resistenza – ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia – Sezione del Miranese "Martiri di Mirano" http://anpimirano.it Tue, 17 Jun 2014 08:04:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 13529763 Vittoria Giunti, la partigiana che diventò sindaco http://anpimirano.it/2014/vittoria-giunti-la-partigiana-che-divento-sindaco/ Tue, 17 Jun 2014 08:04:48 +0000 http://anpimirano.it/?p=5857 Leggi tutto "Vittoria Giunti, la partigiana che diventò sindaco"]]> copertina libro vittoria-giunti pagina 3Vivo per un pelo, con la faccia demolita, nella primavera del 1945 il partigiano siciliano Salvatore Di Benedetto torna al suo paese con il sogno della libertà in tasca e una giovane moglie sottobraccio. Si chiama Vittoria Giunti ed è fiorentina. Anche lei ha fatto la resistenza. Partigiana comunista. Un tipo sveglio, dinamico, sanguigno. n po’ strana, dicono in paese: la moglie di Totò Di Benedetto non è come le altre, viene dal “continente”, a Raffadali non ci sono femmine che parlano con questo accento, che ridono in quel modo e che portano camicie colorate. Tutti la guardano. All’ inizio con la diffidenza che si riserva ai forestieri, poi con ammirazione. Abita nel palazzo più antico del paese, fa mille domande, soprattutto alle donne, vuole sapere questo e quello, vuole sapere come si usa da queste parti, ha fretta di imparare il dialetto, ripete le parole, sbaglia, le ripete di nuovo. Sa tante cose, ma preferisce ascoltare. Le piace discutere. È una che sa il fatto suo. Quando rientra da Palermo, dopo avere partorito, si affaccia al balcone e senza parlare solleva in braccio suo figlio per presentarlo ufficialmente a un plotone di comari che ciarlano di sotto. Ora che ha deciso di vivere in Sicilia, è una siciliana come le altre (anche se manterrà sempre una distanza critica dalla tipica e complessa mentalità di chi vive in fondo allo stivale). E per lei, in un’ Isola libera dal fascismo ma non dalla miseria e dalla prepotenza, all’ indomani della seconda guerra mondiale, ancora stanca ed eccitata dalle battaglie combattute, comincia un’ altra vita, un’ altra battaglia, un’ altra resistenza. C’ è da difendere i diritti dei lavoratori, abolire il feudo e occupare le terre. Gli uomini sudano sangue nei campi sotto il sole, le donne stanno dietro alle persiane socchiuse. Pochi sanno cosa sono i diritti. Nessuno conosce le leggi scritte. Per tutti valgono quelle non scritte. La partigiana Vittoria si dà da fare, organizza incontri e comizi, spiega e scrive. È una donna colta. E di partito. Qualche anno dopo, nel 1956, diventa sindaco di Santa Elisabetta, piccolo centro a pochi chilometri da Raffadali. È lei il primo sindaco donna della Sicilia. La sua storia viene raccontata da un libro autofinanziato “Le eredità di Vittoria Giunti” curato da Gaetano Alessi della Rivista Ad Est. Nata nel 1917 e scomparsa tre anni fa. Una famiglia borghese, la sua: professionisti, medici, professori. Figlia di un ingegnere, alto funzionario delle ferrovie, vive un’ infanzia felice tra Firenze e le colline toscane: «Nella casa di campagna del nonno – racconterà lei stessa, pochi anni fa, a Gaetano Alessi – c’ era una biblioteca e in questa biblioteca c’ era una vetrina in cui era esposta una medaglia d’ argento che il mio bisnonno aveva ottenuto come garibaldino. Risale molto indietro nel tempo, in un Ottocento risorgimentale, quell’ ideale, quell’ atmosfera di libertà che si respirava nella mia famiglia. Atmosfera ottocentesca risorgimentale e liberale nel senso più vero della parola. Una cultura rispettosa di tutte le opinioni, nel senso critico, non nel significato negativo che danno a questa parola, ma nel senso di giudizio e di rispetto delle altrui opinioni». L’ anziana signora leggeva la sua storia e le sue scelte alla luce dell’ educazione ricevuta da ragazza. «Un’ educazione – raccontava – autenticamente antifascista, nel senso oggettivo del termine, nel senso di vissuta democrazia. Questa educazione è una delle radici della ragione della mia partecipazione alla vita civile. L’ altra è Firenze. La Firenze in cui ogni mattina, quando andavo a scuola, incontravo Dante, Michelangelo, Giotto. Incontravo il segno del libero comune, delle lotte anche furiose per la conquista di una libertà civile che anticipava di tanti secoli le libertà che qui in Sicilia sono state conquistate così tardi, compreso la rottura dei vincoli del feudalesimo». Ma c’ è ancora un’ altra radice alla base del suo attivismo politico: «La sorte fortunata di incontrare poi, quando la mia famiglia si è trasferita da Firenzea Roma, delle persone che mi hanno orientato decisamente verso quelle posizioni politiche che ho seguito per tutta la vita». Studia al Liceo Tasso, respira l’ aria dell’ antifascismo con polmoni affamati, si perde in lunghe discussioni politiche, guarda con avidità attraverso «quegli spiragli di libertà che sempre si trovano anche nei regimi dittatoriali». «Eravamo spinti – continuava – da ragioni ed esigenze di carattere morale, culturale, perché era veramente indegno il modo in cui si soffocavano i diritti della democrazia. La demagogia sfacciata, gli strumenti più volgari per ottenere il consenso della gente, si opponevano decisamente al nostro modo di essere. E ancora l’ assoluta impossibilità di approvvigionamento dei testi, degli strumenti del sapere, la censura, la proibizione non solo dei libri politici e di carattere economico, ma l’ occultamento dei romanzi dell’ intera letteratura americana ed europea, l’ impossibilità di ascoltare la musica dei giovani di allora come il blues e il jazz». Donna d’ acciaio, raffinata nei modi, laureata in Matematica e Fisica all’ Università di Roma, allieva dell’ Istituto di Alta Matematica, assistente all’ Università di Firenze, subito pronta a sacrificare la carriera accademica per l’ impegno civile. Durante la Costituente è componente di diverse commissioni nazionali, tra cui quella per il voto alle donne. Giovane staffetta partigiana, conosce Salvatore Di Benedetto, partigiano anche lui, più grande di sei anni, arrestato con Vittorini nel 1943, organizzatore della resistenza in Lombardia, poi parlamentare e dirigente comunista, sindaco per trent’ anni della stessa Raffadali che alla fine passerà in mano ai fratelli Cuffaro. Collezionista di libri antichi e pieno di interessi culturali, Di Benedetto sarà il compagno di tutta la vita. A Tivoli, durante una delle azioni a sostegno dell’ avanzata alleata, una bombaa mano gli ha devastato il volto e strappato un occhio. In ospedale, irriconoscibile, lo ha riconosciuto solo lei, Vittoria, e se n’ è innamorata. Due anni dopo si trasferiscono in Sicilia. E lì rimangono, a combattere. Fino al 2006. Lui se ne va il primo maggio, lei il due giugno. I lavoratori e la Repubblica. Manco a farlo apposta. (di Salvatore Fanzone da “Repubblica” del 3 settembre 2009)

