Giustizia e Libertà, movimento rivoluzionario antifascista.

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Questa è la ricevuta e buono di restituzione per il finanziamento del movimento Giustizia e Libertà durante il periodo clandestino. Interessante l’appassionato appello contenuto sul retro del buono. Il possesso di questo documento veniva considerato dai fascisti come prova e giustificazione per la fucilazione immediata del possessore. (Grazie a Renzo Tonolo)

Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos

Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943
Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943

Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo.
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ‘900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hof­fmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fascista emana l’ordine di arresto di tutti i Rom e Sinti italiani e non, e il loro trasferimento in specifici campi di concentramento. «Se non fosse arrivato l’8 settembre quelle persone sarebbero sicuramente transitate verso i campi di sterminio tedeschi, i collegamenti c’erano e i documenti provano questa linearità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fascisti salta completamente, riescono a fuggire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di competenza della Repubblica sociale, vengono arrestati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathausen». Qualcuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai partigiani, come dimostrano le storie del piemontese sinto Amilcare Debar o di Walter Vampa Catter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre circensi, giostrai e teatranti trucidati dalle Ss tra i dieci martiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».
Una memoria taciuta
Eppure del Porrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza.
I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».

Eleonora Martini, Il Manifesto del 25 gennaio 2015

70° Giornata della Memoria

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 Il primo novembre 2005 l’Onu, con una risoluzione dell’Assemblea Generale, istituì la giornata della memoria. La risoluzione fu preceduta il 24 gennaio 2005 da una sessione speciale dell’Assemblea Generale durante la quale si celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di sterminio nazisti e la fine dell’Olocausto.
In questo giorno si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945, ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa.
Nell’ambito del programma “Consapere cinematografico” l’ANPI sez. “Martiri di Mirano” propone la visione del film “Notte e nebbia”, un documentario cinematografico di carattere storico sull’Olocausto della durata di trentadue minuti realizzato nel 1956 dal regista francese Alain Resnais su un progetto dello storico Henri Michel e con il patrocinio del Comitée d’historie de la seconde guerre mondiale in occasione del decimo anniversario della Shoah, il genocidio del popolo ebraico.
Il titolo ricalca la frase di lingua tedesca Nacht und Nebel (appunto: notte e nebbia) che caratterizzò l’operazione di annientamento – attraverso l’internamento in campi di concentramento e la successiva eliminazione fisica attraverso le camere a gas – degli oppositori del regime nazista.
L’altro film proposto è “La tregua”, opera di Francesco Rosi realizzata in collaborazione con Primo Levi nel 1997.
Trailer de “La tregua”:
Il film “La tregua” (completo, in inglese): https://www.youtube.com/watch?v=jaHr8d2z9ms
Notte e nebbia (completo, con sottotitoli in italiano): http://vimeo.com/20103124

27 gennaio 1945: Yakov Vincenko alla testa della divisione di fanteria 322 dell’Armata Rossa entra nel campo di Monowitz (Auschwitz)

Immagine2“Nell’ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati. Tacemmo: da lontano ci investiva l’eco smorzata degli scoppi. Tra i due, solo io sapevo che erano i colpi dell’artiglieria tedesca in fuga. Pensai ad uno spettro, mi assalì il dubbio di essere stato colpito, magari ucciso. Non sognavo, ero di fronte ad un morto vivente. Dietro a lui, oltre la nebbia scura, intuii decine di altri fantasmi. Ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata. L’aria era irrespirabile, un misto di carne bruciata ed escrementi. Ci sorprese la paura di un contagio, la tentazione di scappare. Non sapevo dove fossi sbucato. Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz. Abbiamo proseguito, senza una parola”.

Yakov Vincenko ha 79 anni ed è uno degli ultimi liberatori sopravvissuti dell’Armata Rossa sovietica. Raggiunse il campo di sterminio con la divisione di fanteria numero 322, fronte ucraino. Aveva 19 anni. Venti mesi prima era stato ferito nella battaglia di Kursk, quasi due milioni di soldati russi uccisi dai nazisti.

