«La situazione è disperata, siamo di fronte a una nuova Somalia»

imageLe vicende libiche hanno ormai preso una traiettoria complicata e di non facile lettura. Complice anche la difficoltà a reperire informazioni di prima mano, capaci di non essere smentite o negate nel giro di pochi minuti, come capitato nei giorni scorsi, quando gli Usa hanno accusato l’Egitto e gli Emirati arabi di bombardare Tripoli. Ipotesi smentita seccamente, nel giro di pochi istanti, dal Cairo. Abbiamo chiesto ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e biografo di Ghed­dafi, alcune opinioni sull’attuale crisi libica.

Intanto, come potremmo defi­nire e rac­con­tare quanto sta acca­dendo in que­ste ultime ore in Libia

La situazione è disperata, non ho mai usato un termine così violento, ma oggi possiamo ampiamente dirlo. La morte di Gheddafi invece di risolvere la situazione, come qualcuno aveva erroneamente sperato, ha accentuato la divisione del paese.
Gheddafi era stato capace di tenere sotto controllo e far dialogare 140 tribù, ripeto il numero, perché è importante, 140. Nei suoi anni di dittatura era riuscito a intrattenere buoni rapporti con tutti questi gruppi tribali, quindi in fondo la Libia, poteva essere considerato un paese tranquillo, anzi se vogliamo ricordare le cose per bene, si può affermare che fosse un paese piuttosto disponibile nei confronti dell’Occcidente e capace di costituire una copertura contro gli islamisti.

Qual è stato l’errore da cui è partito tutto?

L’errore non è stato casuale, secondo me è stato voluto, ed è consistito nel decidere di attaccare Gheddafi.
La decisione faceva parte di interessi europei e in modo particolare della Francia, che come sappiamo aveva buoni rapporti con Gheddafi, anzi pare che il leader libico avesse addirittura prestato 50 milioni di euro per la campagna elettorale di Sarkozy e forse per celare questa informazione è stato ucciso non solo dai droni partiti dalla Sicilia, ma dai raid aerei dei francesi.

Come si è arrivati a questo caos odierno?

Il generale Haftar, già sconfitto in Ciad, ha vissuto gli ultimi vent’anni della sua vita negli Stati uniti e mi pare chiaro che non stia riuscendo ad avere il sopravvento sugli islamisti. Oggi in Libia non c’è una forza che possa vincere con le armi, perché ci sono almeno un centinaio, alcuni dicono 300, piccole repubbliche diciamo libiche che si contendono il loro piccolo territorio e il denaro che esce dal petrolio e in un certo senso non vogliono accordarsi.
Finché queste forze non sono disarmate e non nasce una Libia davvero indipendente con un esercito e una polizia validi…non ci sono possibilità di soluzione politiche.

Ieri sul manifesto abbiamo ospitato un intervento di Jean Ping, ex ministro degli esteri gabonese e soprattutto ex presidente della Commissione dell’unione africana, nel quale viene tratteggiato il percorso politico che portò all’eliminazione di Gheddafi. Oggi può avere un ruolo l’Unione africana? E quale potrebbe essere l’impatto delle milizie islamiste in Libia?

Credo sia completamente fuori gioco, come del resto lo fu durante la guerra civile, quando non era riuscita a determinare l’esito di tutto quanto stava avvenendo. Oggi possiamo dire che la Libia è una nuova Somalia, divisa, con un’enormità di armi in giro. Perché anche questo fa parte della tragedia: in Libia ci sono molte armi, anche pesanti, perché Gheddafi ha sempre pensato di arricchire in continuazione il suo patrimonio bellico.
È vero che alcune di queste armi vennero vendute in giro, in Africa, ma molte sono ancora lì. Per quanto riguarda le milizie islamiste, credo siano molto forti e penso che Haftar non abbia le forze per contrastarli davvero.

Come provare a risolvere la situazione, quindi?

