LA RESISTENZA IN MONTAGNA

LA RESISTENZA IN MONTAGNA

[Relazione di Roberto Tacca al convegno organizzato dall’ANPI di Mirano per la “Giornata della Memoria dedicata ai Martiri di Mirano, Sala conferenza di Villa Errera, Mirano, 11 dicembre 2011]

Convegno a Mirano, 11 dicembre 2011.

Ritengo necessario, per una buona comprensione dell’argomento, focalizzare l’attenzione su 3 punti principali tra loro collegati: le principali caratteristiche dell’Alpenvorland; la Resistenza nelle province di Bolzano e Trento; la Resistenza nel bellunese.

Se parliamo di Resistenza in montagna diventa necessario un prologo di cosa fosse l’Alpenvorland e del perché della sua creazione.
All’indomani dell’annuncio dell’armistizio italiano con le forze alleate il regime nazista fondò due regioni autonome a statuto speciale di fatto annesse, pur senza alcuna dichiarazione, al III Reich (10 settembre 1943). Si tratta dell’Alpenvorland (Prealpi), che inglobava le province di Bolzano, Trento e Belluno; e dell’ Adriatisches Kustenland (Litorale Adriatico) che comprendeva una zona più vasta dal Friuli fino a Fiume, in Istria, e quasi tutta l’attuale Slovenia.
Noi qui ci occuperemo solo dell’Alpenvorland il cui Gauleiter, ossia governatore, fu nominato Franz Hofer, già Gauleiter del Tirolo, il quale prenderà ordini esclusivamente da Hitler.
Il perché della fondazione di tali due aree sta nella loro importanza strategica ai fini della guerra in corso e principalmente:
– il controllo delle vie di comunicazione più importanti come: il Brennero, il collegamento tra il    feltrino e la Valsugana, e la via per i Balcani;
– il progetto politico, qualora la guerra fosse andata a buon fine per il Reich, di annessione di tutto il Veneto alla Germania, progetto caldeggiato da Hitler e da Goebbels, e giustificato sia dall’antico dominio asburgico su tale regione, sia come risposta all’armistizio firmato dall’Italia;
– il progetto di un “ridotto alpino”, ovvero di un estremo baluardo difensivo, una specie di ultima fortezza entro cui far resistere all’estremo il Reich in attesa delle armi segrete. E’ un obiettivo che Hofer persegue fino all’ultimo, basti pensare che diventa il suo progetto di un “Grande Tirolo”, una vasta area che doveva comprendere l’Alpenvorland, l’Austria, la Baviera, la Boemia e la Moravia, in cui il nazismo sarebbe sopravvissuto come sistema politico in alleanza all’Occidente e agli Usa  in funzione anticomunista e antisovietica. A tal fine già da maggio 1944 Hofer fece studiare la zona a diversi geologi per far costruire le fortificazioni necessarie lungo i principali fiumi (Piave, Isonzo, Tagliamento…), vi trasferì numerosi scienziati ed esperti di armi e di difesa militare, e pure molti prigionieri politici da offrire come possibile merce di scambio. Tale progetto fallì per la richiesta statunitense della resa incondizionata.
Hofer si presentò “bene” nel senso che i tedeschi invasori cercarono fin da subito la pace sociale, l’ordine pubblico e la collaborazione di modo da evitare inutili spargimenti di sangue: ottenere la fiducia, o almeno la non ostilità della popolazione avrebbe facilitato i loro compiti. A tal fine si consideri che le cariche amministrative restarono in mano a gente locale: parliamo di prefetti, podestà e segretari comunali, per la maggiore, i quali però non avevano alcuna autonomia decisionale dato che dovevano attuare le direttive imposte dal Gauleiter. Dunque un mero palliativo di continuità col sistema precedente.
Lo sfruttamento delle risorse locali era un altro obiettivo dei nazisti, a cominciare dalle centrali idroelettriche, ma anche il legname moneta di scambio per eccellenza dell’economia bellunese, e certamente la manodopera, sia maschile che femminile, abbondante visto lo stato difficile dell’economia del tempo.
Merita una speciale considerazione il fatto che nelle due “Zone d’Operazione”, ovvero Alpenvorland e Litorale Adriatico, fosse fatto divieto di costituzione del Partito Fascista Repubblicano. Questo la dice lunga sull’idea che avevano i tedeschi degli italiani! Persino Mussolini, che allo stesso tempo cercava un territorio ideale per combattere una resistenza estrema dovette accontentarsi della Valtellina come suo rifugio, dopo essere stato dichiarato “indesiderato” sia da Hofer che da Rainer (il Gauleiter del Litorale Adriatico). Il duce aveva infatti sondato la possibilità di trasferirsi a Belluno o a Udine, ma i due Gauleiter gli fecero capire che sarebbe stato loro solo d’impiccio. Un’umiliazione totale per Mussolini, ora capo di un governo fantoccio creato solo per volere di Hitler in quanto il controllo totale dell’Italia era cosa impossibile per i tedeschi dispiegati ed impegnati in una guerra che coinvolgeva tutto il suolo europeo (penisola iberica esclusa). Il fascismo, sorto nel brodo culturale del nazionalismo che aveva inneggiato all’interventismo nella Prima Guerra Mondiale in nome del recupero delle terre italiane, Trento e Trieste (irredentismo), era riuscito dopo un ventennio a consegnare ai tedeschi tali terre conquistate col sangue di migliaia di italiani: un fallimento a regola d’arte. Mentre la Repubblica Sociale Italiana era invasa dai propri alleati (!) essa perdeva autorità e giurisdizione su altri territori italiani: ora, l’Alto Adige, il Trentino, il bellunese e il Friuli erano da considerarsi a tutti gli effetti come territori tedeschi in cui non potevano entrare né l’esercito italiano né la polizia italiana. Anche gli spostamenti degli abitanti dovevano essere sottoposti a rigidi controlli, specialmente se si trattava di uscire dalle nuove frontiere.
I progetti delle fortificazioni trovarono attuazione grazie all’ Organizzazione Todt (OT), dal nome del ministro tedesco degli armamenti Fritz Todt, un’istituzione volta a costruirle grazie alla collaborazione fra tecnici tedeschi e imprese locali con la relativa manodopera. Per invogliare la gente a lavorarci l’ OT offriva dei lauti compensi. Ma essa si occupava anche della costruzione o, più spesso, della riparazione dei danni di guerra riguardo strade, ponti, gallerie, ferrovie ecc… in seguito a bombardamenti o attacchi partigiani.

