1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia

p.-2-scioperi_grandeLo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì  l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre.
Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece “le lotte operaie assunsero un carattere differente” perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del “triangolo industriale”, si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell’arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell’ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe “una grandissima importanza”:
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell’anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto “a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell’occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato”.
Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali”, fece capire che “ormai il tempo degli scioperi era passato”. La “scena dello scontro” quindi “si trasferì sui monti” e apparve chiaro che “soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo”.  Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di “agganciare”, attraverso la “socializzazione”, i lavoratori.

Torino in sciopero

A Torino lo sciopero scatta il 1° marzo 1944, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, abbia comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche.
Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l’indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che hanno l’obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d’Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti in modo che alcuni dei più importanti complessi industriali della regione vengono paralizzati.
Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decreta la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrae fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decide la ripresa del lavoro.
La lotta, estesasi successivamente in altre regioni del Nord, assume un significato politico: tradurre sul piano della fabbrica la dichiarazione di guerra consegnata dall’antifascismo torinese al regime fascista fin dall’8 settembre 1943. Al termine degli eventi si stringono le maglie della repressione nazifascista attraverso arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento tedeschi: circa 400 operai, 178 alla sola Fiat, sono prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. Pochi di loro riescono a fare ritorno.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.

Testo del volantino clandestino diffuso nelle fabbriche torinesi:

SCIOPERO GENERALE CONTRO LA FAME E CONTRO IL TERRORE

Ancora una volta le masse operaie, strette attorno al COMITATO PROVINCIALE DI AGITAZIONE, scenderanno in lotta per difendere il diritto alla vita e alla libertà di tutto il popolo italiano. Le masse operaie ancora una volta passeranno all’attacco contro i nemici di ogni civiltà, contro i barbari nazifascisti. Le masse operaie scenderanno in lotta contro il terrore e la fame, scenderanno cioè in lotta per difendere la vita di tutti.
L’ora è giunta per dimostrare ai nostri nemici spietati come i torinesi, come i piemontesi formino un solo blocco. Non soltanto gli operai, ma tutti i professionisti, tutti gli impiegati, tutti i cittadini debbono scioperare.

Evviva lo sciopero generale di tutto il grande tenace eroico popolo piemontese.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Questa sera alle ore 20.45 a Schio all’osteria “Due Mori”, Ugo de Grandis e Beppe traversa faranno conoscere una storia poco conosciuta: il 29 febbraio 1944 Schio fu la prima città d’Italia a incrociare le braccia contro il fascismo e la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Uno dei tanti primati della città che la storia ufficiale ignora.

1625662_716712511706636_2075810653_n

Politica nuova?

anpiE’ ben difficile parlare di “nuova politica” di fronte al rapidissimo mutamento di situazione che si è verificato nel giro di una settimana, col Governo Letta “indotto” alle dimissioni e il “trionfo” del nuovo Segretario del PD, che si avvia alla conquista di gran carriera del posto di Presidente del Consiglio, sulla base semplicemente delle decisioni adottate dal suo partito.

Intanto, è difficile compiacersi e considerare “buona politica” l’improvviso mutamento nelle parole e nelle decisioni del futuro premier. Non lo faccio io, ma l’ha fatto lo stesso quotidiano del suo partito, l’elenco delle cose che da più di un mese andava dicendo (solo per esemplificare: mai più governi di larghe intese, mai accesso alla guida di Palazzo Chigi senza un voto popolare, mai prendere il posto di Letta prima del compimento del semestre europeo, mai rinnovare i riti della vecchia politica); ed ora nel giro di pochi giorni, addirittura di poche ore, tutto è stato cancellato e smentito.

Si va al Governo con Alfano, si costringe Letta alle dimissioni, si cambia quasi tutto il Governo (ma Alfano resta, a quanto pare) con un metodo a dir poco discutibile (pur di dimostrare una pretesa discontinuità, si mandano a casa anche Ministri, come quelli dell’Istruzione che avevano ben meritato), non si fa un pur rapido passaggio in Parlamento, mentre si continua ad ignorare il vero e reale programma del nuovo esecutivo. Non c’è male, come rinnovamento della politica. E non c’è male anche sotto il profilo strettamente istituzionale; il cambio avviene sulla base di rapide e scontate consultazioni, al Parlamento spetterà un voto complessivo, di avallo di un lavoro già compiuto. Che ci siano dei precedenti in termini (un governo “eletto” senza un passaggio parlamentare, con un premier non eletto da nessuno, ma solo indicato dal suo partito), ne dubito. Comunque, conterebbero ben poco, visto che si afferma che si vuole rinnovare la politica.

E non ci si venga a dire che il passaggio parlamentare  non era utile perché le dimissioni di Letta erano irrevocabili e dunque non c’era la possibilità che cambiasse idea. Serissimi costituzionalisti hanno già dimostrato che non è così, perché il Parlamento deve essere chiamato in causa, non già per prendere atto delle dimissioni oppure decidere di mantenere in vita il vecchio Governo, ma – essenzialmente – perché tutto avvenga alla luce del sole e con un pubblico dibattito dal quale i cittadini apprendano le ragioni per cui il “passaggio” sta avvenendo, con quelle modalità, con un Governo che non ha avuto la sfiducia, con dimissioni non spiegate, se non da una riunione di partito (peraltro assai ambigua, sul punto), con la scelta di un Presidente del Consiglio estraneo al Parlamento, con un programma tutto da conoscere, prima ancora che da verificare.

Questo dibattito non ci sarà, a quanto apprendiamo.

Anche questa, a tutto concedere, non è proprio una novità e questo è davvero singolare quando si parla continuamente di innovazione e cambiamenti nello stesso modo di far politica.