“Ho passato il primo filo spinato alle 5 di mattina: era buio, sabato 27 gennaio 1945. Non era gelido, solo tracce di neve marcia. La sera prima, nella notte, il combattimento aveva preteso molte vite. Temevo i cecchini lasciati di guardia. Al riparo di un bidone ho visto il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo d’assalto della centesima divisione, spalancare un grande cancello. Dall’altra parte un gruppo di vecchi minuti, ma erano bambini, ci ha sorriso. Solo dopo anni ho appreso di aver assistito allo schiudersi dell’ingresso dell’inferno, sotto la scritta “Arbeit macht frei”. Mi sono alzato per avanzare. Ho guardato nel bidone: era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che erano resti di chi era stato là dentro”.

Yakov Vincenko, sessant’anni dopo, è seduto ad un tavolo nella sede del comitato dei veterani di guerra, nel centro di Mosca. Sopra di lui i ritratti di Marx, Lenin, Stalin e del generale Zhukov.

“Un tipo con cui era meglio non discutere. Stalin gli aveva ordinato di non risparmiare soldati. Lui ha onorato l’impegno”.

È ancora un uomo asciutto, rigido ed eretto sopra stivaletti con un certo tacco: quando cammina è costretto a procedere spedito. Veste come un povero, gli abiti lisi sembrano non appartenergli. Tra pochi giorni sarà a Cracovia e tornerà alla polacca Oswiecim. Alla commemorazione della liberazione del campo di sterminio, assieme a 48 capi di Stato e ad una folla di anonimi, andrà con gli ultimi due compagni d’armi: uno vive a San Pietroburgo, l’altro a Minsk, in Bielorussia. Non è la storia dalla parte dei liberatori: l’orrore piuttosto, osservato con gli occhi stanchi e spaventati di soldati che non poterono riconoscere la sua dimensione.

“Mi hanno chiesto di ricordare ancora ma invecchio e il mio passato si confonde. Scopro sui libri attimi che ho vissuto e mi sorprendo. L’emozione però non accetta di liberarmi. È la seconda volta che riesco a tornare nel campo, non è un viaggio che si esaurisce in una visita. Un’ex internata ebrea mi ha scritto di lasciare un sasso per lei: non ha mai trovato la forza di rivedere la baracca e il forno crematorio che hanno inghiottito la sua famiglia”.

Il vecchio soldato, una pensione di guerra da 60 euro al mese, sul fronte occidentale russo ci finì per caso e
quasi bambino. Sorte e adolescenza rubata, incoscienza, hanno condotto i suoi passi nel labirinto dell’Olocausto,
ancora ignorato.

“Era l’estate del 1941 e vivevo a Mosca. Finita la scuola, fui mandato dai genitori a Vinnitza, in Ucraina, il nostro villaggio natale. Avrei dovuto aiutare il nonno in campagna. Due settimane dopo, per non lasciare ai tedeschi nemmeno i ragazzi, mi precettò l’Armata Rossa. Giochi, sogni, progetti, sono crollati in un giorno: a 15 anni mi sono ritrovato soldato, una baionetta del 1891 in spalla e le granate che ci stavano nelle tasche. Ero fortunato: l’esercito sovietico era così sguarnito che solo uno su quindici aveva il fucile. Per questo, mi sono salvato”.

Quattro anni tragici, tra disperazione, fame e attesa della fine. L’armata nazista avanzava verso il cuore dell’Urss. L’assedio a Leningrado, il massacro alle porte di Mosca: e Hitler che fino alla disfatta di Stalingrado, sembrava inarrestabile. Yakov Vincenko sparò il suo primo colpo a Voronezh nel 1942, agli ordini del generale Vatutin.

“Nessuno mi aveva spiegato come comportarmi. Il Fronte ucraino era un’armata di bambini, spinta avanti per localizzare i nemici e consumare le munizioni dei tedeschi. Dopo otto mesi di resistenza nel sud della Russia, siamo avanzati verso l’Ucraina. Dai tre ai venti chilometri al giorno: a Kursk, a Kiev nel 1943, in Galizia e infine a Sandomir in Polonia. Nell’autunno del 1944 ormai il morale era cambiato, i nazisti erano in rotta. Quando abbiamo conquistato Cracovia, ai primi di gennaio del 1945, i generali ci dissero che se riuscivamo a sopravvivere ancora pochi mesi, saremmo tornati a casa”.