Non credo che dopo l’esperienza di tre anni fa, dopo la guerra civile, ci siano ancora paesi occidentali che si vogliono impegnare in una guerra sul terreno in Libia. Non credo che possano arrivare forze straniere, è una questione assolutamente interna, con due parlamenti uno a Tripoli e uno a Dobruk, se ci si potesse ridere sopra la situazione appare addirittura comica.

intervista di Simone Pieranni da “Il Manifesto” del 27/08/14

Gli immigrati in prima fila nella liberazione di Parigi e della Francia dal nazismo

missak-manouchian-portrait Mémorial_de_l'affiche_rouge wiki

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi ricorre il 70° anniversario della liberazione di Parigi dal nazismo e dal vichysmo. Non mancheranno le grandi commemorazioni e già si può visitare la video-mostra all’Hotel de Ville e un’altra al Musée Carnevalet con foto e diversi materiali della mostra che fu realizzata subito dopo la Liberazione grazie all’allora direttore del museo che era stato partigiano.
Ma ecco l’amara sorpresa per chi conosce un minimo la storia della Resistenza a Parigi e in Francia: invano troverà qualche ricordo delle migliaia e migliaia di immigrati che si batterono in prima fila per questa causa. Lo sciovinismo francese (di destra e di sinistra) sembra inossidabile, grottesco e quanto mai miserabile. Con il massimo rispetto per i quasi trecentomila (secondo alcuni forse cinquecentomila) francesi che parteciparono alla Resistenza, ricordiamo che sono comunque noti i documenti di archivio riguardanti l’importanza a volte decisiva che ha avuto l’impegno combattente degli immigrati stranieri: italiani, spagnoli, ebrei, polacchi, belgi e di quasi tutte le nazionalità (spesso nella competizione sciovinista fra gaullisti e comunisti francesi i loro nomi furono anche francesizzati). Purtroppo, questa pagina di storia è alquanto ignorata anche nei Paesi di origine. Numerosi fra questi resistenti erano prima andati a combattere in Spagna contro il franchismo e dopo la sconfitta erano passati in Francia. L’arrivo del fascismo al potere in Italia aveva provocato la fuga in Francia di circa un milione di persone, fenomeno che continuò sino al 1939 e anche durante la guerra. La guerra antifascista era continuata dappertutto: i fascisti perseguitavano i fuorusciti, uccisero i fratelli Rosselli, trasformarono le missioni cattoliche bonomelliane in Francia, create per gli emigrati italiani, in case del fascio sostenendo ovviamente i preti che inneggiavano ai “santi manganelli del 1922”.
Non è esagerato dire che però la stragrande maggioranza degli italiani in Francia era antifascista e che i militanti socialisti, comunisti, anarchici e “popolari” erano assai numerosi: in particolare a Parigi, nella banlieue, oltre che a Marsiglia e in altre città.
Sino al 1939 la polizia francese aveva concesso loro un récépissé valido come documento d’identità e come permesso di soggiorno rinnovato ogni mese (il che lasciava queste persone in balia delle minacce d’espulsione se non collaboravano con gli sbirri e se si ostinavano a rifiutare l’arruolamento nella Legione straniera). Ma nell’aprile 1940 il ministro della Giustizia socialista Serol firmava il decreto che condannava a morte tutti i responsabili (o solo sospetti) della ricostruzione delle organizzazioni comuniste e di sinistra sciolte già prima.
I Francs Tireurs et Partisan de la Main d’Oeuvre Immigrée (Ftp-Moi) fu la organizzazione che già negli anni trenta aveva cominciato a inquadrare gli immigrati militanti i quali sin dal 1940 passarono alla lotta armata contro il nazismo e i vichysti collaborazionisti. E’ vero che la maggioranza erano comunisti, ma è sbagliato dire che erano comandati dal Partito comunista francese il quale “brillava” per il suo stalinismo mentre la maggioranza degli immigrati combattenti non sembra proprio che fossero forgiati per le vie nazionali al socialismo e l’obbedienza cieca all’Urss. Prova ne è che in diversi casi combatterono anche con anarchici, socialisti, cattolici e “senza partito”. L’adesione ai Ftp-Moi era quasi sempre dovuta al caso, a incontri amichevoli e soprattutto grazie alle relazioni fra immigrati originari della stessa zona o comunque dello stesso Paese o anche di Paesi diversi proprio perché i francesi in maggioranza erano sciovinisti e spesso razzisti. Nella regione parigina, il gruppo Ftp-Moi che diventerà più famoso sia per le sue azioni temerarie e particolarmente efficaci sia perché i nazisti ne fecero il