trattavano gli esponenti di una popolazione da loro occupata; dopo il 25 luglio qua in Italia, da queste persone, non arrivavano né soldi né notizie. Sapevano, insomma, di non mandare le persone in villeggiatura, anche se non sapevano delle camere a gas. Ma c’era per esempio, tra i fascisti, chi tornava dal Montenegro e sapeva benissimo come funzionavano le rappresaglie: ne sapevano abbastanza per sapere di togliersi di torno una persona, inviandola in Germania, per molto tempo e per nutrire la seria speranza che non tornasse. «Eliminare dalla società le persone nocive», disse Caneva; mi pare un’affermazione forte.

Uno tra i dodici deportati, Livio Cracco, ha oggi un’Associazione Culturale dedicata: quella che pubblica i Quaderni di storia e cultura scledense e per la quale sono uscite molte sue opere.
Perché si è scelto di dedicarla proprio a lui?

Fu una scelta di Ezio Maria Simini. Quella di Cracco fu una figura emblematica, una persona di modesta levatura, con una bassa scolarità, che però dal carcere era in grado di chiedere anche Uomini e topi di John Steinbeck e costringere così il personale dello stesso a discutere se concederglielo oppure no: una persona, insomma, che si era formato una cultura sua, un’idea politica che poi avrebbe pagato con privazioni – sei anni di carcere – e infine con la vita. Tra i dodici, poi, Cracco condivideva con una parte degli altri una condizione di salute fisica precaria. Lo dico per chiarire chi fossero, alla fine, questi elementi pericolosi – come diceva la dicitura burocratica che era loro stata affibbiata – da mandare in Germania: Livio Cracco era gracile di costituzione e non aveva fatto il militare, Vittorio Tradigo era poliomielitico, Giovanni Bortoloso aveva una gamba più magra dell’altra e una frattura mal ricomposta che lo costringeva a zoppicare, Bruno Zordan era invalido perché gli avevano amputato gli avampiedi per congelamento, Alfonso Thiella era stato scartato da militare per un ulcera duodenale. Dov’era tutto questo pericolo? No, questi scontavano una pericolosità tutta ideologica.

Qual è, tra i dodici antifascisti scledensi deportati, se ce n’è uno, quello a cui si è affezionato di più?

Pierfranco Pozzer, anche perché è quello su cui ho potuto indagare più a fondo grazie alle lettere sopravvissute, alle testimonianze del nipote. Rivivendo quei momenti, mi sono reso conto che tragedia deve essere stata quella che racconto per quella famiglia in particolare. Già il padre Giuseppe era internato militare in Germania e il suo ritorno non era certo scontato; loro stessi, poi, i familiari di Pierfranco, furono incarcerati per qualche tempo, la loro casa fu svaligiata… Assolutamente, Pozzer è quello che mi ha colpito di più. Bene o male gli altri erano tutte persone adulte. Tutte tranne lui e l’amico Roberto Calearo, anche lui deportato, tirato in mezzo solo per l’amicizia con Pierfranco; probabile che con Pierfranco condividesse anche certi ideali, ma comunque il suo nome non risulta, per quanto possiamo constatare, nei ruolini del battaglione territoriale «Fratelli Bandiera». Romana Pozzer, la sorellina cui Pierfranco era molto legato, dalla cella in cui l’avevano tenuta durante i giorni di prigionia, vide Calearo attraverso lo spioncino della porta e ricordava che il suo viso le apparve irriconoscibile da quanto male era stato ridotto. L’hanno mandato in Germania, ne sono convinto, per non rimettere in libertà una persona ridotta in quelle condizioni.

La sezione del libro che riguarda il periodo di Mauthausen e Gusen, mancando di testimonianze dei protagonisti diretti, è stata ricostruita attraverso fonti bibliografiche.
Come si è relazionato con questo tipo di fonti?

Ho puntato subito ai sopravissuti del trasporto 115, perché mi interessava la loro esperienza trascorsa giorno per giorno a fianco dei dodici scledensi. Sono andato a trovare due sopravvissuti: Natale Pia e Giuseppe Castelnovo, nessuno dei quali è purtroppo vissuto abbastanza, dopo quegli incontri, per vedere pubblicato questo mio libro. È servito, anche se non ricordavano nello specifico i dodici. C’era poi anche la testimonianza di Luigi Massignan, che viaggiò insieme agli scledensi; era di Montecchio Maggiore e probabilmente li aveva già incontrati al carcere di Vicenza, al S. Biagio, ma purtroppo lui è morto tempo fa. Ne rimangono ancora pochissimi di vivi e non è nemmeno facile andare a porre loro domande, parlarci. Per il resto mi sono indirizzato sulle fonti bibliografiche, per esempio Vincenzo Pappalettera che era in infermeria negli stessi giorni di Pierfranco Pozzer, nella prima settimana di febbraio.