http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=02893

https://www.facebook.com/events/293651557322905/

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Dante Di Nanni http://anpimirano.it/2012/dante-di-nanni/ Fri, 18 May 2012 04:36:49 +0000 http://anpimirano.it/?p=770 Leggi tutto "Dante Di Nanni"]]>

Il 18 maggio ricorre l’anniversario della morte di una figura storica dell’antifascismo italiano: quella di Dante Di Nanni, giovane militante dei GAP torinesi, ucciso nel 1944, all’età di 19 anni, dalle truppe nazifasciste.
E’ il 17 maggio del ’44 quando Di Nanni, assieme ai compagni Giuseppe Bravin, Giovanni Pesce e Francesco Valentino, effettua un attacco ad una stazione radio che disturbava le comunicazioni di Radio Londra. Prima dell’azione, il gruppo di Gappisti disarma i militari preposti alla difesa della stazione e decide di graziarli in cambio della promessa di non dare l’allarme; ma i nove soldati tradiscono l’accordo e, ad azione terminata, i quattro partigiani vengono sorpresi ed attaccati da un gruppo di nazifascisti. Ne segue uno scontro a fuoco in cui Bravin e Valentino vengono feriti e catturati; portati alle carceri Le Nuove, saranno torturati a lungo ed infine impiccati il 22 Luglio: Bravin aveva 22 anni, Valentino 19. Anche Pesce e Di Nanni vengono colpiti durante lo scontro, ma il primo riesce a portare in salvo il compagno più giovane, gravemente ferito da 7 proiettili. Di Nanni viene trasportato nella base di San Bernardino 14, a Torino, dove un medico ne consiglia l’immediato ricovero in ospedale; Giovanni Pesce, allora, si allontana dall’abitazione per cercare aiuto e organizzare il trasporto del compagno, ma al suo ritorno trova la casa circondata da fascisti e tedeschi, avvertiti della presenza dei Gappisti dalla soffiata di una spia. Nonostante le gravi condizioni in cui versava, Di Nanni rifiuta di consegnarsi al nemico e resiste a lungo all’attacco nazifascista, barricandosi nell’appartamento del terzo piano e riuscendo ad eliminare diversi soldati tedeschi e fascisti con le munizioni rimastegli. La sua eroica resistenza è riportata dalle parole dello stesso Giovanni Pesce che assistette in prima persona alla scena:

«Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio.»