principale bersaglio della loro controffensiva, fu il gruppo “Manouchian” creato nel 1942 (dal cognome del capo che era un armeno). Questo è l’unico gruppo che resta attivo poiché tutte le altre formazioni partigiane erano state sterminate dalla Gestapo grazie alla collaborazione di quasi tutta la polizia francese e dei “cittadini collaborazionisti”. Del gruppo fanno parte 65 combattenti fra i quali alcuni avevano acquisto la nazionalità francese prima dell’occupazione nazista e dell’arrivo al potere di Pétain – governo di Vichy – o perché nati in Francia (la più vecchia immigrazione era quella di ebrei provenienti da diversi Paesi, polacchi, armeni, italiani e spagnoli; gli italiani erano la maggioranza degli immigrati rimasti con nazionalità straniera). 200 sbirri della Brigata speciale della Préfecture de Police di Parigi insieme alla Gestapo si misero a caccia di questi tenacissimi resistenti. Secondo alcuni il numero di combattenti e loro affiliati era molto più grande se si pensa a quanti li aiutavano per il trasporto di armi ed esplosivi, per i nascondigli, per tutte le diverse necessità di cui abbisogna un gruppo armato che si spostava in una grande città e riusciva a fare attentati nelle caserme dei nazisti, negli hotel dove stavano gli ufficiali e anche a distribuire volantini un po’ ovunque. Fra il 1942 e la fine del ‘43, il gruppo compie 229 azioni denunciate dai nazisti (ma non tutte venivano registrate, tanto meno quelle in cui i nazisti erano stati messi in ridicolo). Secondo alcune fonti riescono a realizzare un attentato ogni due giorni, senza contare i piccoli sabotaggi che in realtà sono opera anche di semplici simpatizzanti. Fra le azioni più spettacolari si ricorda l’eliminazione fisica in rue Pétrarque di Parigi, del generale delle SS Julius Ritter, responsabile della deportazione di circa 500 mila francesi in Germania per il Servizio del Lavoro Obbligatorio (di quest’azione sono accusati Celestino Alfonso, Spartaco Fontano, Léo Kneler e Marcel Rayman).
All’inizio del 1944 i nazisti, con la tortura, riescono a far parlare alcuni fermati e quindi arrestano 23 del gruppo che il 21 febbraio 1944 sono messi a morte alle porte di Parigi (Mont Valérien).
Volendo screditare tutta la Resistenza, i nazisti pubblicizzano il processo contro il gruppo Manouchian attaccando in tutte le strade della città la famosa “affiche rouge”, ossia un manifesto con le facce e i nomi di alcuni arrestati del gruppo, per far leva sullo sciovinismo razzista francese mostrando che i cosiddetti liberatori non erano altro che stranieri, “disoccupati” (“parassiti”) e terroristi che mettevano a rischio la vita della pacifica e buona popolazione parigina: “un’armata del crimine contro la Francia”. Oltre all’affiche furono diffuse in tutta la città decine di migliaia di volantini con un testo che dettagliava l’accusa ai criminali stranieri che avevano cercato di farsi passare per “liberatori”. Ecco i loro nomi, in maggioranza sono giovanissimi: Joseph Boczov (ebreo ungherese, 38 anni, 20 attentati e capo dei deragliatori), Thomas Elek (ebreo ungherese, 18 anni, accusato di 8 deragliamenti di treni), Maurice Fingercwajg (ebreo polacco, 19 anni, 3 attentati e 5 deragliamenti), Szlama Grzywacz (ebreo polacco, 34 anni, accusato di 2 attentati), Missak Manouchian (il capo, armeno, 37 anni, accusato di 56 attentati, 150 morti, 600 feriti), Marcel Rayman (ebreo polacco, 21 anni, 13 attentati), Wolf Wajsbrot (ebreo polacco, 18 anni, 1 attentato e 3 deragliamenti), Robert Witchitz (ebreo polacco, 19 anni, accusato di 15 attentati).
Ed ecco gli altri condannati a morte: Celestino Alfonso (spagnolo, 27 anni), Olga Bancic (rumena, 32 anni, uccisa a Strasburgo), Georges Cloarec (francese, 20 anni), Rino Della Negra (italiano, 19 anni), Spartaco Fontanot (italiano nato a Monfalcone, 22 anni), Jonas Geduldig (polacco, 26 anni), Emeric Glasz (ungherese, 42 anni), Léon Goldberg (polacco, 19 anni), Stanislas Kubacki (polacco, 36 anni), Césare Luccarini (italiano, 22 anni), Armenak Arpen Manoukian (armeno, 44 anni), Roger Rouxel (francese, 18 anni), Antonio Salvadori (italiano, 24 anni), Willy Schapiro (polacco, 29 anni), Amédéo Usséglio (italiano, 32 anni).
Si noterà che sull’affiche sono messi solo gli ebrei di origine straniera, anche se hanno la nazionalità francese, e il capo del gruppo, Missak Manouchian, accusato di una quantità enorme di attentati.
Sull’“affiche rouge” Frank Cassenti ha girato il film con tale nome nel 1976.