Se le chiedessero di trarre lei stesso delle conclusioni sul suo libro?

Risponderei che credo, con questo libro, di aver ricostruito, insieme alla storia dei dodici antifascisti scledensi deportati a Mauthausen e Gusen, un intero «teorema», se posso chiamarlo così, una precisa strada che conduce a quella retata e a quella deportazione: caduta del fascismo il 25 luglio, quarantacinque giorni di Badoglio e gioia popolare; 8 settembre, ritorno dei duri e puri, fascismo sociale, ricerca immediata dell’antifascista. Antifascista che doveva essere per forza «plutocratico, badogliano e massonico»: industriali, dirigenti d’azienda, liberi professionisti. Il popolo invece andava recuperato. Il vero nemico erano i «badogliani», quelli cioè che erano stati fascisti fino al 25 luglio e che poi erano però rimasti fedeli alla monarchia. Ed era questo un partito trasversale, che attraversava qualsiasi classe sociale e professionale: nel mio libro dimostro che indagarono su tutti, insegnanti, carabinieri, sacerdoti, studenti…
Ritengo poi, sempre con questo libro, di aver dato un primo segnale: sfatare il mito di un Commissario Prefettizio buono e moderato, normalizzatore, di un fascismo che – in generale – facesse da cuscinetto all’occupazione nazista. E con i prossimi miei scritti sfaterò altri di questi miti.

Di cosa potevano essere indice tutte queste indagini?

Indicavano che, anche se era chiaro che la guerriglia fosse già iniziata, non avevano l’idea esatta di come si fosse organizzata, almeno da quando nel maggio 1944 fu effettivamente organizzata. A rendere un po’ più chiare le idee, parlo sempre in ambito locale, fu solo il rastrellamento di Vallortigara in giugno, quando risultò chiaro che gli ambienti del Rossi, quindi la grande industria scledense, era vicina alle organizzazioni resistenziali. Solo in luglio cominciarono a comparire nomi di antifascisti comunisti di vecchia data come Alessandro Cogollo o Eugenio Piva, solo allora il fascismo scledense riuscì a raddrizzare il tiro: ad agosto si cominciò a tentare, su tutto il territorio saloino, quella mediazione che a Schio si esprimerà il 17 settembre attraverso il discorso di Giulio Vescovi al Cinema Centrale. Ma prima, persino il grande sciopero politico del marzo 1944, io penso che non fosse stato capito del tutto: l’avevano interpretato come una reazione istintiva, senza un reale fondo politico. Diversamente accadde con lo sciopero di ottobre, quello in occasione degli stupri subiti da alcune operaie, in seguito al quale vennero ritrovati alcuni volantini e iniziò la retata dei dodici. Quello sciopero, al di là del fatto specifico che lo causò, fu anche una reazione politica alle richieste di avvicinamento: il definitivo no.

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Intervista a Ugo De Grandis sullo sciopero del 29 febbraio1944 a Schio http://anpimirano.it/2014/intervista-a-ugo-de-grandis-sullo-sciopero-del-29-febbraio1944-a-schio/ Sat, 01 Mar 2014 16:40:26 +0000 http://anpimirano.it/?p=5523 Leggi tutto "Intervista a Ugo De Grandis sullo sciopero del 29 febbraio1944 a Schio"]]> 1625662_716712511706636_2075810653_nL’1 marzo 1944 migliaia di operai in tutto il Nord Italia scesero in sciopero spinti soprattutto dalle precettazioni obbligatorie in Germania. Non fu il primo sciopero verificatosi dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel settembre 1943, ma fu senz’altro il più vasto e, così mette in luce la storiografia, il primo a non limitarsi a semplici rivendicazioni economiche.
A Schio quello sciopero pare cominciasse addirittura con qualche anticipo rispetto al resto del territorio: lo ha sostenuto un paio di anni fa lo storico Ugo De Grandis, che nell’anniversario dei fatti ha rilasciato questa intervista a Alessandro Pagano Dritto per VicenzaPiù.

Marzo 1944. Nel suo scritto lei parla del carattere eccezionale dello sciopero scledense e per descrivere l’atteggiamento tenuto nei suoi riguardi, come nei riguardi, più in generale, della storia della Resistenza di Schio e del Veneto, usa l’espressione «coltre di silenzio» (p. 4). Può spiegare meglio questa sua tesi?