E’ in questo contesto che si svilupparono forme di Resistenza nelle tre province occupate, tuttavia il quadro è piuttosto disomogeneo.
Nelle province di Trento e Bolzano la Resistenza coinvolse attivamente solo una stretta minoranza di persone, basti pensare che il dibattito tra l’essere italiani o tedeschi riguardava solo un’ élite, ovvero le classi sociali medio-alte, mentre il resto della popolazione si considerava semplicemente tirolese o trentina.
Gli effetti della Prima Guerra Mondiale furono diversi sulle due suddette province: se nel Tirolo essa rafforzò il patriottismo austriaco, nel trentino  rafforzò un sentimento autonomistico che però non si legava ad aspirazioni italiane. Entrambe le province avevano apprezzato la buona amministrazione asburgica, ma il trentino ne aveva conosciuto anche le feroci repressioni in risposta alle richieste di maggiore autonomia.
Con l’avvento del fascismo Bolzano, da poco annessa all’Italia, conobbe una politica miope e criminale di italianizzazione forzata volta a distruggere ogni forma di cultura locale. Logico dunque che qui si salutasse con entusiasmo l’avvento del nazismo in Germania già nel 1933. E infatti le truppe del Reich vennero accolte festosamente all’indomani dell’ 8 settembre ’43 e i tedeschi  non ebbero alcuna difficoltà nel reclutamento di volontari nel proprio esercito. Occorre anche dire che le due etnie presenti, la tedesca e la italiana, erano divise al proprio interno.
La prima, maggioritaria, si divideva in “Optanten” e “Dableiber” dal 1939, da quando cioè Hitler diede possibilità ai tedeschi dell’Alto Adige di espatriare in Germania (fino ad allora egli non aveva voluto sollevare la questione del Tirolo per non offendere Mussolini del quale aveva una profonda stima). I primi si trasferirono in Germania, e Hitler li valorizzerà mandandoli a combattere sul fronte russo e slavo; i secondi rimasero in Italia poiché, di sentimenti austriaci, si riconoscevano nell’Impero asburgico e cattolico in contrapposizione alle politiche razziste, e più vicine alla chiesa protestante, dei tedeschi.
La seconda, minoritaria, si divideva in base al periodo d’immigrazione. Negli anni ’20 il fascismo aveva spinto per il trasferimento di numerose famiglie italiane in Alto Adige, soprattutto per ricoprire ruoli burocratici e di amministrazione pubblica, dunque legate al regime; mentre negli anni ’30 si ebbe un trasferimento di lavoratori in ruoli più umili (muratori, operai, falegnami…) di cui alcuni, essendo stati all’estero, avevano conosciuto gli ideali antifascisti.
Tali divisioni interne alle due etnie non potevano che indebolire ogni forma di Resistenza.
A Trento le truppe della Wermacht passarono tra l’indifferenza generale, nessun atto di simpatia né di ostilità, e sarà più o meno così fino alla Liberazione. I tedeschi furono abili nell’eliminare subito i principali elementi antifascisti cosicché il territorio assecondò, in generale, gli obiettivi di ordine e pace sociale a cui Hofer aspirava. Solo nella parte sud-orientale della Valsugana si sviluppò un movimento resistenziale di una certa consistenza, e non a caso poiché era una diramazione della brigata feltrina “Gramsci”. Tuttavia, secondo le testimonianze di alcuni partigiani che ho avuto modo di intervistare, si deve dedurre che mentre la popolazione bellunese fu sempre, quasi nella sua totalità, solidale e d’appoggio ai partigiani, quella trentina si dimostrò invece più inaffidabile e dedita allo spionaggio.
Si comprende dunque come la Resistenza nelle province di Trento e Bolzano non potesse che risultare debole, passiva, individuale, costituita da diserzioni frutto di obiezioni di coscienza e di nascondimenti in attesa della fine della guerra.