Non finì così. L’Unione Sovietica aveva perduto tra i 25 e i 30 milioni di persone, l’esercito era decimato.
Vincenko, ormai un uomo ferito quattro volte, il 9 maggio apprese di essere un vincitore a Praga: ma a casa è tornato sette anni dopo, non trovando più qualcuno ad aspettarlo.

“Quel giorno ad Auschwitz — dice — è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo visto, ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così, ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi nega l’Olocausto dico: credete a me, che quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero”.

Le truppe di Stalin non sapevano cosa fosse un campo di sterminio. Solo gli alti comandi, a Cracovia, erano stati informati di trovarsi sulla strada del Lager di Auschwitz-Birkenau. Il 18 gennaio, alla vigilia dell’offensiva, gli ufficiali sovietici appresero che dal campo era stata fatta partire una colonna di 80mila prigionieri, scortata dai nazisti verso la Germania. Da dicembre, Himmler aveva ordinato di cessare le esecuzioni e di demolire le camere a gas.

“Tra noi e le baracche si frapponeva una tripla linea di difesa tedesca. Dovevamo superare la Vistola e il fiume Sola, i ponti e i campi erano minati. Il 25 gennaio il generale Fiodor Kravasin fece avanzare fucilieri e carristi, rinforzati da un gruppo d’artiglieria. Sono morti a centinaia, costruendo ponti di legno nella corrente. Una resistenza tanto accanita, da parte dei nazisti in ritirata, ci sembrava insensata”.

I vertici delle “SS” avevano dato ordine di distruggere le prove del genocidio, di sterminare gli ultimi testimoni della “Soluzione Finale”.

“Sapemmo poi che la notte prima dell’assalto un ufficiale tedesco, dopo la cattura, aveva confessato ai nostri che il forno crematorio di Birkenau era pronto per saltare in aria. Il maggiore Malenko, con due artificieri, due elettricisti e una pattuglia di esploratori, evitò che esplosioni e fiamme cancellassero forni, camere a gas, baracche e fosse comuni”.

Non è stata invece eroica la liberazione di Auschwitz del soldato semplice Yakov Vincenko.

“Dopo la mezzanotte del 27 gennaio fui svegliato e buttato avanti. Camminavo alla cieca, spinto da sonno e paura: non mi sono nemmeno accorto di essere entrato nei 40 chilometri quadrati occupati dai 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio del complesso di Auschwitz, Birkenau e Monowitz”.

L’ordine ufficiale era di non fermarsi, di inseguire i tedeschi per farli arretrare.

“Il comandante della prima compagnia, Maksim Ciaikin  fu centrato da una raffica esplosa da una torre di avvistamento. Seguì un sanguinoso fuoco a corta distanza. Poi il silenzio, quasi fossimo penetrati nel vuoto. Per mezz’ora, passati i reticolati e fino al cancello, ho camminato da solo e nel fango. Non era giorno quando ho in­contrato il primo morto vivente ed è stato meglio così”.

Ora cita a memoria i numeri dell’Olocausto di Auschwitz, avvertendo della sua incertezza: 1 milione e 300 mila morti, o 3 milioni, o 6 milioni, ancora non sa. Nove su dieci erano ebrei: gli altri zingari, omosessuali, prostitute. Fino a 5 mila vittime al giorno, con i forni a pieno regime. I 600 evasi in quattro anni, 400 dei qua­li ripresi, impiccati davanti ai compagni dopo essere stati costretti a marciare a ritmo di musica sotto il cancello principale. Al collo un cartello: “Evviva, sono tornato”.