Con questo, non intendo affatto “difendere” il Governo Letta, che ha le sue responsabilità e le sue colpe, sempre denunciate da queste colonne. Del resto, che ci sia stato e che ci sia qualcosa che non funziona, lo si deduce da quello che sta avvenendo in Parlamento, dove si sta profilando un pauroso ingorgo di decreti in scadenza (5 a febbraio e 3 a marzo); e quali decreti! Basti ricordare che c’è il cosiddetto “mille proroghe”, già carico di una montagna di emendamenti; c’è il finanziamento pubblico dei partiti e c’è il famosissimo decreto “salvaRoma”; e, ancora, lo “svuotamento carceri”, il “destinazione Italia”; il decreto che proroga le missioni all’estero, e così via. Una massa di provvedimenti urgenti e in scadenza, che ingolosiscono le opposizioni, che faranno di tutto per ostacolarli. Un calendario come questo rappresenta di per sé un giudizio negativo, prima che sul Parlamento, sul Governo, che non è stato capace di procedere oculatamente e nelle forme ordinarie.

Ma, detto questo, “non si uccidono così i cavalli”; insomma, anche per cambiare di passo (e di esecutivo) ci vorrebbe un po’ più di garbo (e non parlo solo di “educazione”, ormai smarrito da tempo, ma soprattutto di garbo istituzionale).

In mezzo a tutto questo, guardo ancora – con malcelata nostalgia – alla mia “agenda” della settimana scorsa e mi accorgo che al mio elenco di priorità politiche e soprattutto sociali, non viene contrapposto, allo stato, praticamente nulla che sia noto e conoscibile; eppure, parlavo di “pianificazione degli interventi “(addio ai decreti-legge), di provvedimenti urgentissimi per risolvere la gravissima emergenza  sociale, della creazione di un piano organico e mirato per reperire le risorse necessarie ad un rilancio delle attività produttive e alla creazione di posti di lavoro “veri”, di riforma della politica, di forte impegno contro la criminalità organizzata e contro la corruzione; e parlavo anche di riforme istituzionali basate sulla conoscenza, sulla riflessione e sul confronto reale attorno ai modelli possibili per realizzare una concreta differenziazione del lavoro delle due Camere.

Un vero libro di sogni: a Roma si sta parlando, al solito, di posti, di nomi, di caselle da occupare e da destinare, ma gli obiettivi restano nel vago: si parla sempre di riforma della legge elettorale; ma se poi la si fa in un modo da molti giudicato pessimo, e se essa finisce in mezzo all’ingorgo dei decreti, anche su questo c’è poco da sperare, soprattutto se si pensa che bisognerebbe ancora approfondire, confrontarsi, riflettere e non improvvisare.

Ma almeno, a prescindere dalla velocità (anzi, dalla fretta) che è realmente e fin troppo innovativa, qualche “novità” c’è? Certo, ce n’é almeno una, a cui non pensavamo più: la soglia del Quirinale, una volta preclusa a chi aveva anche solo un avviso di garanzia, è stata varcata, a quanto pare, da un condannato, provvisoriamente e incredibilmente libero di circolare, solo perché un Tribunale di sorveglianza sta tardando a decidere se assegnarlo agli arresti domiciliari oppure ai servizi sociali. Questa è davvero un’innovazione, la seconda peraltro, dopo lo “storico” incontro al Nazareno tra due leader entrambi estranei al Parlamento, di cui peraltro uno perché non ha ancora avuto modo di farsi eleggere e l’altro perché dal Senato è stato escluso per decadenza.

Ci sarebbe da sorridere, se non ci fosse da piangere. Ma noi, vecchi combattenti, non sorridiamo e non piangiamo: stringiamo i denti, aspettando che si torni davvero ai valori ed alle regole della Costituzione, che prenda il sopravvento la politica “buona”, che insomma qualcosa cambi davvero, nel nostro Paese. Noi non abbiamo mai disperato ed anche di fronte a prove terribili, continuiamo a pensare e sperare che all’Italia arrida un futuro migliore, all’insegna della nuova politica, dell’antifascismo, della democrazia (parole, quest’ultime, che ci piacerebbe sentire, almeno ogni tanto, nei discorsi e ragionamenti politici, ed invece non si sentono praticamente mai).

Naturalmente, limitarsi a sperare sarebbe troppo poco. Non lo abbiamo mai fatto e non lo faremo neppure adesso, anche se i tempi sono difficili e complessi. Ma noi – la nostra Associazione – siamo portatori di valori che vengono da lontano e ci parlano di donne e uomini che, per quei valori, hanno lottato e sofferto, non scoraggiandosi mai, ma sempre operando perché essi trionfassero. Se avessimo solo “sperato”, non ci sarebbe stata la Resistenza ed avremmo finito per aspettare l’arrivo degli Alleati. Invece, c’è stato un impegno forte e deciso anche quando tutto sembrava perduto, a fronte di una barbarie incalzante e dotata di uomini e mezzi soverchianti. Quell’impegno ha pagato, alla fine, come pagherà anche oggi se non ci arrenderemo allo sconforto, alla delusione, allo smarrimento e cercheremo di fare sentire, con forza, la voce della Costituzione, la voce, mai incrinata, dei tanti che hanno combattuto per la nostra libertà e per il futuro del Paese.

Carlo Smuraglia – Presidente Nazionale ANPI

Roma, 18/02/2014

 

Il nuovo dizionario di Matteo: c’è “Paese” e non “Berlusconi”. Spariscono destra e sinistra (di Filippo Ceccarelli da “Repubblica”)

Le parole, al giorno d’oggi, si misurano e si pesano. Ieri Renzi si è rivolto molto più al grande pubblico che ai senatori, che pure ha cercato di coinvolgere, a tratti anche divertendoli, per il resto sforzandosi di stupirli senza troppo preoccuparsi che alcuni si sarebbero disorientati. La novità comunque c’è. Così parlò Renzi in quelle che un tempo si sarebbero definite «dichiarazioni programmatiche» e ieri lui stesso ha suggestivamente assimilato a una specie di «Truman show».