(Giovanni Pesce, Senza tregua – La guerra dei GAP, Feltrinelli, 1967)
Nel 1945 viene insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare.
A 68 anni di distanza dalla sua morte, vogliamo ricordare Dante Di Nanni come un esempio a cui guardare per la determinazione e la forza con cui, assieme a tanti antifascisti e a tante antifasciste, scelse la strada della Resistenza e della lotta contro l’oppressione nazifascista.

http://it.wikipedia.org/wiki/Dante_Di_Nanni

http://www.museodiffusotorino.it/luoghi.aspx?id=20

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Giornata della Memoria: La lunga marcia dei 54 http://anpimirano.it/2012/giornata-della-memoria-la-lunga-marcia-dei-54/ http://anpimirano.it/2012/giornata-della-memoria-la-lunga-marcia-dei-54/#comments Thu, 12 Jan 2012 17:59:12 +0000 http://anpimirano.it/?p=227 Leggi tutto "Giornata della Memoria: La lunga marcia dei 54"]]> In occasione della “GIORNATA DELLA MEMORIA” dei partigiani
fucilati dai nazifascisti al cimitero di Mirano il 17-gennaio-1945 la
Sezione di Mirano dell’Anpi presenta il film:

“La lunga marcia dei 54”.

 

alle ore 20.45 del 20 gennaio 2012 presso la Sala Conferenze di
Villa Errera a Mirano con interventi di Alberto Gambato e Laura
Fasolin. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti.

 
scarica volantino:

Giornata della memoria – La Lunga Marcia dei 54

 

SINOSSI:
Dopo un rastrellamento durato tutto il giorno precedente nelle campagne di
Castelguglielmo (RO) e costato la vita ad 11 tra civili e partigiani, il 15 ottobre 1944
a Villamarzana (RO) il regime nazifascista perpetrò l’esecuzione di 43 persone,
partigiani e non, tramite fucilazione. Venne adottata la legge tedesca 1-10. Un ‘Primo
Esempio’ di rappresaglia rispetto alle azioni partigiane nel Medio ed Alto Polesine.
LAURA FASOLIN / Coordinatrice del progetto Centro di Documentazione sugli
eccidi nazifascisti di Villamarzana (RO):

Esiste un dovere morale al quale nessuno di noi dovrebbe sottrarsi, ossia la memoria
dei martiri. Uomini, donne, bambini e anziani privati arbitrariamente del loro bene
più prezioso: la vita. Un patrimonio comune da valorizzare, condividere ma
soprattutto da non dimenticare.
L’eccidio di Villamarzana, come gli altri eccidi polesani, ci lascia e ci deve lasciare
sgomenti e indignati davanti a delle morti che sembrano non avere un senso. Ma
dove il senso manca, spetta a noi dare un significato, perché un sacrificio non sia
vano, perché la riconoscenza dev’essere un obbligo.
Un testimone importante da passare alle generazioni future, che non poteva non
essere raccolto da chi quella tragedia l’ha vissuta sulla propria pelle, da chi quella
tragedia ce l’ha ancora viva negli occhi, negli orecchi, nel cuore. Vittime che non
hanno perso la vita ma la carezza di un padre, la gioia di un figlio, l’amore di un
compagno, la protezione di un fratello.
Nessun dono è più prezioso della fiducia ricevuta da una persona nel momento in cui
ci apre la propria casa ed i propri ricordi ancora freschi e dolorosi e racconta quel
giorno, forse piovoso o forse no, con la lacrima della tristezza, col sorriso della
cortesia e della rassegnazione.
Nessuna responsabilità è più grande di ricevere quella fiducia, entrare in quella
storia, farla diventare la nostra storia e come tale condividerne l’angoscia, la tristezza,
la rabbia.
Ad Alberto Gambato va il merito di aver saputo interpretare quella tragedia con
giusta sensibilità e ottima cultura storica, di averla raccontata non solo attraverso le
parole dei narratori e le interviste raccolte in tre mesi di lavoro, ma anche attraverso
occhi malinconici, visi solcati da un tempo lungo 66 anni ma mai trascorso nei
ricordi.
Mani nervose, voci forti ed i campi del Polesine, rimasti pressoché immutati: gialli e
rigogliosi d’estate, marroni e nudi in autunno.
Protezione e trappola, luoghi della salvezza o della morte.
Scrisse Piero Calamandrei: “Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri
dove furono torturati, nei campi di concentramento dove furono impiccati, nei deserti
e nelle steppe dove caddero combattendo, ovunque un italiano ha sofferto e versato il
suo sangue per colpa del fascismo, ivi è nata la nostra Costituzione. Essa può
diventare per le nuove generazioni, che saranno il ceto dirigente di domani, il
testamento spirituale di centomila morti, che indicano ai vivi il dovere dell’avvenire”.
In quei sacrifici stanno i principi fondanti della nostra Repubblica, della Costituzione
che sancisce la nostra libertà, la quale non può essere difesa senza la conoscenza ed il
rispetto per la troppa sofferenza già spesa per essa. Questo vuol essere La lunga
marcia dei 54: conoscenza del passato, consapevolezza del presente, testimone che
ogni generazione dovrà passare alla successiva.
Per ricordare, per onorare, perché l’orrore non debba più tornare.
ALBERTO GAMBATO / Note di Regia:
Laura Fasolin mi ha fatto arrivare in tempo. Lo dico perché affrontare un film sulla
memoria ed il suo salvataggio è qualcosa di inevitabilmente legato a tale
determinazione dimensionale. Le testimonianze si cristallizzano, il mimetismo dei
corpi esce da una supposta pretesa dimensione di realtà. Perciò quello che viene detto
e/o riportato rompe il contesto di “a domanda rispondo…” e quello del più generico
“mi ricordo…”. Ascoltare questi ‘bordi’ memoriali, questi lacerti di ricordi, ha portato
le riprese del film – dunque quando esso era ancora ben lungi dal suo farsi – molto
altrove, alla ricerca di possibili rispettivi riferimenti ambientali, agricoli, animali.
Vespe, cuccioli di fagiano in fuga, la cagna dormiente di Celestino Tasso; tutt’attorno,
un Alto Polesine in gran parte pietrificato dal punto di vista paesaggistico. Quasi che i
fatti dell’ottobre ‘44 siano stati cinema talmente definitivo da rendere inservibile per
qualsiasi altra cosa il set naturale che è la campagna tra Castelguglielmo e
Villamarzana. Questa sospensione – ancora una volta temporale – mi era parsa di
difficile documentazione, qualora non avessi ravvisato un paradosso duplice. Ecco
perché certezze, passato, fatti, storia e ‘verità’ sono appannaggio della terza età,
mentre il mio fantasma di ‘finzione’ rappresenta il futuro. I giovani, prossimi anziani.
Dunque le testimonianze parlano, ma non lo fanno da sole. Piuttosto dialogano tra
loro al montaggio, freneticamente. Sondando nell’esplosione del rigore spaziale le
possibilità di una verità della memoria – invece – tutta da costruire e raccontare. Che
arrivi ad essere il più comune e condivisa possibile.
CONTATTI: Alberto Gambato Via Frassinella n.° 33 – 45100 Rovigo (RO) Tel.: +393288213614
E-mail: [email protected][email protected]
Web: http://lalungamarciadei54.wordpress.com