“Ma io ho incontrato solo spettri. Quando siamo entrati, nel campo restavano 17 mila prigionieri. Donne, bambini, malati: erano incapaci di muoversi, per questo erano stati abbandonati nelle baracche. I tedeschi non avevano avuto il tempo di ammazzarli tutti. C’era una puzza asfissiante, l’odore dolciastro e acre della morte che ancora mi pare di sentire. Sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore. Gli ultimi giorni, per fare in fretta, i nazisti li fucilavano a migliaia sul bordo delle fosse comuni. Poi bruciavano tutto. Così sono stati inceneriti anche 29 su 34 depositi di beni sequestrati ai deportati. Ho aperto le porte di quattro baracche: in ognuna 24 persone, polacchi, russi, francesi, tutti ebrei. Erano stesi, moribondi: qualcuno pregava, credevano li ammazzassi. Sulla tuta a righe, esibivano la scritta “Ost”, o la stella di Davide. Uno mi mostrò un numero tatuato sull’osso di un braccio. Le assi erano coperte di stracci ed escrementi, si soffocava. Non posso dire di aver percepito felicità, mentre dicevo loro che erano liberi. Li vedevo sollevati, gli occhi si riaccendevano: ma non avevano la forza di reggere una gioia”.

Fu uno dei mattini più disperati del mondo. Solo la vaghezza contingente della realtà salvò i liberatori dall’abisso della Shoah.

“Non avevamo tempo per sostare, i sopravvissuti erano allo stremo, la maggioranza non parlava russo. Alcuni francesi mi hanno seguito per scappare, un gruppo di ebrei polacchi si è dileguato tra gli alberi, accennando una corsa. Una bambina mi si attaccò ai pantaloni, credo per cercare cibo. Il tenente maggiore Subotin mi avvertì che potevo contrarre qualche virus, ero spaventato. Sapevo che stavano arrivando gli ufficiali medici e le cucine da campo: la lasciai lì, mi vergogno. Ancora la penso, mi chiedo se sia stata salvata, come altri 2.819 detenuti, se sia vissuta e come, se l’esistenza le abbia riservato un risarcimento: e se ricorda il soldato sovietico, poco più grande di lei, che non ha avuto il coraggio di prenderla in braccio”.

Yakov Vincenko si ferma e tace, restando a guardare con un sorriso ambiguo. Dopo una pausa, simile alla ricerca abituale di un’espiazione, aggiunge che però non esistono parole per descrivere, che non l’aveva mai fatto prima. E che l’esultanza, la sicurezza degli eroici liberatori sovietici, la riconoscenza dei sopravvissuti liberati, l’ha scoperta soltanto nei film.

“La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si rese conto di aver varcato un confine da cui non si rientra, e che i prigionieri non seppero raccontare. Era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zylkon B e alla fine dell’umanità”.

Era mezzogiorno quando il comandante Lebedev alzò la bandiera rossa sopra il cancello di Birkenau. Yakov Vincenko era già lontano, sette chilometri più avanti, alle porte della cittadina di Oswiecim per braccare i tedeschi e strappare loro i prigionieri.

“Solo allora un gruppo di bambini sciamò da una baracca che sembrava vuota e osò gridare “libertà, libertà” nel campo semideserto. La sera me lo raccontò un compagno, ucciso poi sull’Oder, al mio fianco. Ma io quelle grida non le ho sentite, ad Auschwitz non ho incontrato vita, o la speranza. E nella notte mi sono lavato la divisa. L’unica volta, da quando mi sono svegliato in guerra”.

( da un articolo di Giampaolo Visetti apparso su “Repubblica” il 16 gennaio 2005)