Io, noi. Pronomi interscambiabili. «Apprezzo », «ci avviciniamo», «non vorrei», «abbiamo svolto». Il protagonismo egocentrato convive con una dimensione collettiva, ma nell’economia generale del discorso non è chiaro il motore e la funzione del loro alternarsi. L’effetto suona talvolta come un singolarissimo
plurale majestatis.

Età, la mia età. Segnale di auto-distinzione anagrafica con prezioso richiamo d’esordio al brano della «pur bravissima» Gigliola Cinquetti, che con Renzi, del resto, condivise ai tempi la militanza nei comitati per l’Ulivo. Su un piano storico-oggettivo il tempo presente è indicato come: passaggio. Ma la tentazione della Generazione Erasmus è sempre in agguato.

Derby. Sta per sfida, scontro, conflitto, ma con un aperto pregiudizio di riprovazione. Vedi il «derby ideologico» sulla giustizia. Lessico calcistico, nei due interventi al Senato ridotto tuttavia al minimo.

Coraggio. Un tempo virtù che si riconosceva esclusivamente ai grandi scomparsi, oggi risorsa comunicativa ad alto impatto rivendicata in tempo reale come inconfondibile segno di leadership. Spessa abbinato, ma per negazione e sottrazione, alla paura, «non abbiamo paura», «mai paura», eccetera.

Urgenza. Così come l’accelerazione risuonata nella replica, è la premessa della velocità, dell’impeto e dell’iper-cinetismo del nuovo presidente comunque necessari ad affrontare, anzi a prestissimo risolvere i problemi sul tappeto.

Faccia, facce. Sostantivi eminentemente visivi, quindi televisivi e come tali tipici del renzismo. Il potere sollecita sguardi,trasmette indizi, addita fenomeni che tutti possono guardare, di norma sugli schermi.

Sogno, sogni. Provenienti dalla pubblicità e resi inevitabili nella retorica della Seconda Repubblica dopo l’inaugurazione, l’uso e l’abuso di Berlusconi, ma anche di altri suoi onirici imitatori. Un indubbio progresso, nel caso odierno, la mancanza della consueta citazione di Martin Luther King, «I have a dream».

Fuori. «Fuori di qui», «fuori da quest’aula ». Un modo per sottolineare la propria estraneità alla casta, termine però menzionato ieri appena di sfuggita. «Fuori», senza nemmeno il sottotitolo (Mondadori, 2011), era d’altra parte il titolo di uno dei primi e illuminanti — con il senno di poi — libri di Renzi. Un capitolo dedicato al «complesso di Silvio», l’innominato. E oggi il cognome Berlusconi non è mai risuonato.

La madre di. Fantasioso riciclaggio «giornalese» al linguaggio bellico di Saddam Hussein (1991). «La madre dei nostri problemi», ha detto Renzi, e «la madre di tutte le privatizzazioni». Questa madre non proprio un esempio di premura e bontà.

Papà. «Credo che capire cosa significa incrociare lo sguardo di un papà… « e qui Renzi si è fermato, e ricordandosi di essere fiorentino si è regalato una civetteria lessicale per così dire identitaria: «Per non dire babbo».

I nostri figli. O anche «i nostri ragazzi». La reiterata espressione, di toccante valenza famigliare, ha introdotto e rafforzato argomenti anche ragionevoli, ma «aveva pure il senso di ricercare un accordo trasversale diretto a tutti i senatori-genitori.

Struggente, devastante. Curiosa coppia di aggettivi che due volte sono comparsi nel discorso. Romantico il primo, apocalittico il secondo.

Persone. Sostantivo molto usato e mai a sproposito. Probabilmente rivelatore della cultura cattolica che sta nel background di Renzi. Si sente l’eco di Mounier e si adatta bene al tono discorsivo.

Destra, Sinistra. La prima mai citata. La seconda una sola volta, nella replica.

Slides. Anglismo esorbitante. Si poteva dire: diapositive.

Scuola, insegnanti. La parte più personale. Essendo la signora Agnese una professoressa si sentiva l’eco, e anche la vitalità, di tanti discorsi in famiglia.

Fiatone. Una dei tanti termini del sermo humilis, ovvero parla anche in Parlamento come mangi: «tirar via», «giocatevele», «le bandierine», «una pizza e una birra».

Racconto. La politica renziana persegue la tecnica e un po’ anche la filosofia della narrazione, o story-telling che dir si voglia. La bambina figlia di immigrati, le telefonate ai marò, alla signora sfigurata dal vetriolo, all’amico disoccupato. Un modo per andare alle questioni con lo slancio della prima persona.

Buon lavoro a tutti. La conclusione della replica come un saluto. Un tempo si diceva «Viva l’Italia» o anche «Iddio salvi l’Italia». La speranza che un più semplice augurio funzioni comunque.

 

Il cattivo tedesco e il bravo italiano

coverfocardiPremessa – di Wu Ming 1

Ecco un’occasione da cogliere al volo.

Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…
Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere – l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.
Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.
[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.
Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l’elargizione non si sono costituite parte civile.]
Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.
Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:
– la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;
– l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;
– la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);
– i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;
– l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;
– la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.
E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:http://youtu.be/2IlB7IP4hys

Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).

A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:

«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»

Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.
Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.

(dal sito http://www.wumingfoundation.com)

Alvaro Bari: un pilota veneziano nella Resistenza feltrina

Nessun titolo diapositivaA Feltre, nell’Aula Magna dell’istituto “A. Colotti”, sabato 1 marzo 2014 alle ore 11 ci sarà la presentazione del libro “Alvaro Bari – Un pilota veneziano nella Resistenza feltrina”. Saranno presenti gli autori Aurelio De Paoli e Renato Vecchiato.