 

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LA RESISTENZA IN MONTAGNA http://anpimirano.it/2012/la-resistenza-in-montagna/ http://anpimirano.it/2012/la-resistenza-in-montagna/#comments Thu, 12 Jan 2012 15:14:25 +0000 http://anpimirano.it/?p=236 Leggi tutto "LA RESISTENZA IN MONTAGNA"]]> LA RESISTENZA IN MONTAGNA

[Relazione di Roberto Tacca al convegno organizzato dall’ANPI di Mirano per la “Giornata della Memoria dedicata ai Martiri di Mirano, Sala conferenza di Villa Errera, Mirano, 11 dicembre 2011]

Convegno a Mirano, 11 dicembre 2011.

Ritengo necessario, per una buona comprensione dell’argomento, focalizzare l’attenzione su 3 punti principali tra loro collegati: le principali caratteristiche dell’Alpenvorland; la Resistenza nelle province di Bolzano e Trento; la Resistenza nel bellunese.

Se parliamo di Resistenza in montagna diventa necessario un prologo di cosa fosse l’Alpenvorland e del perché della sua creazione.
All’indomani dell’annuncio dell’armistizio italiano con le forze alleate il regime nazista fondò due regioni autonome a statuto speciale di fatto annesse, pur senza alcuna dichiarazione, al III Reich (10 settembre 1943). Si tratta dell’Alpenvorland (Prealpi), che inglobava le province di Bolzano, Trento e Belluno; e dell’ Adriatisches Kustenland (Litorale Adriatico) che comprendeva una zona più vasta dal Friuli fino a Fiume, in Istria, e quasi tutta l’attuale Slovenia.
Noi qui ci occuperemo solo dell’Alpenvorland il cui Gauleiter, ossia governatore, fu nominato Franz Hofer, già Gauleiter del Tirolo, il quale prenderà ordini esclusivamente da Hitler.
Il perché della fondazione di tali due aree sta nella loro importanza strategica ai fini della guerra in corso e principalmente:
– il controllo delle vie di comunicazione più importanti come: il Brennero, il collegamento tra il    feltrino e la Valsugana, e la via per i Balcani;
– il progetto politico, qualora la guerra fosse andata a buon fine per il Reich, di annessione di tutto il Veneto alla Germania, progetto caldeggiato da Hitler e da Goebbels, e giustificato sia dall’antico dominio asburgico su tale regione, sia come risposta all’armistizio firmato dall’Italia;
– il progetto di un “ridotto alpino”, ovvero di un estremo baluardo difensivo, una specie di ultima fortezza entro cui far resistere all’estremo il Reich in attesa delle armi segrete. E’ un obiettivo che Hofer persegue fino all’ultimo, basti pensare che diventa il suo progetto di un “Grande Tirolo”, una vasta area che doveva comprendere l’Alpenvorland, l’Austria, la Baviera, la Boemia e la Moravia, in cui il nazismo sarebbe sopravvissuto come sistema politico in alleanza all’Occidente e agli Usa  in funzione anticomunista e antisovietica. A tal fine già da maggio 1944 Hofer fece studiare la zona a diversi geologi per far costruire le fortificazioni necessarie lungo i principali fiumi (Piave, Isonzo, Tagliamento…), vi trasferì numerosi scienziati ed esperti di armi e di difesa militare, e pure molti prigionieri politici da offrire come possibile merce di scambio. Tale progetto fallì per la richiesta statunitense della resa incondizionata.
Hofer si presentò “bene” nel senso che i tedeschi invasori cercarono fin da subito la pace sociale, l’ordine pubblico e la collaborazione di modo da evitare inutili spargimenti di sangue: ottenere la fiducia, o almeno la non ostilità della popolazione avrebbe facilitato i loro compiti. A tal fine si consideri che le cariche amministrative restarono in mano a gente locale: parliamo di prefetti, podestà e segretari comunali, per la maggiore, i quali però non avevano alcuna autonomia decisionale dato che dovevano attuare le direttive imposte dal Gauleiter. Dunque un mero palliativo di continuità col sistema precedente.
Lo sfruttamento delle risorse locali era un altro obiettivo dei nazisti, a cominciare dalle centrali idroelettriche, ma anche il legname moneta di scambio per eccellenza dell’economia bellunese, e certamente la manodopera, sia maschile che femminile, abbondante visto lo stato difficile dell’economia del tempo.
Merita una speciale considerazione il fatto che nelle due “Zone d’Operazione”, ovvero Alpenvorland e Litorale Adriatico, fosse fatto divieto di costituzione del Partito Fascista Repubblicano. Questo la dice lunga sull’idea che avevano i tedeschi degli italiani! Persino Mussolini, che allo stesso tempo cercava un territorio ideale per combattere una resistenza estrema dovette accontentarsi della Valtellina come suo rifugio, dopo essere stato dichiarato “indesiderato” sia da Hofer che da Rainer (il Gauleiter del Litorale Adriatico). Il duce aveva infatti sondato la possibilità di trasferirsi a Belluno o a Udine, ma i due Gauleiter gli fecero capire che sarebbe stato loro solo d’impiccio. Un’umiliazione totale per Mussolini, ora capo di un governo fantoccio creato solo per volere di Hitler in quanto il controllo totale dell’Italia era cosa impossibile per i tedeschi dispiegati ed impegnati in una guerra che coinvolgeva tutto il suolo europeo (penisola iberica esclusa). Il fascismo, sorto nel brodo culturale del nazionalismo che aveva inneggiato all’interventismo nella Prima Guerra Mondiale in nome del recupero delle terre italiane, Trento e Trieste (irredentismo), era riuscito dopo un ventennio a consegnare ai tedeschi tali terre conquistate col sangue di migliaia di italiani: un fallimento a regola d’arte. Mentre la Repubblica Sociale Italiana era invasa dai propri alleati (!) essa perdeva autorità e giurisdizione su altri territori italiani: ora, l’Alto Adige, il Trentino, il bellunese e il Friuli erano da considerarsi a tutti gli effetti come territori tedeschi in cui non potevano entrare né l’esercito italiano né la polizia italiana. Anche gli spostamenti degli abitanti dovevano essere sottoposti a rigidi controlli, specialmente se si trattava di uscire dalle nuove frontiere.
I progetti delle fortificazioni trovarono attuazione grazie all’ Organizzazione Todt (OT), dal nome del ministro tedesco degli armamenti Fritz Todt, un’istituzione volta a costruirle grazie alla collaborazione fra tecnici tedeschi e imprese locali con la relativa manodopera. Per invogliare la gente a lavorarci l’ OT offriva dei lauti compensi. Ma essa si occupava anche della costruzione o, più spesso, della riparazione dei danni di guerra riguardo strade, ponti, gallerie, ferrovie ecc… in seguito a bombardamenti o attacchi partigiani.