Quella contro l’oblio nel quale la storiografia ufficiale della Resistenza ha confinato la storia di Schio e degli scledensi è una battaglia personale che conduco da anni. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è proprio l’interpretazione di questi scioperi. Schio in quel frangente segnò uno dei tanti primati della sua storia: fu la prima comunità a iniziare a scioperare e l’unica in cui gli operai abbiano trattato direttamente coi tedeschi senza poi subire per questo motivo ritorsioni. Io fisso la data del 29 febbraio – il 1944 era un anno bisestile – come inizio dello sciopero generale collettivo di tutti gli stabilimenti scledensi, ma in realtà le prime astensioni dal lavoro erano iniziate lunedì 28: in quella data si era infatti sparsa in città la voce che alcuni lavoratori avessero ricevuto le cartoline precetto per recarsi alla visita ed essere giudicati idonei o meno al lavoro coatto in Germania. Ma lo sciopero era stato addirittura programmato, a livello più ampio, per il 21 febbraio e in un primo momento doveva coinvolgere solo il triangolo industriale formato da Lombardia, Piemonte e Liguria. Veneto ed Emilia Romagna erano state volutamente escluse dal cosiddetto Comitato di Agitazione perché considerate regioni periferiche: la loro massa, prevalentemente impiegata nell’agricoltura, era considerata priva di preparazione politica e non sufficientemente preparata a forme organizzate di protesta.

Perché l’eccezionalità dimostrata in questo frangente non è riuscita a dare giusta luce alla Resistenza veneta? Da dove pensa che derivi questa tendenza?

Secondo me è perché la memoria della Resistenza, è inutile negarlo, è da sempre stata portata avanti dai partiti di sinistra e dagli intellettuali di sinistra. Il Veneto non ha mai dato grandi espressioni di intellettualità di sinistra e lo stesso vale anche dal punto di vista delle memorie della Resistenza. Noi non possiamo vantare un Beppe Fenoglio, un Cesare Pavese, un Davide Lajolo; abbiamo, è vero, Luigi Meneghello, che però sulla Resistenza ha scritto solo di passaggio, abbiamo Mario Rigoni Stern che però ha parlato della guerra, dell’internamento militare, ma non di Resistenza. A noi in generale tutto questo manca e quindi quando in Italia si parla di Resistenza armata, si parla della Valdossola, delle Langhe, si parla di Sesto San Giovanni se si parla di Resistenza operaia, del Lingotto o di Sanpierdarena, ma mai e poi mai del Veneto: le stesse dirigenze del Partito Comunista hanno sempre guardato con sufficienza questa terra. Delle zone libere tutti ricordano, per esempio, la Valdossola, che aveva alle spalle la Svizzera neutrale; nessuno invece ricorda Posina, che certi hanno considerato un errore perché ha provocato un immane rastrellamento ma che rispondeva comunque a direttive nazionali. Eppure questa, Posina, aveva alle spalle i territori del Terzo Reich, non la Svizzera.

I mesi che precedettero lo sciopero. Nel suo libro assume una certa rilevanza, per questo preciso periodo, una figura della dirigenza comunista veneta: Giuseppe Banchieri «Anselmo». Chi era?

Banchieri era Segretario federale regionale, il numero uno nel Veneto. Venne a Schio ai primi di gennaio per indagare sui fatti di Malga Silvagno, dove erano stati uccisi quattro partigiani garibaldini. Indagando individuò delle lacune nell’organizzazione, lacune che mi sento però di giustificare. Schio era infatti stata fortemente penalizzata nei primi tentativi di imbastire una resistenza, con il rastrellamento del Festaro di metà ottobre e poi con l’arresto di almeno due importanti elementi a novembre: Nello Pegoraro e Pietro Bressan, trasferiti, come altri prima, a Verona. A questo si aggiungeva il fatto che qualcuno si ostinava ancora a rimanere nelle Commissioni interne che nelle fabbriche si erano create dopo il 25 luglio nel clima della ritrovata «democrazia», con tanto di virgolette, dei quarantacinque giorni di Badoglio. Queste Commissioni erano poi divenute uno strumento di controllo del regime e dovevano quindi essere disertate dai lavoratori. Banchieri passò a setaccio l’organizzazione ed effettuò alcune sostituzioni importanti. Tra queste, quella di Domenico Marchioro, che, dopo Pietro Tresso, era stata la figura numero due del comunismo locale: onorevole del PCd’I, era stato arrestato nel 1926 con tutta la dirigenza comunista dell’epoca, con Gramsci e Scoccimarro, e processato. Rientrato dopo quasi diciotto anni di carcere, Marchioro si vide affidare per riconoscenza la gestione della segreteria provinciale, ma si dimostrò ben poco affidabile: era rimasto con la mentalità semilegale della prima metà degli anni ’20 e non capiva le necessità della condizione clandestina del momento. Fu quindi trasferito a Roma con la scusa della salvaguardia personale.

Ed è a questo punto che entra in gioco un’altra importante figura, quella di Antonio Bietolini «Lorenzo».