Questo il prologo di Renato Vecchiato:

Aurelio ed io, nell’autunno del 2012, ci siamo ritrovati in un incontro conviviale tra ex studenti. Accomunati da reciproca curiosità per le nostre radici storiche, c’incamminammo con la conversazione, sul tema delle lotte partigiane della sua terra, il Feltrino. L’argomento incontrò il mio interesse sia per la conoscenza dell’argomento sia per l’ammirazione che nutro, da diversi anni, per la leggendaria figura di comandante partigiano, del “comandante Bruno”, l’ingegnere Paride Brunetti, da poco deceduto. Un uomo che segnò la storia della Resistenza di Feltre e non solo. Così, dopo esserci scambiati reciproche informazioni storiografiche e opinioni personali sulla particolare complessità storica di quei tormentati venti mesi di guerra nel Feltrino, Aurelio mi comunicò di aver iniziato una ricerca su alcuni specifici episodi, in particolare su un giovane Tenente pilota ucciso dai nazi – fascisti vicino a casa sua e con giusto orgoglio m’informò che aveva già raccolto le testimonianze di alcuni anziani e di partigiani.
«Pensa, conosco personalmente un ex – aviere, già Capo Nucleo della nostra Associazione Arma Aeronautica (AAA), che aveva incontrato più volte questo Tenente pilota!» e, con un tono di sfottò etnico campanilistico, affermò: «E son sicuro che neanche giù, da voi a Venezia, si hanno notizie di questo tosàt morto per la libertà!»
«Ma come si chiamava?»
«Tenente pilota Bari Alvaro», scandì con tono militare e aggiunse «trucidato, assieme ad un altro, dai nazifascisti su di un ponte sul Piave, quello che collega Busche a Cesana».
«Bari? Conosco un medico con questo cognome…».
Così, aperta la breccia, Aurelio continuò. Il suo interessamento a quell’avvenimento era iniziato qualche tempo prima. Aveva ben presente la lapide posta all’interno dello storico Istituto Colotti che ricorda il «diplomato Alvaro Bari, il partigiano combattente “Cristallo” morto a Lentiai» quando fu incoraggiato dal Maresciallo dei Carabinieri, Stefano Vagnozzi, a raccogliere ulteriori informazioni su quel giovane. Il fatto di essere allora Capo Nucleo dell’AAA e di abitare poco lontano dal luogo della tragedia lo stimolò ad avviare la ricerca tra gli anziani. Dopo diversi contatti, la sorte lo fece incontrare con un anonimo e impaurito testimone oculare della tragedia. Un anziano che ebbe allora l’onere di aiutare il padre falegname, come lui, a costruire le casse da morto per quei due sfortunati sconosciuti. Con questa straordinaria testimonianza la ricerca si consolidò con l’acquisizione presso il Comune di Lentiai delle copie integrali dei certificati di morte di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda, il suo compagno di sventura. E in questi preziosi documenti trovò trascritti i verbali ufficiali di ritrovamento che confermavano la testimonianza.
Aurelio terminò dicendomi di essere un po’ preoccupato perché non voleva turbare con la sua ricerca la sensibilità dei famigliari di Alvaro. Mi chiese allora di verificare se c’era qualche parentela con i miei conoscenti e, se ci fosse stata, di sentire la loro disponibilità a riaprire quella dolorosa ferita per ricordarne la memoria.
La fortuna l’ha assistito una seconda volta. La casualità aveva fatto incontrare i nostri interessi rispetto a questa dolorosa storia. Un Feltrino e un Veneziano, per un eroe veneziano d’origine ma feltrino d’adozione.
Così, dopo aver avuto da due nipoti, Mario e Giorgio Bari, il ringraziamento per il suo impegno a far conoscere il loro congiunto, ho dato anch’io la mia disponibilità a proseguire e sviluppare la sua bozza iniziale, per la quale era stato già incoraggiato anche dalle parole del Vice Presidente della Sezione AAA di Treviso, il Ten. Col. Augusto Costantini :
[…] Aurelio contribuisce a farci conoscere queste storie ingiustamente sconosciute o dimenticate e che comunque non dovrebbero mai più ripetersi. Il lavoro, scritto con passione, è molto interessante […]»
Aurelio non ha solo il merito di aver promosso l’iniziativa, ma anche di aver coinvolto i seguenti testimoni feltrini:
– Romildo De Bastiani, artigiano muratore di Pont di Feltre.
– Carlo Gris, artigiano, figlio del comandante partigiano Oreste, “Tombion” di Menin di Cesiomaggiore.
– Sergio Samiolo, partigiano “Sam”, taxista, ex – aviere aiuto autista, amico di Alvaro. Capo nucleo della AAA di Feltre dal 1989 al 2003.
– Umberto Tatto, partigiano “Leone”, giovanissima guida nella ritirata della Brigata Gramsci durante il rastrellamento nazifascista delle Vette feltrine; capo cantiere dell’impresa “Lodigiani”.
– Mauro Velo, falegname, testimone oculare della fucilazione di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda.
Il mio impegno si è focalizzato soprattutto nella ricerca documentale e bibliografica riguardante la vita di Alvaro, breve ma densa dei tragici avvenimenti dell’epoca. Per fare questo ho coinvolto molte altre persone, tra i primi i nipoti Mario e Giorgio Bari; a quest’ultimo va anche il merito di aver rintracciato il fascicolo del processo a Niedermayer presso il Tribunale Militare di Verona, oltre che aver seguito con sensibilità e passione il lavoro.
Tra i tanti contributi di collaborazione personalmente ricevuti, ricordo con gratitudine quelli forniti: dalle signore Fiorenza Lovera e Cristina Gherlenda (nipoti di Gherlenda); dal dirigente scolastico e dalla direttrice amministrativa dell’istituto Andrea Colotti di Feltre; dai funzionari dei diversi Comuni interpellati (tra i quali Feltre, Lentiai, Cesiomaggiore, Fiera di Primiero, Venezia, San Stino di Livenza, Noale, Loreggia); dai responsabili dei due Istituti di storia della Resistenza: Isbrec (Belluno) e Ivsrec (Padova); dai parroci di Pez, Lentiai e Primiero; dai funzionari del Ministero della Difesa (Divisione Documentazione Aeronautica di Roma, Centro di documentazione militare di Padova, Tribunale Militare di Verona) e, (non ultimi!) dagli storici citati in bibliografia, specialmente Giuseppe Sittoni.
Un ringraziamento particolare:
alla professoressa Liana Bortolon, coetanea ed amica d’infanzia della giovane fidanzata di Alvaro, per avermi concesso un’intervista telefonica;
al professor Giovanni Perenzin per aver fornito, da attento e scrupoloso studioso feltrino della Resistenza, molte e dettagliate osservazioni nella stesura finale del libro.
Renato Vecchiato