E’ in questo contesto che si svilupparono forme di Resistenza nelle tre province occupate, tuttavia il quadro è piuttosto disomogeneo.
Nelle province di Trento e Bolzano la Resistenza coinvolse attivamente solo una stretta minoranza di persone, basti pensare che il dibattito tra l’essere italiani o tedeschi riguardava solo un’ élite, ovvero le classi sociali medio-alte, mentre il resto della popolazione si considerava semplicemente tirolese o trentina.
Gli effetti della Prima Guerra Mondiale furono diversi sulle due suddette province: se nel Tirolo essa rafforzò il patriottismo austriaco, nel trentino  rafforzò un sentimento autonomistico che però non si legava ad aspirazioni italiane. Entrambe le province avevano apprezzato la buona amministrazione asburgica, ma il trentino ne aveva conosciuto anche le feroci repressioni in risposta alle richieste di maggiore autonomia.
Con l’avvento del fascismo Bolzano, da poco annessa all’Italia, conobbe una politica miope e criminale di italianizzazione forzata volta a distruggere ogni forma di cultura locale. Logico dunque che qui si salutasse con entusiasmo l’avvento del nazismo in Germania già nel 1933. E infatti le truppe del Reich vennero accolte festosamente all’indomani dell’ 8 settembre ’43 e i tedeschi  non ebbero alcuna difficoltà nel reclutamento di volontari nel proprio esercito. Occorre anche dire che le due etnie presenti, la tedesca e la italiana, erano divise al proprio interno.
La prima, maggioritaria, si divideva in “Optanten” e “Dableiber” dal 1939, da quando cioè Hitler diede possibilità ai tedeschi dell’Alto Adige di espatriare in Germania (fino ad allora egli non aveva voluto sollevare la questione del Tirolo per non offendere Mussolini del quale aveva una profonda stima). I primi si trasferirono in Germania, e Hitler li valorizzerà mandandoli a combattere sul fronte russo e slavo; i secondi rimasero in Italia poiché, di sentimenti austriaci, si riconoscevano nell’Impero asburgico e cattolico in contrapposizione alle politiche razziste, e più vicine alla chiesa protestante, dei tedeschi.
La seconda, minoritaria, si divideva in base al periodo d’immigrazione. Negli anni ’20 il fascismo aveva spinto per il trasferimento di numerose famiglie italiane in Alto Adige, soprattutto per ricoprire ruoli burocratici e di amministrazione pubblica, dunque legate al regime; mentre negli anni ’30 si ebbe un trasferimento di lavoratori in ruoli più umili (muratori, operai, falegnami…) di cui alcuni, essendo stati all’estero, avevano conosciuto gli ideali antifascisti.
Tali divisioni interne alle due etnie non potevano che indebolire ogni forma di Resistenza.
A Trento le truppe della Wermacht passarono tra l’indifferenza generale, nessun atto di simpatia né di ostilità, e sarà più o meno così fino alla Liberazione. I tedeschi furono abili nell’eliminare subito i principali elementi antifascisti cosicché il territorio assecondò, in generale, gli obiettivi di ordine e pace sociale a cui Hofer aspirava. Solo nella parte sud-orientale della Valsugana si sviluppò un movimento resistenziale di una certa consistenza, e non a caso poiché era una diramazione della brigata feltrina “Gramsci”. Tuttavia, secondo le testimonianze di alcuni partigiani che ho avuto modo di intervistare, si deve dedurre che mentre la popolazione bellunese fu sempre, quasi nella sua totalità, solidale e d’appoggio ai partigiani, quella trentina si dimostrò invece più inaffidabile e dedita allo spionaggio.
Si comprende dunque come la Resistenza nelle province di Trento e Bolzano non potesse che risultare debole, passiva, individuale, costituita da diserzioni frutto di obiezioni di coscienza e di nascondimenti in attesa della fine della guerra.