Esatto, nel posto che fu di Domenico Marchioro fu inserito Antonio Bietolini. Se devo dire la verità, Bietolini mi ha sempre dato l’impressione del funzionario che sentenzia dall’alto senza calarsi nella realtà locale di altri quadri politici; di quei quadri cioè che lavorano in fabbrica, che sono esposti agli occhi di tutti e che devono gestire la loro attività in una situazione diversa dalla clandestinità dell’elemento di partito venuto da fuori sotto falso nome. Non era l’unico: lo stesso Giorgio Amendola si comportò così, dando un giudizio sprezzante dell’organizzazione delle brigate Garibaldi in tutto il Veneto, osservato però dalla sola Padova. Ma ciò che di Bietolini mi ha infastidito di più è stata una certa arroganza a volersi attribuire l’organizzazione dello sciopero, cosa che non considero vera almeno in relazione a Schio. A Vicenza infatti dovette insistere perché Vicenza non era una realtà industriale pari a Schio, dovette insistere anche a Valdagno, realtà industriale, sì, ma più isolata, meno incline ad avventure rispetto a Schio; a Schio però trovò le cose già fatte. Eppure lui rivendicò il merito dichiarando che nel più grande stabilimento scledense, il lanificio Rossi, aveva trovato solo cinque operai comunisti e neppure organizzati in cellula. Non mi sembra proprio possibile.

Perché le affermazioni di Bietolini sul numero di operai comunisti al Rossi non le sembrano plausibili?

Dal 1873 fino al 1921 Schio aveva espresso una lunga tradizione di scioperi, forti a tal punto da paralizzare la città per settimane, nel 1921 addirittura per mesi dall’estate fino a metà autunno: tutte le fabbriche furono paralizzate. Mi riesce difficile credere allora che nel 1944 al Rossi ci fossero solo cinque comunisti. I documenti dell’Archivio Centrale dello Stato mostrano che a metà degli anni ’30 a Schio c’erano 188 schedati come sovversivi: comunisti, anarchici e socialisti. Unendo a Schio i paesi del circondario – quindi Marano Vicentino, Santorso, Torre Belvicino e San Vito di Leguzzano – si arriva a 329. In occasione di una retata del novembre del 1937, un’indagine dell’OVRA portò alla denuncia di una cinquantina di attivisti che finirono in carcere al confino per sei anni, ma ciò nonostante l’attività sovversiva continuò. No, non credo alla cifra riportata da Bietolini, che nelle sue relazioni sembra il dirigente di partito che viene e bacchetta gli scolaretti. Non fu così e lo dimostra il fatto che in tutti i suoi andirivieni tra Vicenza, Schio e i paesi vicini, quando arrivò a Schio lo sciopero era già stato anticipato perché si era diffusa la notizia delle cartoline precetto: la scritta domani nei volantini già stampati dovette essere corretta a penna con la scritta oggi. No, nell’organizzazione dello sciopero furono direttamente coinvolti i comunisti scledensi: Antonio Canova, Arturo Rigoni, Giuseppe Scala, Livio Cracco, Pierfranco Pozzer, Igino Manea, Giambattista Cavaliere. Tutti nomi che poi hanno proseguito nella resistenza civile: Canova diventò per esempio comandante del battaglione territoriale «Fratelli Bandiera».

Come si svolse lo sciopero in paese e come reagì la controparte?

Le fabbriche furono subito circondate da truppe di SS provenienti da Vicenza. Ci fu un primo tentativo di mediazione del Commissario Prefettizio Giulio Vescovi, tentativo che però fu giudicato dallo stesso Capo dell’Ufficio Annonario del Comune di Schio, il cattolico Igino Rampon, con l’aggettivo «evanescente». Fu allora deciso di inviare una delegazione di operai di Schio, circa una quindicina, nella sede dei sindacati fascisti a Vicenza. Bisogna capire che questo fu uno sciopero politico, diversamente da quelli precedenti cui avevano partecipato anche quei fascisti non contenti dell’entrata in guerra. Qui non si trattava, come prima, di migliorie del vitto: non si voleva andare in Germania. Era uno sciopero contro la Repubblica Sociale, contro l’occupazione tedesca, contro la guerra e la risposta del popolo lavoratore alla socializzazione.
A Vicenza poi i delegati trattarono direttamente con un ufficiale tedesco di elevato grado venuto, sembra, da Brescia, che accettò di ritirare le precettazioni a patto che il lavoro ricominciasse subito. A differenza che altrove non vi furono rappresaglie naziste per questo sciopero e questa è un’altra eccezionalità.

Leggendo i rapporti che lei trascrive nel suo libro, si ha la sensazione che Bietolini non avesse gradito troppo la soluzione della Commissione mandata a Vicenza. Per i comunisti scledensi la Commissione poté dirsi un successo?