17 febbraio 1992: arresto di Mario Chiesa

054606030-bd40ec04-7745-42c2-a01e-a159908174a8Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni: sogna di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano. Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare al presidente 14 milioni, la tangente pattuita su un appalto da 140 milioni. Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A dir la verità – ricorda Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.» Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo, quasi si scontra con un carabiniere in borghese.
Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»), una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capisce di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No, ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto. Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore.
L’intervento è stato preparato con cura. Le prove sono schiaccianti: una ogni dieci delle banconote di Magni è stata firmata da un lato dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, dall’altro dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro. La ditta di Magni, che si occupa di speciali trattamenti ospedalieri, lavora per il Pio Albergo Trivulzio da qualche anno. Nel 1990, con i primi appalti consistenti, sono arrivate anche le prime richieste di denaro. Racconta Magni: «I soldi Chiesa me li ha chiesti con quattro parole secche, com’è sua abitudine: “Mi deve dare il 10 per cento”». In meno di due anni l’imprenditore porta a Chiesa una quarantina di milioni, in sei o sette consegne, sempre in contanti, dentro una busta bianca. «Io non immaginavo certo che cosa sarebbe successo dopo la mia decisione di andare dai carabinieri. Per me era un problema economico. Il 10 per cento è troppo, anche perché nel nostro settore non possiamo recuperare gonfiando i prezzi. E poi le buste Chiesa le voleva subito, mentre noi i pagamenti li vedevamo molti mesi dopo. Era una situazione insostenibile.»
Così Magni chiede aiuto all’Arma. Il 13 febbraio telefona alla caserma milanese di via Moscova. Il capitano Zuliani gli fissa un appuntamento per le 10 del giorno seguente, venerdì 14. Lo ascolta, raccoglie la sua denuncia e la presenta al magistrato con cui lavora: Di Pietro. Il pm e l’ufficiale preparano il blitz per il lunedì: quel giorno Di Pietro è di turno, quindi l’inchiesta sarà assegnata a lui. L’appuntamento è per le 13 del 17 febbraio, alla caserma di via Moscova. Luca Magni arriva con la sua auto Mitsubishi e con i suoi 7 milioni. Il capitano lo accompagna subito a palazzo di giustizia: «Ero un po’ teso – ricorda l’imprenditore – perché non mi aspettavo di incontrare un magistrato. Però mi sono subito tranquillizzato, perché Di Pietro è stato molto gentile. Ha fatto uscire dalla sua stanza tutti quelli che vi stavano lavorando, mi ha messo a mio agio e mi ha chiesto di raccontargli i fatti, senza alcun atteggiamento inquisitorio».
In caserma, le banconote vengono siglate e fotocopiate. Si prova la penna- trasmittente e la valigetta-telecamera (che alla fine non risulterà granché utile). Poi un corteo di quattro macchine, la Mitsubishi di Magni e tre auto dei carabinieri, parte per il Pio Albergo Trivulzio (che i milanesi chiamano affettuosamente «Baggina» perché ha sede sulla strada che porta a Baggio). Sta nascendo Mani pulite, l’inizio della fine di un sistema politico. Ma nessuno, quel giorno, può ancora immaginarlo. (da “Il Fatto Quotidiano)

Venerdì 14 febbraio: Domenico Gallo “Da sudditi a cittadini”

gallo1La Costituzione è – dovrebbe essere – il patto, la regola fondamentale per la convivenza di un popolo. Un insieme di valori, di principi e di norme vincolanti. E invece, sempre più spesso, la si considera una sorta di reliquia. Nella migliore delle ipotesi essa viene considerata un simbolo, come la bandiera o l’inno nazionale, ma non incide sulla vita quotidiana dei cittadini e delle istituzioni. C’è chi la considera un documento storico superato, suscettibile di essere modificato a piacimento. Il libro di Domenico Gallo – magistrato e giurista di grande cultura storica e politica – reagisce a questo atteggiamento e lo fa ricostruendo la storia, i movimenti, gli eventi che hanno portato alla Costituzione; evidenziando chi l’ha voluta e chi l’ha ostacolata; esplicitando la portata dei principi in essa affermati. Tutto questo con l’ausilio di materiali storici, documenti, filmati raccolti in uno specifico CD-Rom allegato. Un libro per tutti, particolarmente prezioso per studenti e insegnanti.