Nella provincia di Belluno, invece, la situazione era molto diversa con una Resistenza attiva fatta da un movimento partigiano che, superate le prime difficoltà, si era sviluppato numericamente ed aveva effettuato parecchie azioni di disturbo in tutto il territorio provinciale grazie anche al totale supporto della popolazione.
Tale diversità si spiega con ragioni storiche dovute a: un importante movimento risorgimentale capeggiato da Pier Fortunato Calvi nel Cadore nel 1848, il quale contribuì enormemente a dare un patriottismo italiano; i ricordi dei soprusi e delle violenze austriache nella Prima Guerra Mondiale, specialmente dopo la loro invasione nel 1917, il famoso “anno della fame”; un antifascismo contadino non esibito ma covato a lungo poiché il regime nulla aveva fatto dopo la crisi del ’29 per risollevare l’economia di queste povere terre, anzi, molti dovettero emigrare.
Il 13 settembre 1943 le truppe naziste entravano pacificamente a Belluno annettendola di fatto alla Germania all’interno dell’Alpenvorland. Tra le prime conseguenze: un forte limite agli spostamenti; la sospensione delle leggi a tutela dei cittadini; il coprifuoco; la continuazione della pratica degli ammassi e dei conferimenti obbligatori di alimenti (latte, burro, carni, grassi…).
Complessivamente, tuttavia, le condizioni qui imposte erano pur sempre meno pesanti che in pianura, ciononostante si palesò subito una forte avversione verso l’invasore. Il 10 ottobre ’43 nascevano il Comitato di Liberazione provinciale e l’Esecutivo Militare, entrambi diretti da 5 esponenti rappresentanti i 5 partiti antifascisti (PCI, PSI, PDA, DC, PLI). Il 4 novembre, anniversario della vittoria della Prima Guerra Mondiale, i municipi di Longarone e Pieve di Cadore esposero il tricolore, un atto piuttosto arduo e coraggioso visto che Belluno non era più in territorio italiano. Il 7 novembre si costituiva ufficialmente il primo nucleo partigiano presso la caséra “Spàsema”, nella parte alta di Lentiai, dai gruppi comunisti di Lentiai e Cesio (non a caso si era scelta la data che ricordava l’anniversario della Rivoluzione bolscevica): era sorto il distaccamento “Luigi Boscarin”, in memoria di un feltrino caduto nella guerra civile spagnola in difesa della Repubblica.
Trasferitisi in Val del Mis, e subito dopo nella Val Mesath (Mesazzo), dietro al monte Toc, nella valle del Vajont (seconda metà di dicembre ’43), i partigiani si sistemarono nelle casére vuote lì presenti. Il 17 febbraio ’44 il distaccamento “Boscarin” fu ribattezzato distaccamento “Ferdiani” dal nome storpiato (era Fergnani) del primo partigiano caduto. Un mese dopo esso si rese protagonista di un’azione spettacolare: l’attacco all’ammasso di Cimolais. Gli ammassi erano costituiti da periodici raduni organizzati dalle autorità competenti in luogo pubblico in cui veniva fatto obbligo ai contadini e ai piccoli proprietari il conferimento di una quota  di bestiame e altri alimenti perché avvenisse un’equa redistribuzione di cibo a tutta la popolazione in quei tempi di povertà estrema, cosa che, comunque, non avveniva mai, ed anzi venivano privilegiati militari, carabinieri e tutti coloro che ricoprivano cariche pubbliche nella distribuzione del cibo. Per questo, ma anche per il fatto che in un’economia zootecnica come quella bellunese, resa difficile anche dalla rigidità del clima e da un suolo montagnoso poco produttivo, il possedere una vacca in più o in meno faceva una grande differenza per una famiglia, i contadini vedevano gli ammassi come un sopruso nei loro confronti. I partigiani si fecero loro paladini sciogliendo gli ammassi dove possibile, tenendo una piccola quantità per la loro sopravvivenza, e ridistribuendo il resto ai proprietari e alle famiglie più disagiate. Allo stesso tempo, andavano in municipio a distruggere le carte annonarie e di conferimento, di modo di impedire ulteriori raduni (si badi che a Belluno si conferiva il 6,5% di quanto prodotto contro la media del Veneto del 51,4%), e le cartoline precetto con cui si obbligavano i giovani a presentarsi alle visite di leva per servire l’esercito tedesco. Tale fu l’efficienza dei partigiani in queste operazioni che Belluno fu l’unica provincia in tutta Europa in cui i nazisti non riuscirono nell’ arruolamento coatto!