Io la vedo come un successo. Torno a dire: il dirigente che viene da Roma e giudica le cose dall’alto avrebbe voluto magari lo scontro all’ultimo sangue, nessuna trattazione e lo sciopero a oltranza. Con il rischio, poi, delle deportazioni? Questi erano i paraocchi del dirigente, del rivoluzionario avulso dalla realtà quotidiana. Gli operai scledensi non potevano spingere oltre, sono convinto che passarono veramente, e comunque, due brutte giornate: avevano persino preparato le vie di fuga nel caso di arresti o attacchi. Non dimentichiamo che ad Arzignano in quel periodo uno sciopero costò la vita a quattro operai, fucilati. Credo che in questo, nel non voler cioè arrivare allo scontro finale, abbia giocato un grande ruolo l’importanza strategica di Schio e delle sue industrie per l’economia di guerra tedesca: si parla di un patrimonio industriale valutato all’epoca circa 80 miliardi di lire.

Bietolini parla di un solo comunista all’interno della Commissione, entrato giusto per permettere sulla stessa una qualche influenza. Quanto contarono effettivamente i comunisti al suo interno?

Difficile dirlo, bisognerebbe conoscere i nomi di tutti i componenti. Secondo me evitarono di farne parte gli antifascisti più in vista, quelli più ricercati e rientrati dal confino. I nomi che si conoscono – Giuseppe Sandonà, Domenico Rigoni, Vittorio Negrizzolo per esempio – non erano nomi di antifascisti schedati, potevano presentarsi e trattare per conto degli operai. Non potevano certo altrettanto un Alessandro Cogollo o un Livio Cracco appena rientrati da sei anni di carcere: e sono cose come queste che Bietolini dimostrava di non capire.

Emilio Trivellato, lo storico che prima di lei scrisse alcune pagine sugli eventi, ricorda un incontro tra Giuseppe Sandonà, che gli rende anni dopo la testimonianza, e proprio Alessandro Cogollo: i due si incontrano alla trattoria La Pergola, noto ritrovo dell’antifascismo scledense. Sostiene Sandonà che le preoccupazioni per l’evolversi della situazione erano visibili da entrambe le parti, quella tedesca e quella antifascista. Che idea si è fatto del clima che si poteva respirare in quei momenti?

Doveva essere brutto, pessimo. Bisogna sempre ricordare che il primo sciopero dichiaratamente politico a Schio era avvenuto il 10 settembre 1943, quando erano stati portati via i militari della Caserma «Cella». L’attacco avvenne di notte, ma quando al mattino giunse la colonna di autocorriere e a Schio si sparse la voce che i tedeschi avevano occupato la città aprendo il fuoco e uccidendo quattro persone, deportando gli altri, le fabbriche scesero in sciopero, i negozi chiusero e la gente in strada tentava di bloccare le autocorriere. Quindi c’era l’intuizione che a mettersi contro i tedeschi si rischiava di essere caricati su una corriera per un viaggio verso il vuoto. Non è poi vero che nel 1944 nessuno sapesse cosa succedeva in Germania. Certo, camere a gas e forni crematori non li aveva visti nessuno, però prima dell’8 settembre ci fu qualche fortunato che, espatriato da volontario, riuscì poi a rimpatriare con qualche stratagemma e che una volta tornato raccontò come venivano tenuti non solo gli operai specializzati italiani, ma soprattutto i civili russi. Oltretutto dal 25 luglio erano state bloccate le rimesse e qua a Schio non era più arrivato nemmeno un centesimo dai lavoratori volontari divenuti, dopo il colpo di Stato di Badoglio, schiavi. Sapendo tutto questo, come potevano gli operai accettare la cartolina di precetto coatto? Ma nemmeno portare la sfida all’estremo conveniva. Dal punto di vista tedesco, invece, bisogna tenere conto che tutte queste industrie erano state requisite proprio da loro, dai tedeschi: deportando gli operai, chi ci avrebbe lavorato? I tedeschi finirono infatti col comprendere che conveniva cambiare tattica: portare le commesse qua, in fabbriche funzionanti e attive al loro servizio, piuttosto che deportare gli operai in Germania. Anche perché le minacce di arrivo di cartoline spingevano gli operai a lasciare le fabbriche e andare in montagna.

Nei rapporti di Bietolini si percepisce una certa attenzione al problema della stampa e della mancanza di informazione, che secondo il dirigente comunista isolò l’ambiente scledense e rese l’esito dello sciopero diverso da quello da lui sperato. Che influssi ebbe, secondo lei, questo aspetto nella vicenda?

Non è che a Schio girasse all’epoca chissà quale stampa, al massimo qualche copia clandestina dell’Unità passava di nascosto tra i telai. Ma le maggiori informazioni arrivavano dalle radio, per esempio Radio Londra. Durante lo sciopero si erano fatti saltare i tralicci del telefono per impedire le comunicazioni dei tedeschi, ma così anche gli operai erano rimasti isolati. I collegamenti migliorarono semmai dopo, nei mesi successivi, con l’evolversi della situazione delle formazioni partigiane in montagna e i collegamenti via radio degli Alleati, ma all’epoca degli scioperi si era ancora agli inizi e le radio erano state tutte requisite. Non è un caso che si fosse puntato molto su questo isolamento per tentare di far fallire lo sciopero. In generale comunque continuo a pensare che le valutazioni di Bietolini debbano essere lette tenendo presente questo carattere del dirigente che non giudica dal basso.