Venerdì 14 febbraio alle ore 20.45 Domenico Gallo sarà presente nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano per presentare il suo libro. Introduzione a cura di Francesco Baicchi, coordinatore nazionale della “Rete per la Costituzione”.

http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/stampa.php?id=132

Nella giornata del ricordo oltraggio ai partigiani

Simbolo-ANPIIn occasione della giornata del ricordo veniamo informati di un’iniziativa organizzata dall’Anpi di Cadoneghe in collaborazione con l’Anvgd di Padova, con la partecipazione di Maurizio Angelini, Italia Giacca e Adriana Ivanov dell’Anvgd di Padova. Come Anpi di Mirano esprimiamo la nostra assoluta contrarietà all’iniziativa e siamo sconcertati per il titolo dato a questo convegno. Le due lettere che seguono sono dell’Assessore ai Lavori Pubblici di Cadoneghe, Silvio Cecchinato, e della storica  Alessandra Kersevan, ed esprimono benissimo anche il nostro pensiero.

Anpi “Martiri di Mirano”

Sono l’assessore ai LL.PP. e Protezione Civile di Cadoneghe (PD) nonchè ricercatore di storia della Resistenza Padovana che ha espresso il proprio sdegno alla Amministrazione e alla Presidenza ANPI locale per una iniziativa che definisco offensiva per la memoria e il sacrificio dei Caduti della Resistenza. Il fatto che la commemorazione e il volantino-invito sia stato redatto di concerto tra la presidente e il vice presidente ANPI rispettivamente di Padova e della Regione Veneto è per me  un fatto di inaudita gravità. La prof.ssa Ivanov, figlia di un fascista  ha operato con gli ustascia in Croazia è autrice di un libello di manipolazione storica di concerto con la provincia di centro destra di Padova. Nel merito ho già avuto modo di polemizzare nella passata veste di Assessore alla Cultura del Comune partigiano di Cadoneghe. Mi fermo qui per lasciare a Voi tutti una valutazione nel merito. Fraterni Saluti.

Assessore Cecchinato Silvio

Caro Silvio, grazie per questa tua decisa presa di posizione. La deriva non ha ormai più fine. Credo che i vari circoli ANPI debbano chiedere conto a Angelini e agli altri soggetti dell’ANPI coinvolti in questa operazione. Questo titolo dell’iniziativa è un oltraggio alle migliaia e migliaia di comunisti che sono morti ammazzati dai fascisti per liberare l’Italia dal nazifascismo e per la Costituzione. Questo titolo mette partigiani e repubblichini sullo stesso piano, obiettivo che Violante e Fini hanno cercato di realizzare già nel 1997 trovando allora molta opposizione, ma evidentemente ora gli sforzi massmediatici e di altro tipo degli ambienti antipartigiani che fanno riferimento all’ANVGD stanno raggiungendo l’obiettivo, confondendo ormai vittime e carnefici, guerrafondai e difensori della libertà anche nella lotta di liberazione italiana, come sono riusciti a fare con quella jugoslava. Credo che non si possa ormai più far finta di niente, che la dirigenza nazionale dell’ANPI debba prendere una posizione precisa, contro le posizioni del responsabile dell’ANPI del Veneto.

Alessandra Kersevan

Questo il video in cui Alessandra Kersevan spiega gli avvenimenti del confine orientale:

Un importante articolo di Sandi Volk sul fenomeno dell’esodo:

https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMbWZ4ODBSQ0FrVGs/edit?usp=sharing

Lettera del Presidente dell’Anpi di Salò, Paolo Canipari, sulla vicenda:

Ciao e buongiorno,
ho ricevuto e letto la comunicazione dell’ANPI di Mirano( VE ) che esprime la netta contrarietà ad una iniziativa della Sezione ANPI di Cadoneghe ( PD ) , che la vede coinvolta in un dibattito pubblico insieme all’Associazione ANVGD. Mi associo a quanto denunciato dall’ANPI di Mirano e vi porto a conoscenza della lettera che ho inoltrato al Consiglio Direttivo provinciale di Brescia ( di cui faccio parte ) e ad altri indirizzi , per cercare insieme di affrontare e far conoscere , nel più adeguato dei modi, un argomento che penso non sia sufficientemente conosciuto nei suoi aspetti storici.