Tali azioni valsero la conquista della simpatia e dell’appoggio di pressoché tutta la popolazione.
Altre caratteristiche di questa prima fase della Resistenza sulle montagne bellunesi furono:
– certamente una buona conoscenza dei sentieri di montagna, di vie alternative e dei luoghi nel loro complesso;
– l’uso della tipica saggezza contadina nel trattare coi tedeschi. La gente sapeva che non li poteva affrontare direttamente poiché più forti sotto tutti i punti di vista, quindi li aggiravano con furbizia: per esempio accogliendoli in casa con gentilezza e buone maniere, fingendo simpatia e disponibilità per carpire informazioni importanti da riferire poi ai partigiani; quando le staffette venivano fermate ai posti di blocco un sorriso o una parola gentile potevano valere il libero passaggio; anche tutto quell’insieme di piccole bugie come dare indicazioni stradali errate, far finta di non sapere, sostenere che i figli non si erano presentati alla leva perché rapiti dai partigiani, i quali poi, si sarebbero sentiti camminare tutta la notte da quanti erano…;
– la ricerca di un buon rapporto con la popolazione cosa fondamentale per poter continuare la lotta contro gli invasori;
– una continua pressione (anche psicologica) data da numerose azioni di sabotaggio a macchia di leopardo sul territorio (impedimento degli ammassi e distruzione delle relative carte e delle cartoline precetto di leva; distruzione di ponti, strade, gallerie e vie ferroviarie; eliminazione di spie…) la quale aveva l’obiettivo di far sentire al tedesco invasore di essere indesiderato e malvisto.
Ma una svolta importante si ebbe in seguito a due importanti avvenimenti nel giugno ’44.
Nel giorno 4 gli Alleati liberavano Roma e cominciavano a risalire la penisola all’inseguimento dei nazisti in ritirata. Si pensò così che ormai la Liberazione di tutta l’Italia fosse imminente, che fosse giunto insomma il tanto sospirato e atteso “momento buono”.
Nel giorno 15, di notte, con un’azione audace e fortunosa, una trentina di partigiani bellunesi liberava senza colpo ferire i 73 detenuti politici nel carcere di Baldenich (la famosa “Operazione Baldenich”). Si trattò di uno smacco clamoroso per le forze occupanti.
Cambiava ora il comportamento dei tedeschi, complice l’ordinanza di Kesselring il quale aveva ordinato di compiere le più spietate rappresaglie possibili sulle popolazioni, i quali passavano da una certa tolleranza alla violenza più brutale fatta di: uccisioni di partigiani poi esposti in luoghi pubblici a cui le popolazioni dovevano assistere; uccisioni di innocenti la cui colpa spesso era di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato; condanna a morte e torture per i partigiani e per chi era anche solo sospettato di aiutarli. Tale repressione raggiunse l’apice in agosto con l’incendio di due paesi interi: Aune (nel feltrino) e la Valle del Biois (nell’agordino). Dopodiché, da fine agosto ai primi di ottobre, a causa dello stallo dell’avanzata alleata sulla Linea Gotica, gli invasori poterono dedicarsi totalmente ai rastrellamenti antipartigiani su tutta la provincia.
Nel frattempo, i ribelli della montagna erano aumentati a dismisura, di ben 10 volte tra maggio ed agosto, arrivando tra i 4-5.000, causando notevoli problemi logistici ed organizzativi, e pesando sempre più sulla popolazione che ora si faceva più impaurita e diffidente sentendosi presa tra due fuochi.