Di solito, quando si parla di Resistenza, si ha sempre in mente la figura del ribelle armato che combatte in montagna; sotto tono sembra passare invece la resistenza civile espressa per esempio dagli scioperi. Come mai, secondo lei?

La figura del guerrigliero che vive in montagna e fa uso delle armi, che si scontra e partecipa a sabotaggi e azioni di fuoco, è senza dubbio più epica. Ma io ricordo anche i racconti di mia nonna, operaia al lanificio Rossi, che mi diceva di come tra di loro operai raccogliessero soldi, imboscassero garze, lana per fare un paio di calzettoni da mandare a un partigiano che nemmeno sapevano chi fosse. E questo è anche il motivo per cui la figura della donna è sempre rimasta in secondo piano: perché ha compiuto migliaia di azioni rischiose ma non lo scontro a fuoco, il sabotaggio del ponte o il disarmo della guarnigione. Per ciò che non è lotta armata o si ha la fortuna di avere un memoriale di qualcuno che ha partecipato alla Resistenza civile o altrimenti si rischia di perderne la memoria. Azioni come fare una calza di lana la sera dopo il lavoro possono sembrare banali, ma è anche grazie a queste che i partigiani in montagna sono sopravvissuti.

Ci furono altri scioperi dopo quelli di marzo?

Sì. Nel Quaderno lo cito di sfuggita [pp. 58-59], ma nell’ottobre del 1944 ci fu per esempio un altro sciopero molto importante e ugualmente passato sotto tono, sciopero che fu una risposta alla violenza carnale cui furono oggetto alcune operaie scledensi, precisamente di San Ulderico, da parte di alcuni elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Quello sciopero segnò definitivamente l’incapacità del fascismo scledense di gestire l’ordine pubblico, perché un’altra volta dovettero intervenire i tedeschi. Il Commissario Prefettizio, Vescovi, si recò subito al lanificio Cazzola, sceso immediatamente in sciopero perché le operaie in questione lavoravano lì: tentò di mediare chiedendo anche i nomi dei colpevoli, ma la notizia si diffuse in città e tutte le fabbriche scioperarono per tre giorni. Ancora una volta dovette venire qui a Schio un ufficiale tedesco che patteggiò il ritorno al lavoro con l’allontanamento della guarnigione della GNR. Questo fu un ulteriore punto a favore dell’antifascismo civile scledense, che però nella storia nazionale, con tutta la sua città, raramente viene citato. La storiografia di matrice comunista, così come le stesse brigate Garibaldi, hanno sempre marginalizzato il Veneto: considerato «la parrocchia d’Italia», a loro non interessava.

Lei sostiene nel suo Quaderno [p. 2] che lo sciopero si proponeva di ottenere alcuni traguardi, sia a livello locale che nazionale: danneggiare i tedeschi, sottrarre gli operai al fascismo e dimostrare agli Alleati la popolarità dell’antifascismo. Possiamo dire oggi che ci riuscì?

Sì. Lo sciopero del Nord ebbe risonanza mondiale, perché fu la più partecipata e clamorosa manifestazione di protesta a livello europeo. Si aveva l’impressione, allora, che la Liberazione fosse una cosa imminente e bisognava quindi dare un segnale che il popolo italiano era antifascista e antitedesco: cosa che fu recepita e commentata dai comandi alleati e dalle loro radio, perché nessun Paese aveva mai messo in campo una protesta di quelle dimensioni. E questo fu lo scopo principale della dimostrazione.

Il titolo del suo scritto sull’argomento è Gli scioperi del marzo 1944 a Schio (Quaderni di storia e cultura scledense, Libera Associazione Culturale «Livio Cracco», Schio, ottobre 2011, pp. 60, 3 euro).

Intervista a cura di Alessandro Pagano Dritto

(da www.vicenzapiu.com)

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1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia http://anpimirano.it/2014/1-marzo-1944-ondata-di-scioperi-in-italia/ Fri, 28 Feb 2014 15:54:09 +0000 http://anpimirano.it/?p=5517 Leggi tutto "1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia"]]> p.-2-scioperi_grandeLo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì  l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre.
Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece “le lotte operaie assunsero un carattere differente” perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del “triangolo industriale”, si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell’arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell’ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe “una grandissima importanza”:
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell’anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto “a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell’occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato”.
Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali”, fece capire che “ormai il tempo degli scioperi era passato”. La “scena dello scontro” quindi “si trasferì sui monti” e apparve chiaro che “soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo”.  Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di “agganciare”, attraverso la “socializzazione”, i lavoratori.