Cari compagni,
Quando alcune sezioni dell’ANPI non sono adeguatamente informate su quanto accadde in quel periodo storico, succede di cadere in queste ” brutte e cattive ” iniziative, che l’ANPI di Cadoneghe ha intrapreso per commemorare la ” Giornata del ricordo “. E’ successo anche qualche anno fa, a Vobarno (BS) dove, anche nella buona fede del Sindaco ( mio amico e compagno e iscritto all’ANPI – antifascista DOC ) su suggerimento di ” amministratori comunali di Brescia ” si invitò il ” noto” Rubessa dell’ANVGD di Brescia per l’esposizione di una Mostra e per un dibattito pubblico. Meno male, che l’ANPI di Vobarno ( con il segretario Vezzola ) e il sottoscritto intervennero per sminuire le ” porcate ” del suddetto Rubessa.
In questi giorni è apparsa e sta imperversando nella mia Zona (specialmente nelle scuole) – a Salò ( ahimè la mia città ), Gavardo , Moniga ( dove addirittura il Comune l’anno scorso ha concesso ” La cittadinanza onoraria ” ), la ” testimone ” Nadia Cernecca – figlia ( allora aveva 7 anni ) di ” una vittima del diffuso propagandato odio dei partigiani di Tito verso gli italiani ” così è la presentazione ufficiale con la quale si presenta, a nome di un’altra fantomatica Associazione – Ass.Naz C(ongiunti)D(eportati)I(taliani) in J(ugoslavia).(??) – ( Notizia dell’Ultimo minuto, mentre sto scrivendo – e con beneficio di inventario: mi dicono che il Sindaco di Gavardo ha annunciato un collegamento in diretta con ” Porta a Porta ” proprio con la loro iniziativa con la Cernecca.. Udite – udite).
E nelle sezioni ANPI ancora l’argomento non è sufficientemente conosciuto, nonostante il convegno organizzato dalla Commissione Scuola – il 31 gennaio 2005 – a Cellatica ( BS ) e i continui interventi sul nostro periodico provinciale ” Ieri e Oggi Resistenza”.
Varrebbe la pena, secondo il mio parere, organizzare un seminario, una giornata di studio ..un qualcosa.. sull’argomento.
Una ” sventagliata di falsità” da parte di questi figuri – che si atteggiano a ” storici “, e di fronte specialmente a studenti storicamente impreparati, cancella in un battibaleno il prezioso e costante lavoro che tante Sezioni dell’ANPI svolgono in occasione della ” Giornata della Memoria”, o del 25 aprile o del 2 giugno..
In vista delle prossime scadenze elettorali, varrebbe la pena “informare” che anche la generazione dei “nuovi ” Amministratori dovrà fare riferimento ai principi dell’antifascismo, così come sanciti dalla nostra Costituzione e così tenacemente da salvaguardare nei suoi principi fondamentali ( come ci sta sollecitando il nostro Presidente Smuraglia).
Anche la scuola oggi dimostra scarsa attenzione ai periodi storici succedutisi dalla nascita della nostra Repubblica.
Lo dico come Presidente dell’ANPI di Salò, una città quasi solamente conosciuta a livello internazionale per la sua antistorica assonanza nominale di capitale della RSI ( da qui ” repubblica di Salò “) e magari non conosciuta come città natale dell’ottava vittima della strage di Piazza Loggia del 1974 ( il compagno Vittorio Zambarda ). Io stesso ero presente quella mattina e mi sono salvato solo perchè appoggiato ad una colonna. E si fa fatica a rendere l’episodio come parte della ” storia ” della città: a 40 anni di distanza. Ma anche qui , se chiedete alle nuove generazioni della mia zona se hanno qualche informazioni o conoscenza della carneficina. Risposta: quasi niente !! ( o magari sono state le brigate rosse!!).
Per ultimo: vi ricordo che proprio a Salò, la mia sezione ha in corso la esposizione della Mostra ” Testa per dente ” curata , curata dagli storici che fanno riferimento alla casa editrice “Kappavu ” di Udine (di cui fa parte anche la dott.ssa Kersevan – autrice della lettera inviata all’ANPi di Cadoneghe – inserita nell’allegato).
(Non me ne voglia la sezione ANPI di Cadoneghe: avranno sicuramente modo di rimediare a quello che è, sicuramente, un incidente di percorso. Anzi: li invito a Salò per un cordiale incontro).
Paolo Canipari – Presidente Sezione ANPI di Salò

Lettera di Renzo Giannoccolo a Carlo Smuraglia:

Signor Presidente Carlo Smuraglia,

il 25 luglio 2012, in quel di Gattatico (RE), l’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA, da Lei presieduta, e l’ISTITUTO ALCIDE CERVI, sottoscrissero il documento/manifesto “Per un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”.
La lettura del documento fece immediatamente breccia su di me e, a partire dal mese di settembre dello stesso anno, iniziai una lunga serie di telefonate, contattando compagne e compagni della CGIL – anche di Avellino e Alessandria – dello SPI, dell’ANPI – locale e provinciale – di ISTORECO e dell’ISTITUTO CERVI.
Con il prezioso contributo di tutti, compresa l’Amministrazione comunale di Correggio, organizzammo, nelle giornate del 15 e 16 dicembre 2012, un evento che recepiva il titolo del documento/manifesto del 25 luglio: “PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA”. “FINE SETTIMANA RESISTENTE” che comparve anche sul sito dell’ANPI nazionale.
Allego il link http://www.anpi.it/eventi/per-un-nuovo-impegno-e-una-nuova-cultura-antifascista__20121215/

In questi giorni, frequentando le pagine di facebook, leggo che il 17 febbraio prossimo, in quel di Cadoneghe (PD), in occasione del “GIORNO DEL RICORDO”, si svolgerà un dibattito dal titolo più che emblematico: “Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti; siamo italiani e crediamo nella Costituzione”.
Il dibattito è organizzato da ANPI Veneto e Padova (sigh!) e da ANVGD di Padova, e vede la partecipazione, tra le altre persone, del sindaco di Cadoneghe.
Allego link https://www.facebook.com/photo.php?fbid=620027838067924&set=a.502872946450081.1073741827.100001821392324&type=1&theater
Ora, mio chiedo e Le chiedo: dove trovano piena cittadinanza e coerenza il “Nuovo impegno e la nuova cultura antifascista”?
Nella iniziativa svolta a Correggio il 15 e 16 dicembre 2012 o in quella programmata a Cadoneghe per il 17 febbraio prossimo?
La sezione ANPI di Cadoneghe ha letto il documento/manifesto del 25 luglio 2012? In caso di risposta affermativa, perchè organizza una iniziativa che va in direzione opposta e contraria?

Signor Presidente Carlo Smuraglia,
nel ricordarLe la Sua puntuale e tempestiva presa di posizione, nel 2011, di fronte alla proposta di legge (primo firmatario Gregorio Fontana del Pdl), di equiparare i repubblichini di Salò ai Partigiani (il link) http://www.repubblica.it/politica/2011/05/31/news/pdl_propone_riconoscimento_ex_combattenti_sal_per_loro_contributi_statali_come_per_anpi-17031066/?ref=HREC1-5
Le chiedo cortesemente e, altrettanto fermamente, anche in qualità di iscritto all’ANPI, di PRENDERE DECISAMENTE LE DISTANZE DALL’INIZIATIVA DI CADONEGHE e, per quanto Le sarà possibile, attivarsi affinchè non si compia l’ennesimo scempio e l’ennesima violenza contro coloro che hanno combattuto e, in troppi, dato la vita per la Liberazione dell’Italia che nulla e, ribadisco, nulla hanno avuto in comune con coloro che hanno combattuto a fianco dei nazisti per l’occupazione del nostro Paese e che la Libertà ci volevano togliere.
E per rispetto dei tanti e tante che, in una situazione politica, economica, sociale e culturale sempre più drammatica, si battono quotidianamente.
PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA.