Ai tedeschi non era riuscito con le “buone maniere” di spezzare il legame tra popolazione e partigiani, per cui ora ci provavano con questa violenza disumana contro i civili.
Se l’inverno ’43-’44 aveva decretato la montagna come punto di forza per il movimento dei neopatrioti, l’inverno ’44-’45, tra l’altro particolarmente freddo e nevoso, ne metteva a nudo le  difficoltà e ne sanciva l’isolamento.
I partigiani seppero riorganizzarsi a tutti i livelli, ricostruendo, dove possibile, buoni rapporti con la popolazione: aiutando i contadini nei lavori usuali; dando aiuti economici alle famiglie più colpite dalle rappresaglie naziste (perché gli avevano bruciato la casa o ammazzato o deportato uno o più familiari…); prendendo accordi con malghe, latterie e botteghe fidate per l’approvvigionamento di beni di prima necessità; dandosi una ferrea autodisciplina e lottando contro banditi (specialmente se si trattava di partigiani che si comportavano male, allora si arrivava a punizioni severissime finanche alla condanna a morte); denunciando gli speculatori e i grassatori che si arricchivano col mercato nero; prendendo accordi tramite il CLN con i produttori locali per il rifornimento viveri, evitando così di gravare sui civili; obbligando i grandi possessori a versare beni o denaro alla “giusta causa” della Liberazione.
Su queste basi si possono considerare le reazioni della popolazione in merito a due tra i tanti eventi tragici dell’inverno 1945: il 10 marzo 10 partigiani vennero impiccati al Bosco delle Castagne presso Bolzano Bellunese (periferia di Belluno); altri  4 vennero impiccati il 17 in piazza Campedel, la piazza principale di Belluno (alla Liberazione ribattezzata Piazza dei Martiri in loro ricordo e onore). A quest’ultimo crimine la popolazione rispose tenendo chiuse per due giorni consecutivi, cosa mai avvenuta, le porte e le finestre delle abitazioni e tutte le serrande dei negozi, coi tedeschi che girovagavano soli, spersi ed impauriti, e partecipando in massa ai funerali solenni delle vittime. Senza dubbi la popolazione aveva di nuovo ribadito la sua scelta di campo, da che parte stava.
Con la Liberazione e il definitivo ritiro degli invasori i meriti dei patrioti stettero: nella salvaguardia delle centrali idroelettriche; nel controllo del flusso stradale bloccando così le forze d’aiuto provenienti da Bolzano; nell’impedire l’uso delle fortificazioni.
E’ importante considerare anche che i bombardamenti alleati avvennero solo dal dicembre ’44 fino alla Liberazione, causando meno danni che in tutto il resto del Veneto, in corrispondenza al diminuire delle azioni partigiane il che dimostra che se non ci fosse stata la lotta partigiana nel bellunese, e così intensa, quasi sicuramente la provincia sarebbe stata bombardata a tappeto vista l’importanza strategica che le fortificazioni ricoprivano per il Reich.
I fascisti se ne stettero ben nascosti compiendo il lavoro sporco dello spionaggio. Quando, nell’agosto ’44, si provò a dar vita alla Brigata Nera “Gasparri” si presentarono 19 volontari, tra l’altro da fuori provincia, il che la dice lunga.
La vita del partigiano fu molto difficile: occorreva stare sempre in movimento, con lunghe marce a piedi sempre in luoghi diversi; si doveva diffidare della gente perché non si sapeva mai; si mangiava quando capitava e quello che capitava tra lunghi digiuni e stesso cibo per giorni e giorni; si dormiva quando capitava, dove capitava e con due a turno a vegliare eventuali pericoli; ci si lavava raramente e si potevano indossare gli stessi vestiti per settimane, tanto che il tempo libero veniva impiegato per l’uccisione dei pidocchi.
Complessivamente si può concludere che la Resistenza bellunese non fu caratterizzata da grandi battaglie campali (lo impediva il territorio montano stesso), ma da continui attacchi ed azioni di sabotaggio a vari livelli.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