Torino in sciopero

A Torino lo sciopero scatta il 1° marzo 1944, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, abbia comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche.
Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l’indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che hanno l’obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d’Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti in modo che alcuni dei più importanti complessi industriali della regione vengono paralizzati.
Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decreta la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrae fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decide la ripresa del lavoro.
La lotta, estesasi successivamente in altre regioni del Nord, assume un significato politico: tradurre sul piano della fabbrica la dichiarazione di guerra consegnata dall’antifascismo torinese al regime fascista fin dall’8 settembre 1943. Al termine degli eventi si stringono le maglie della repressione nazifascista attraverso arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento tedeschi: circa 400 operai, 178 alla sola Fiat, sono prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. Pochi di loro riescono a fare ritorno.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.

Testo del volantino clandestino diffuso nelle fabbriche torinesi:

SCIOPERO GENERALE CONTRO LA FAME E CONTRO IL TERRORE

Ancora una volta le masse operaie, strette attorno al COMITATO PROVINCIALE DI AGITAZIONE, scenderanno in lotta per difendere il diritto alla vita e alla libertà di tutto il popolo italiano. Le masse operaie ancora una volta passeranno all’attacco contro i nemici di ogni civiltà, contro i barbari nazifascisti. Le masse operaie scenderanno in lotta contro il terrore e la fame, scenderanno cioè in lotta per difendere la vita di tutti.
L’ora è giunta per dimostrare ai nostri nemici spietati come i torinesi, come i piemontesi formino un solo blocco. Non soltanto gli operai, ma tutti i professionisti, tutti gli impiegati, tutti i cittadini debbono scioperare.

Evviva lo sciopero generale di tutto il grande tenace eroico popolo piemontese.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Questa sera alle ore 20.45 a Schio all’osteria “Due Mori”, Ugo de Grandis e Beppe traversa faranno conoscere una storia poco conosciuta: il 29 febbraio 1944 Schio fu la prima città d’Italia a incrociare le braccia contro il fascismo e la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Uno dei tanti primati della città che la storia ufficiale ignora.