Uno scempio costituzionale

costituzione_italianaStiamo uscendo dalla democrazia parlamentare, ma la cosa sembra non interessare a nessuno.
Anche le opposizioni, interne ed esterne al partito di maggioranza relativa, agitano emendamenti su questioni abbastanza secondarie, come le preferenze, ma sembrano accettare il principio di fondo, lo stravolgimento della rappresentanza, il considerare le elezioni come pura e semplice investitura di un potere assoluto e senza controllo.
Mi pare che l’opposizione all’Italicum, in Parlamento come nel discorso pubblico, guardi all’albero senza vedere la foresta, come si usava dire. L’evidenza è quella di una legge-truffa che dà a un solo partito, che rappresenterà in ogni caso una minoranza relativa sempre più esigua di fronte al crollo della partecipazione popolare, una consistenza parlamentare spropositata, che può consentire di fare il bello e il cattivo tempo, di nominare tutte le cariche istituzionali, di correggere e stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza.
Distruggere insomma la divisione e l’equilibrio dei poteri che nell’esperienza repubblicana furono comunque salvaguardati.
La democrazia parlamentare è stata riconosciuta, da tutte le culture democratiche, come il quadro istituzionale in cui le lotte sociali potevano svolgersi liberamente e potevano ottenere conquiste durature, in un clima che pur nell’asprezza dello scontro poteva garantire condivisione di princìpi e ascolto di istanze. A maggior ragione ciò è stato compreso dopo le esperienze del Novecento, e la Costituzione repubblicana recepiva il lascito di quella consapevolezza.
Ma in Italia sembra essersi smarrita, nell’ultimo quarto di secolo, la nozione di cosa sia e a cosa debba servire il Parlamento: rappresentare fedelmente il paese, dibattere liberamente, elaborare e scrivere le leggi, non votare a comando i decreti del governo.
Si sta per abolire il Senato, trasformato in un “dopolavoro” di consiglieri regionali. Perché non abo­lire anche il Parlamento, a questo punto? Il contraente più anziano del Patto del Nazareno prop­oneva di far votare soltanto i capigruppo, col loro pacchetto di voti, e il ducetto di contado che domina questa fase terminale della democrazia italiana non sembra avere idee molto diverse quanto ad autonomia e libertà dell’istituzione parlamentare.
Il partito di notabili che si appresta a questo scempio del principio costituzionale sembra aver rinn­egato tutta la sua esperienza repubblicana, e sembra oscuramente far riemergere dal suo lontan­issimo passato solo l’antica propensione alle dittature di minoranza, dove il segretario di partito comandava su tutto (ma almeno si aveva il buon gusto di differenziare la carica di primo ministro).
Andiamo verso tempi durissimi, ancor più oscuri di quelli che abbiamo vissuto recentemente, nei quali sarebbe fondamentale avere istituzioni rappresentative che rispecchino realmente e fedel­mente la società, pur nella sua frammentazione a volte caotica. Si procede invece verso la negazione di ogni forma di limpida rappresentanza, verso l’instaurazione di un rigidissimo principio oligarchico, che nega alla radice qualunque interlocuzione con la società.
Tutto questo è drammaticamente pericoloso, è una china che andrebbe arrestata in qualunque modo, prima che sia troppo tardi. Bisogna che qualcuno, anche tra i “corpi intermedi” così vilipesi e umi­liati, cominci a mettere in dubbio la stessa legittimità di un potere minoritario che vuole spadron­eggiare col sopruso, a contestare il delirio di onnipotenza di un’accozzaglia di parlamentari eletti con una legge incostituzionale e che pretende di riscrivere a suo piacimento la Costituzione.

Gianpasquale Santomassimo (Il Manifesto 21 gennaio 2015)

22 gennaio: La sovranità appartiene al popolo

LOCANDINA Carlassare e Gallo cgil

Il 22 gennaio 2015 ORE 17,30 a Mestre presso l’I. C. “GIULIO CESARE” ci sarà una conversazione con Lorenza Carlassare e Domenico Gallo. Introdurrà il Presidente provinciale dell’Anpi Venezia Diego Collovini.
La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 fu il risultato dell’incontro tra diverse forze politiche riunite in un’Assemblea Costituente, un’Assemblea nata per scelta dei cittadini italiani chiamati a votarla secondo il criterio proporzionale.
Oggi un Parlamento dichiarato illegittimo il 13 gennaio 2014 dalla Corte costituzionale, massimo organo dell’ordinamento statale, sta per modificare la Costituzione Italiana.