Con Affetto e Cordialità

Renzo Giannoccolo

Linguaggio e politica. Smuraglia: superato il limite

indexQuello che è avvenuto nei giorni scorsi in Parlamento non è uno spettacolo edificante, ma soprattutto non giova a nessuno, né alle istituzioni, né alla politica, né al Paese. C’è, ovviamente, chi pensa di trarne vantaggio, quanto meno ai fini della visibilità; ma anche questo è un “vantaggio” illusorio, perché non è affatto detto che tutti coloro che hanno votato “5 stelle” siano d’accordo con certi metodi; e poi il gioco allo sfascio è sempre pericoloso per tutti, compresi quelli che lo praticano. In effetti, si è vista una cosa diversa dell’ostruzionismo, che pure appartiene alla tradizione parlamentare.
Quello classico, dicono i testi, è il disegno dilatorio posto in atto da gruppi di minoranza per ritardare o impedire l’applicazione di una legge. E questo è noto all’esperienza parlamentare, che ne ricorda esempi clamorosi (il Patto Atlantico, la legge “truffa”, e molti altri, non sempre “pacifici”); in qualche modo fa parte anch’esso della tradizione parlamentare, così come ne fanno parte gli strumenti che, in mille occasioni, sono stati posti in essere per vanificarlo: ci sono state modifiche ai regolamenti parlamentari, sono stati sperimentati “rimedi” sul campo, come l’allungamento delle sedute, le votazioni cosiddette “a scalare”, e così via; e sempre ai Presidenti delle Camere è toccato il compito e il dovere di garantire e assicurare comunque la funzionalità del Parlamento. Leggi tutto “Linguaggio e politica. Smuraglia: superato il limite”

Oggi, settant’anni fa, i fascisti uccidevano Leone Ginzburg

leoneginzburg2Leone Ginzburg (Odessa 1909 – Roma 1944)

Riproponiamo qui il testo che abbiamo scritto nel novembre scorso per gli ottant’anni della casa editrice Einaudi.

«Questa mia traduzione è nata nelle circostanze seguenti».
Il primo nome che ci è venuto in mente quando dalla casa editrice ci hanno chiesto un pugno di righe – un ricordo, uno spunto, qualcosa – sull’ottantennale della fondazione dell’Einaudi, è quello di Leone Ginzburg. A seguire, quello di Proust. Perché?
Perché nel giro di ventiquattr’ore si celebrano il centenario della pubblicazione di Du côté de chez Swann (14 novembre 1913) e l’ottantennale dell’Einaudi (il giorno dopo).
E perché c’è un collegamento forte tra Leone Ginzburg, la sua persecuzione da parte dei nazifascisti, la tragica fine a Regina Coeli… e la Recherche.
La traduzione «classica» del primo tomo della Recherche, quella che l’Einaudi continua a pubblicare (oggi nella Biblioteca ET) è di Natalia Ginzburg. Gran parte del lavoro fu svolto nel 1940 a Pizzoli, in Abruzzo, dove Natalia era al confino con il marito Leone. I volumi della Recherche, in un’edizione di gran lusso, li avevano ricevuti come regalo di nozze. Dopo l’Armistizio – del quale è appena ricorso il settantennale, quanti anniversari con la cifra tonda! – i Ginzburg lasciarono il confino, ma i fogli della traduzione rimasero a Pizzoli. Leone andò a Roma, incontro alla Resistenza e alla morte. Della quale è prossimo il settantennale.
Scrive Natalia:
«Per molto tempo, non pensai più a quei fogli protocollo. Se a tratti m’avveniva di ricordarli, ricordavo soprattutto il tempo felice trascorso. Leone era morto e la quiete di quei pomeriggi che passavo a tradurre apparteneva a un’età perduta».
Ma i fogli si erano salvati. Natalia poté recuperarli a guerra finita, e terminare la traduzione.
Quanto c’è di quell’età perduta nel lavorio di Natalia sul francese e sull’italiano? Quanto della quiete al confino, e poi della guerra, della morte, della perdita? Quali parole fanno da «spia» dell’esperienza vissuta?
Quanto c’è di Leone nella traduzione di Natalia?
Natalia scrive:
«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario, anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».
Lezione più significativa e politica di quel che sembra. Il fascismo, con la sua retorica tronfia e tonitruante, delle parole e dei significati aveva fatto strame. E oggi non siamo messi molto meglio. Imperano «neolingue» eufemistiche, la cui unica funzione è ottundere. La lezione di Leone è più utile che mai.
Se, pensando alla fondazione dell’Einaudi, il primo ad apparirci è stato lui, vorrà pur dire qualcosa.
Leone Ginzburg, perseguitato e ucciso dai fascisti.
Fascisti. Fascismo. Eccole, due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.
Storie dell’Einaudi, storie nel catalogo Einaudi. Un catalogo dove Proust, morto prima della Marcia su Roma, ha voce d’antifascista.
Del resto, lo scrisse un allora fascistissimo Bargellini su un numero del Frontespizio nel 1936:
«Chi ama Proust non può amare la serenità e la virilità italiana».
Dove «italiana», come ancora oggi spesso accade, sta in realtà per «fascista».
Italia. Italiano. Ecco altre due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.

(da http://www.wumingfoundation.com)