Nella provincia di Belluno, invece, la situazione era molto diversa con una Resistenza attiva fatta da un movimento partigiano che, superate le prime difficoltà, si era sviluppato numericamente ed aveva effettuato parecchie azioni di disturbo in tutto il territorio provinciale grazie anche al totale supporto della popolazione.
Tale diversità si spiega con ragioni storiche dovute a: un importante movimento risorgimentale capeggiato da Pier Fortunato Calvi nel Cadore nel 1848, il quale contribuì enormemente a dare un patriottismo italiano; i ricordi dei soprusi e delle violenze austriache nella Prima Guerra Mondiale, specialmente dopo la loro invasione nel 1917, il famoso “anno della fame”; un antifascismo contadino non esibito ma covato a lungo poiché il regime nulla aveva fatto dopo la crisi del ’29 per risollevare l’economia di queste povere terre, anzi, molti dovettero emigrare.
Il 13 settembre 1943 le truppe naziste entravano pacificamente a Belluno annettendola di fatto alla Germania all’interno dell’Alpenvorland. Tra le prime conseguenze: un forte limite agli spostamenti; la sospensione delle leggi a tutela dei cittadini; il coprifuoco; la continuazione della pratica degli ammassi e dei conferimenti obbligatori di alimenti (latte, burro, carni, grassi…).
Complessivamente, tuttavia, le condizioni qui imposte erano pur sempre meno pesanti che in pianura, ciononostante si palesò subito una forte avversione verso l’invasore. Il 10 ottobre ’43 nascevano il Comitato di Liberazione provinciale e l’Esecutivo Militare, entrambi diretti da 5 esponenti rappresentanti i 5 partiti antifascisti (PCI, PSI, PDA, DC, PLI). Il 4 novembre, anniversario della vittoria della Prima Guerra Mondiale, i municipi di Longarone e Pieve di Cadore esposero il tricolore, un atto piuttosto arduo e coraggioso visto che Belluno non era più in territorio italiano. Il 7 novembre si costituiva ufficialmente il primo nucleo partigiano presso la caséra “Spàsema”, nella parte alta di Lentiai, dai gruppi comunisti di Lentiai e Cesio (non a caso si era scelta la data che ricordava l’anniversario della Rivoluzione bolscevica): era sorto il distaccamento “Luigi Boscarin”, in memoria di un feltrino caduto nella guerra civile spagnola in difesa della Repubblica.
Trasferitisi in Val del Mis, e subito dopo nella Val Mesath (Mesazzo), dietro al monte Toc, nella valle del Vajont (seconda metà di dicembre ’43), i partigiani si sistemarono nelle casére vuote lì presenti. Il 17 febbraio ’44 il distaccamento “Boscarin” fu ribattezzato distaccamento “Ferdiani” dal nome storpiato (era Fergnani) del primo partigiano caduto. Un mese dopo esso si rese protagonista di un’azione spettacolare: l’attacco all’ammasso di Cimolais. Gli ammassi erano costituiti da periodici raduni organizzati dalle autorità competenti in luogo pubblico in cui veniva fatto obbligo ai contadini e ai piccoli proprietari il conferimento di una quota  di bestiame e altri alimenti perché avvenisse un’equa redistribuzione di cibo a tutta la popolazione in quei tempi di povertà estrema, cosa che, comunque, non avveniva mai, ed anzi venivano privilegiati militari, carabinieri e tutti coloro che ricoprivano cariche pubbliche nella distribuzione del cibo. Per questo, ma anche per il fatto che in un’economia zootecnica come quella bellunese, resa difficile anche dalla rigidità del clima e da un suolo montagnoso poco produttivo, il possedere una vacca in più o in meno faceva una grande differenza per una famiglia, i contadini vedevano gli ammassi come un sopruso nei loro confronti. I partigiani si fecero loro paladini sciogliendo gli ammassi dove possibile, tenendo una piccola quantità per la loro sopravvivenza, e ridistribuendo il resto ai proprietari e alle famiglie più disagiate. Allo stesso tempo, andavano in municipio a distruggere le carte annonarie e di conferimento, di modo di impedire ulteriori raduni (si badi che a Belluno si conferiva il 6,5% di quanto prodotto contro la media del Veneto del 51,4%), e le cartoline precetto con cui si obbligavano i giovani a presentarsi alle visite di leva per servire l’esercito tedesco. Tale fu l’efficienza dei partigiani in queste operazioni che Belluno fu l’unica provincia in tutta Europa in cui i nazisti non riuscirono nell’ arruolamento coatto!
Tali azioni valsero la conquista della simpatia e dell’appoggio di pressoché tutta la popolazione.
Altre caratteristiche di questa prima fase della Resistenza sulle montagne bellunesi furono:
– certamente una buona conoscenza dei sentieri di montagna, di vie alternative e dei luoghi nel loro complesso;
– l’uso della tipica saggezza contadina nel trattare coi tedeschi. La gente sapeva che non li poteva affrontare direttamente poiché più forti sotto tutti i punti di vista, quindi li aggiravano con furbizia: per esempio accogliendoli in casa con gentilezza e buone maniere, fingendo simpatia e disponibilità per carpire informazioni importanti da riferire poi ai partigiani; quando le staffette venivano fermate ai posti di blocco un sorriso o una parola gentile potevano valere il libero passaggio; anche tutto quell’insieme di piccole bugie come dare indicazioni stradali errate, far finta di non sapere, sostenere che i figli non si erano presentati alla leva perché rapiti dai partigiani, i quali poi, si sarebbero sentiti camminare tutta la notte da quanti erano…;
– la ricerca di un buon rapporto con la popolazione cosa fondamentale per poter continuare la lotta contro gli invasori;
– una continua pressione (anche psicologica) data da numerose azioni di sabotaggio a macchia di leopardo sul territorio (impedimento degli ammassi e distruzione delle relative carte e delle cartoline precetto di leva; distruzione di ponti, strade, gallerie e vie ferroviarie; eliminazione di spie…) la quale aveva l’obiettivo di far sentire al tedesco invasore di essere indesiderato e malvisto.