– La Zona d’operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale, a cura di Andrea Di Michele e Rodolfo Tafani, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2009, Atti del convegno tenutosi a Trento, Bolzano e Belluno il 22-25 marzo 2006, scritti di vari.

– Le Dolomiti del Terzo Reich, Lorenzo Baratter, presentazione di Hans Heiss, Ugo Mursia editore S.p.A., Milano 2005.

– Tesi di laurea triennale in Storia Partigiani e popolazione civile: approvvigionamento, ammassi e requisizioni nel Bellunese (1943-1945), Università Ca’ Foscari di Venezia, di Roberto Tacca n. matr. 783600, Prof. Relatore Pietro Brunello, anno accademico 2010/2011.

2 pensieri riguardo “LA RESISTENZA IN MONTAGNA”

  1. Ho letto con molto interesse,la precisa e puntuale relazione,di Roberto Tacca.Peccato non esserci stato.Relazione che nel “crudo”contenuto,rende ragione alla Storia,e riporta i Fatti nella loro giusta dimensione tempo spazio.In una sintesi difficilmente attaccabile da “storici di comodo”,dai vari Pansa di turno,tesi a dimostrare che tutto in fondo, tra vinti e vincitori,tra vittime e carnefici,non c’è differenza,per potersi così sdoganare,e farsi accettare ,ancora una volta nella socetà resa miope,e pronta a essere comandata da un futuro Uomo della Provvidenza.(ne abbiamo scampato uno da poco,dopo un quasi ventennio),con gli effetti drammatici per noi Italiani quasi quanto una guerra,dopo una demolizione morale,e democratica,della socetà,che avevamo,ereditato dai Padri Costituenti,frutto di una lotta contro le dittature populiste della destra europea,sostenute dai tanti che si calano, anche oggi, purtroppo, nelle zone grige nell’attesa dei Tartari.scusate se mi sono dilungato,grazie dellopportunità offerta.Vi scrivo da Caviola,nella Valle del Biois,mio padre il 20 e il 21 Agosto 1944 c’era.

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