Tutto questo pone alcune domande a cui cercheremo di dare una risposta:

1. Cosa sanno i cittadini della discussione in corso in Parlamento sulla modifica della Costituzione e sulla nuova legge elettorale che dovrebbe sostituire l’incostituzionale Porcellum?
Essere informati per esercitare i propri diritti civili e politici: è questa la premessa dell’agire democratico.
2. Può un Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, approvare una nuova legge elettorale che ripropone i difetti della precedente? Può questo Parlamento modificare il sistema istituzionale espresso dalla seconda parte della Costituzione?
La sovranità appartiene al popolo e deve essere esercitata nelle forme e nei limiti sanciti dalla Costituzione: è questa la prima regola di uno Stato costituzionale. In uno Stato costituzionale la volontà del popolo deve trovare espressione in un legittimo Parlamento.
3. L’organo legislativo che è espressione della nostra Repubblica parlamentare può garantire la rappresentanza dei cittadini se proviene da liste bloccate e da un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione più votata? In una democrazia è accettabile che in nome della “stabilità di governo” venga sacrificato il principio della rappresentanza?
L’uguaglianza dei cittadini nel diritto di voto è necessariamente al centro di una democrazia rappresentativa. E’ il voto di ogni cittadino a garantire una democrazia, non lo sono né un meccanismo matematico né la scelta dei candidati fatta in altre sedi. Il rispetto della rappresentanza permette la stabilità di governo.
4. Quali conseguenze potrebbero ripercuotersi sui diritti dei cittadini con le modifiche alla Carta costituzionale e con una legge elettorale fondata su liste bloccate e sul premio di maggioranza?

A.N.P.I. Provinciale Venezia, C.G.I.L. Venezia, LIBERA Venezia e terraferma, LIBERTÀ E GIUSTIZIA Venezia, RETE PER LA COSTITUZIONE Venezia.

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Riforme: era (ed è) una questione democratica

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Appello dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)
ai parlamentari, ai partiti, alle cittadine e ai cittadini

Il 29 aprile 2014 l’ANPI Nazionale promosse una manifestazione al teatro Eliseo di Roma col titolo “Una questione democratica”, riferendosi al progetto di riforma del Senato ed alla legge elettorale da poco approvata dalla Camera. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti; ma adesso che si vorrebbe arrivare ad un ipotetico “ultimo atto” (l’approvazione da parte del Senato della legge elettorale in una versione modificata rispetto al testo precedente, ma senza eliminare i difetti e le criticità; e l’approvazione, in seconda lettura, alla Camera della riforma del Senato approvata l’8 agosto scorso, senza avere eliminato i problemi di fondo) è necessario ribadire con forza che se passeranno i provvedimenti in questione (pur non in via definitiva) si realizzerà un vero e proprio strappo nel nostro sistema democratico.

Non è più tempo di inascoltate argomentazioni e bisogna fermarsi all’essenziale, prima che sia troppo tardi.
Una legge elettorale che consente di formare una Camera (la più importante sul piano politico, nelle intenzioni dei sostenitori della riforma costituzionale) con quasi i due terzi di “nominati”, non restituisce la parola ai cittadini, né garantisce la rappresentanza piena cui hanno diritto per norme costituzionali. Una legge elettorale, oltretutto, che dovrebbe contenere un differimento dell’entrata in vigore a circa un anno, contrariamente a qualunque regola o principio (le leggi elettorali si fanno per l’eventualità che ci siano elezioni e non dovrebbero essere soggette ad accordi particolari, al di là di ogni interesse collettivo).
Quanto al Senato, l’esercizio della sovranità popolare presuppone una vera rappresentanza dei cittadini fondata su una vera elettività. Togliere, praticamente, di mezzo, una delle Camere elettive previste dalla Costituzione, significa incidere fortemente, sia sul sistema della rappresentanza, sia su quel contesto di poteri e contropoteri, che è necessario in ogni Paese civile e democratico e che da noi è espressamente previsto dalla Costituzione (in forme che certamente possono essere modificate, a condizione di lasciare intatte rappresentanza e democrazia e non sacrificandole al mito della governabilità).
Un sistema parlamentare non deve essere necessariamente bicamerale. Ma se si mantiene il bicameralismo, pur differenziando (come ormai è necessario) le funzioni, occorre che i due rami abbiano la stessa dignità, lo stesso prestigio, ed analoga elevatezza di compiti e che vengano create le condizioni perche l’eletto, anche al Senato, possa svolgere le sue funzioni “con disciplina e onore” come vuole l’articolo 54 della Costituzione. Siamo dunque di fronte ad un bivio importante, i cui nodi non possono essere affidati alla celerità ed a tempi contingentati.
In un momento di particolare importanza, come questo, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, affrontando i problemi nella loro reale consistenza e togliendo di mezzo, una volta per tutte, la questione del preteso risparmio con la riduzione del numero dei Senatori, perché uguale risultato potrebbe essere raggiunto riducendo il numero complessivo dei parlamentari.