Ma una svolta importante si ebbe in seguito a due importanti avvenimenti nel giugno ’44.
Nel giorno 4 gli Alleati liberavano Roma e cominciavano a risalire la penisola all’inseguimento dei nazisti in ritirata. Si pensò così che ormai la Liberazione di tutta l’Italia fosse imminente, che fosse giunto insomma il tanto sospirato e atteso “momento buono”.
Nel giorno 15, di notte, con un’azione audace e fortunosa, una trentina di partigiani bellunesi liberava senza colpo ferire i 73 detenuti politici nel carcere di Baldenich (la famosa “Operazione Baldenich”). Si trattò di uno smacco clamoroso per le forze occupanti.
Cambiava ora il comportamento dei tedeschi, complice l’ordinanza di Kesselring il quale aveva ordinato di compiere le più spietate rappresaglie possibili sulle popolazioni, i quali passavano da una certa tolleranza alla violenza più brutale fatta di: uccisioni di partigiani poi esposti in luoghi pubblici a cui le popolazioni dovevano assistere; uccisioni di innocenti la cui colpa spesso era di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato; condanna a morte e torture per i partigiani e per chi era anche solo sospettato di aiutarli. Tale repressione raggiunse l’apice in agosto con l’incendio di due paesi interi: Aune (nel feltrino) e la Valle del Biois (nell’agordino). Dopodiché, da fine agosto ai primi di ottobre, a causa dello stallo dell’avanzata alleata sulla Linea Gotica, gli invasori poterono dedicarsi totalmente ai rastrellamenti antipartigiani su tutta la provincia.
Nel frattempo, i ribelli della montagna erano aumentati a dismisura, di ben 10 volte tra maggio ed agosto, arrivando tra i 4-5.000, causando notevoli problemi logistici ed organizzativi, e pesando sempre più sulla popolazione che ora si faceva più impaurita e diffidente sentendosi presa tra due fuochi.
Ai tedeschi non era riuscito con le “buone maniere” di spezzare il legame tra popolazione e partigiani, per cui ora ci provavano con questa violenza disumana contro i civili.
Se l’inverno ’43-’44 aveva decretato la montagna come punto di forza per il movimento dei neopatrioti, l’inverno ’44-’45, tra l’altro particolarmente freddo e nevoso, ne metteva a nudo le  difficoltà e ne sanciva l’isolamento.
I partigiani seppero riorganizzarsi a tutti i livelli, ricostruendo, dove possibile, buoni rapporti con la popolazione: aiutando i contadini nei lavori usuali; dando aiuti economici alle famiglie più colpite dalle rappresaglie naziste (perché gli avevano bruciato la casa o ammazzato o deportato uno o più familiari…); prendendo accordi con malghe, latterie e botteghe fidate per l’approvvigionamento di beni di prima necessità; dandosi una ferrea autodisciplina e lottando contro banditi (specialmente se si trattava di partigiani che si comportavano male, allora si arrivava a punizioni severissime finanche alla condanna a morte); denunciando gli speculatori e i grassatori che si arricchivano col mercato nero; prendendo accordi tramite il CLN con i produttori locali per il rifornimento viveri, evitando così di gravare sui civili; obbligando i grandi possessori a versare beni o denaro alla “giusta causa” della Liberazione.
Su queste basi si possono considerare le reazioni della popolazione in merito a due tra i tanti eventi tragici dell’inverno 1945: il 10 marzo 10 partigiani vennero impiccati al Bosco delle Castagne presso Bolzano Bellunese (periferia di Belluno); altri  4 vennero impiccati il 17 in piazza Campedel, la piazza principale di Belluno (alla Liberazione ribattezzata Piazza dei Martiri in loro ricordo e onore). A quest’ultimo crimine la popolazione rispose tenendo chiuse per due giorni consecutivi, cosa mai avvenuta, le porte e le finestre delle abitazioni e tutte le serrande dei negozi, coi tedeschi che girovagavano soli, spersi ed impauriti, e partecipando in massa ai funerali solenni delle vittime. Senza dubbi la popolazione aveva di nuovo ribadito la sua scelta di campo, da che parte stava.
Con la Liberazione e il definitivo ritiro degli invasori i meriti dei patrioti stettero: nella salvaguardia delle centrali idroelettriche; nel controllo del flusso stradale bloccando così le forze d’aiuto provenienti da Bolzano; nell’impedire l’uso delle fortificazioni.
E’ importante considerare anche che i bombardamenti alleati avvennero solo dal dicembre ’44 fino alla Liberazione, causando meno danni che in tutto il resto del Veneto, in corrispondenza al diminuire delle azioni partigiane il che dimostra che se non ci fosse stata la lotta partigiana nel bellunese, e così intensa, quasi sicuramente la provincia sarebbe stata bombardata a tappeto vista l’importanza strategica che le fortificazioni ricoprivano per il Reich.
I fascisti se ne stettero ben nascosti compiendo il lavoro sporco dello spionaggio. Quando, nell’agosto ’44, si provò a dar vita alla Brigata Nera “Gasparri” si presentarono 19 volontari, tra l’altro da fuori provincia, il che la dice lunga.
La vita del partigiano fu molto difficile: occorreva stare sempre in movimento, con lunghe marce a piedi sempre in luoghi diversi; si doveva diffidare della gente perché non si sapeva mai; si mangiava quando capitava e quello che capitava tra lunghi digiuni e stesso cibo per giorni e giorni; si dormiva quando capitava, dove capitava e con due a turno a vegliare eventuali pericoli; ci si lavava raramente e si potevano indossare gli stessi vestiti per settimane, tanto che il tempo libero veniva impiegato per l’uccisione dei pidocchi.
Complessivamente si può concludere che la Resistenza bellunese non fu caratterizzata da grandi battaglie campali (lo impediva il territorio montano stesso), ma da continui attacchi ed azioni di sabotaggio a vari livelli.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