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Ugo De Grandis: “Malga Silvagno – Il giorno nero della Resistenza vicentina” http://anpimirano.it/2014/ugo-de-grandis-malga-silvagno-il-giorno-nero-della-resistenza-vicentina/ Sun, 02 Feb 2014 10:58:40 +0000 http://anpimirano.it/?p=5443 Leggi tutto "Ugo De Grandis: “Malga Silvagno – Il giorno nero della Resistenza vicentina”"]]> DeGRANDIS-MalgaSilvagnoGiuseppe Crestani, nato a Duisburg nel 1907 da genitori italiani e residente fin da giovane in provincia di Vicenza, nel 1936 era emigrato in Francia e da qui aveva raggiunto la Spagna per combattere il fascismo durante la guerra civile. Inquadrato nella Brigata Garibaldi, aveva ottenuto il grado di tenente dopo aver frequentato la scuola ufficiali di Pozo Rubio. Ferito sul fronte dell’Ebro, in seguito internato nei campi francesi e confinato a Ventotene; nell’autunno del 1943 era stato tra i primi organizzatori della Resistenza sulle montagne vicentine. Ma era stato ucciso il 30 dicembre 1943, assieme ad altri tre compagni, alla Malga Silvagno, in comune di Fontanelle di Conco, sull’Altopiano di Asiago. Una storia purtroppo comune ad altri reduci della guerra civile in quegli anni, sfuggiti alla morte in Spagna per trovarla poi in Italia combattendo nelle formazioni partigiane. Ma in questo caso vi è un elemento in più che rende questa vicenda tragica ed assurda: Crestani assieme a tre compagni è stato ucciso per motivi ideologici dai componenti di una banda partigiana cattolica assieme ai quali egli cercava di organizzare una lotta comune contro nazismo e fascismo. Le “colpe” dei quattro erano di aver imposto un’accelerazione sul piano militare, con azioni che rendevano difficili gli ambigui contatti tra forze partigiane moderate ed ambienti fascisti che miravano ad una transizione indolore, ed una disciplina che tenesse conto delle basilari necessità della guerriglia. In più, erano comunisti. Particolare inquietante, ad alcuni di essi era stato chiesto se fossero o meno cattolici; al loro diniego era partito il colpo mortale. Il gruppo partigiano dopo il fatto si era ricostituito, ma era stato sorpreso meno di tre settimane dopo dai tedeschi ed alcuni dei responsabili di quelle morti erano stati fucilati. In loro memoria annualmente le associazioni partigiane tengono una cerimonia, ma nessuno ricorda i “rossi” ammazzati dal loro gruppo in precedenza. Giova pertanto qui ricordare i nomi di questi dimenticati: assieme a Crestani erano stati uccisi il friulano Ferruccio Roiatti, già condannato nel 1934 a otto anni di carcere dal Tribunale Speciale per attività comunista. Inoltre Tomaso Pontarollo, lavoratore veneto emigrante che aveva trascorso diversi anni in Algeria prima di venire arrestato in Istria nel 1936 per lo stesso motivo di Roiatti e di passare quasi sette anni tra confino e campo di internamento, ed infine un certo “Zorzi” o “Maschio”, la cui identità è destinata a rimanere ignota.
I particolari di queste morti sono stati a lungo e con grande tenacia nascosti dagli ambienti anticomunisti e cattolici della provincia di Vicenza, dominata per molti anni politicamente dalla Democrazia Cristiana. La storia diffusa dai canali ufficiali non era quella reale, e sui quattro “rossi” uccisi era calata una spessa coltre di silenzio, una sorta di damnatio memoriae. Ora invece questa storia non ufficiale è stata documentata, con grande abbondanza di particolari, da Ugo de Grandis, in questo libro, arricchito anche da molte immagini dell’epoca che ritraggono sia i protagonisti che alcune delle vicende raccontate. Scrivendo, De Grandis ha tenuto presenti le tante strumentalizzazioni mediatiche contro la Resistenza garibaldina e comunista realizzate ponendo a pretesto i fatti di Porzûs (o meglio delle malghe Topli Uork, dove un battaglione di gappisti friulani aveva arrestato e poi ucciso in momenti diversi nel febbraio 1945 i componenti di un comando della Brigata Osoppo). Non a caso, i fatti descritti in questo libro sono talvolta definiti una “Porzûs alla rovescia”. Certo, le differenze tra i due episodi non mancano, la definizione non è forse esatta, ma ha il merito di riaprire un dibattito che tanta storiografia nata con la guerra fredda ed ormai dilagata, dopo la sua fine, sui media e sulla stampa, considera chiuso con la definitiva condanna della Resistenza comunista. In realtà i conflitti interni alla Resistenza ci furono, i componenti delle brigate autonome, cattoliche, badogliane, a volte furono vittime ma altre volte furono carnefici, l’unità delle varie formazioni sul piano militare e degli obiettivi politici antifascisti fu spesso un obiettivo da raggiungere più che una realtà. E perciò va dato merito a quanti si spesero allora, anche tenendo presente la “lezione della Spagna”, in favore di tale unità.
De Grandis afferma che la decisione di eliminare i quattro comunisti, due dei quali ritenuti “foresti”, stranieri, perché non erano originari della zona, era stata presa in alcuni ambienti politici di Vicenza e poi trasmessi al gruppo cattolico di Fontanelle di Conco. Certo, rimane poco chiaro il ruolo giocato da alcuni personaggi ambigui, che frequentavano le bande partigiane cattoliche e badogliane ma anche ambienti fascisti della provincia, nello spingere i giovani cattolici a procedere alle quattro sbrigative eliminazioni. L’autore ricostruisce anche con attenzione le varie inchieste promosse dal PCI, a partire dai primi mesi del 1944, per far luce sull’accaduto. All’epoca il responsabile dell’organizzazione militare in una zona molto ampia e tradizionalmente cattolica era il friulano Amerigo Clocchiatti, che si trovava di fronte a livello politico e militare un compito difficilissimo. La documentazione raccolta da Clocchiatti però era stata persa durante un bombardamento. L’inchiesta era proseguita nel dopoguerra, aveva raccolto numerose informazioni ed individuato alcune responsabilità, ma poi tutto era finito con un nulla di fatto. Nel dopoguerra la gran parte dei protagonisti di quelle uccisioni era morta, il personaggio che manteneva rapporti con ambienti fascisti ma anche con i partigiani cattolici, che alcuni consideravano un provocatore fascista nelle file partigiane, godeva fama di essere stato un valoroso partigiano e sarà decorato con due medaglie di guerra. Alcuni reduci delle formazioni cattoliche, tra cui un futuro giornalista di un certo prestigio, interrogati avevano ripetuto le accuse di furti e violenze a carico dei quattro garibaldini che a suo tempo avevano formulato i fascisti. Il membro del Comitato Militare Provinciale reo di aver probabilmente trasmesso in montagna l’ordine di eliminazione dei quattro si proclama con molta energia estraneo a quei fatti Se non si voleva colpire i responsabili, perché i vari funzionari di partito non denunciarono almeno con forza quegli avvenimenti, come avrebbero potuto comunque fare, sebbene avessero raccolto informazioni sufficienti per capire bene quanto era accaduto? De Grandis individua il motivo del silenzio su queste morti, e su altre che hanno coinvolto partigiani comunisti, nella linea dell’unità antifascista voluta da Togliatti, che aveva portato a propagandare un’immagine della Resistenza come movimento in cui le divisioni interne erano state armoniosamente composte (pp. 396 – 397). Un’immagine, aggiungo io, che non deve impedire a noi di cercare una verità anche che può risultate scomoda.
Marco Puppini

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