Ai parlamentari, adesso, spetta il coraggio delle decisioni anche scomode; ed è superfluo ricordare che essi rappresentano la Nazione ed esercitano le loro funzione senza vincolo di mandato (art. 67 della Costituzione) e dunque in piena libertà di coscienza.
Ai partiti, se davvero vogliono riavvicinare i cittadini alle istituzioni ed alla politica, compete di adottare misure e proporre iniziative legislative di taglio riformatore idonee a rafforzare la democrazia, la rappresentanza e la partecipazione anziché ridurne gli spazi.
Ai cittadini ed alle cittadine compete di uscire dal rassegnato silenzio, dal conformismo, dalla indifferenza e far sentire la propria voce per sostenere e difendere i connotati essenziali della democrazia, a partire dalla partecipazione e per rendere il posto che loro spetta ai valori fondamentali, nati dall’esperienza resistenziale e recepiti dalla Costituzione.
L’Italia può farcela ad uscire dalla crisi economica, morale e politica, solo rimettendo in primo piano i valori costituzionali e le ragioni etiche e di buona politica che hanno rappresentato il sogno, le speranze e l’impegno della Resistenza.
Dipende da tutti noi.

L’ANPI resterà comunque in campo dando vita ad una grande mobilitazione per informare i cittadini e realizzare la più ampia partecipazione democratica ad un impegno che mira al bene ed al progresso del Paese.

La Segreteria Nazionale ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)

Roma, 16 gennaio 2015

16 gennaio 2015: commemorazione dei partigiani uccisi al cimitero dei Mirano

17gennaio1945 Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni): questi sono i nomi dei 7 partigiani fucilati la mattina del 17 gennaio 1945 al cimitero di Mirano.

Da un’intervista a Carlo Toniolo del 2002:
Ero a prendere il cavallo e mi trovavo tra i due ponti.
Che ora era?
Di mattina, le otto, otto e mezza.
Che stagione?
Era freddo sì, era il 17 gennaio 1945; e trovo questi due ammanettati con uno da una parte e uno dall’altra, altri due e l’ultima fila tre. Due e due quattro e tre sette ammanettati così.
Non ne conosceva nessuno?
No, neanche uno. Erano bianchi in faccia!
Erano giovani?
Giovanissimi! Mi sembrava quasi che qualcuno avesse quindici anni. Erano bianchi, sapevano che andavano a morire. Quando siamo stati in piazza abbiamo sentito gli spari.
Erano quelli fucilati alla mura del cimitero?
Sì. Adesso la mura è più bassa perché una volta non c’era l’asfalto, era terra battuta: qualcuno ha sparato in alto per non colpirli, si vedono i fori in alto.

Per commemorarli ci troviamo venerdì 16 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera con questo programma:

– Proiezione documentario di Giorgio Sticchi
– Consegna delle tessere ad honorem
– Proiezioni foto dal libro “Mirano1938-1948” di Cristina Morgante e Martino Lazzari
– Intervento di testimonianze presenti in sala
– Giornata del tesseramento

Sabato 17 gennaio alle ore 11.00 ci sarà il corteo che partirà dalla caserma della Guardia di Finanza (ex casa del fascio) e arriverà al cimitero di Mirano.

17 gennaio 2015