– La Zona d’operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale, a cura di Andrea Di Michele e Rodolfo Tafani, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2009, Atti del convegno tenutosi a Trento, Bolzano e Belluno il 22-25 marzo 2006, scritti di vari.

– Le Dolomiti del Terzo Reich, Lorenzo Baratter, presentazione di Hans Heiss, Ugo Mursia editore S.p.A., Milano 2005.

– Tesi di laurea triennale in Storia Partigiani e popolazione civile: approvvigionamento, ammassi e requisizioni nel Bellunese (1943-1945), Università Ca’ Foscari di Venezia, di Roberto Tacca n. matr. 783600, Prof. Relatore Pietro Brunello, anno accademico 2010/2011.

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http://anpimirano.it/2012/la-resistenza-in-montagna/feed/ 2 236
Canti della Resistenza http://anpimirano.it/2011/canti-della-resistenza/ Tue, 17 May 2011 19:04:36 +0000 http://anpimirano.it/?p=174

Venerdì 27 maggio presso la Sala Conferenze di Villa Errera

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Video: Il Vento e la Pioggia (Scaltenigo) http://anpimirano.it/2010/video-il-vento-e-la-pioggia-scaltenigo/ Mon, 16 Aug 2010 20:26:24 +0000 http://anpimirano.it/?p=50 ]]> 50