(dal blog http://danielebarbieri.wordpress.com)

L’ultima lettera di Manouchian

http://quotidien-parisiens-sous-occupation.paris.fr/index.php

Le foto di Robert Capa sulla liberazione di Parigi

23 agosto 1944: strage del Padule di Fucecchio

padufucIl 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese, Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).
Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.
In quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.
In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità, almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofi al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi volevano proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.
L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.
L’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani.
Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.
Tutte le vittime furono ritrovate durante la stessa giornata o nel corso della notte fra il 23 e il 24 dai familiari o dai parroci dei paesi; vennero trasportati con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in un primo momento in fosse comuni.
Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani. Fascisti locali furono riconosciuti nelle varie località.
La sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese che a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”. (dal sito http://www.eccidiopadulefucecchio.it/)

Umberto Lorenzoni: “La sinistra non si indigna più”

2mZbPv8La Resistenza non è finita 70 anni fa. Oggi continua nella lotta in difesa della Costituzione. “Non chiamatemi più ex partigiano – scandisce perentorio Umberto Lorenzoni, 88 anni, presidente Anpi Treviso – Io sono ancora un difensore della libertà e della democrazia, ora più che mai dalla fine della guerra”. Non è un caso che l’Anpi, come il nostro giornale, all’inizio di giugno ha lanciato una raccolta firme contro la riforma del Senato voluta dal patto Renzusconi. “È uno schifo – s’indigna Lorenzoni -, hanno rotto l’equilibrio dei padri costituenti”.

Quindi va lasciata così come è?

Una proposta seria è ridurre a 200 il numero di senatori e a 400 quello dei deputati, affidare ai secondi la funzione legislativa e ai primi quella di controllo. Invece, hanno combinato un pasticcio e garantito un risparmio di solo 50 milioni di euro.

Un’altra Resistenza.

Purtroppo sì, non voglio il ritorno del regime. Uno come me, che ha combattuto contro i fascisti, come fa a dire di sì a un piano del genere? Così indecente anche il sistema elettorale: l’Italicum è solo una brutta copia del Porcellum. Chi vince le elezioni, potrà decidere il capo dello Stato, no più super partes ma uomo della maggioranza. Si sta realizzando insomma il sogno della P2 e di Licio Gelli.

Ci sono già le premesse?

Il divieto del voto di preferenza. I parlamentari rispondono solo a chi li ha nominati, cioè i leader di partito, non ai cittadini.

La conseguenza?

Per esempio, il Pd per anni ha criticato il Porcellum, ora invece accetta senza fare una piega l’italicum, solo perché il capo bastone è cambiato. Renzi ha confuso l’Italia con un accampamento di boy scout, con tutto il rispetto per coccinelle e lupetti.

L’Anpi è rimasta senza eredi ai governo?

In pratica è così. Tra i nostri iscritti ci sono parecchi giovani (a Treviso mille su 1500 tesserati), ma si sentono spaesati, senza punti di riferimento.

L’opposizione esiste ancora?

Guardi, la sinistra è morta e sepolta. Se B. avesse fatto quello che oggi sta facendo Renzi avrebbe riempito le piazze. Il Movimento Cinque stelle si è perso per strada, eppure all’inizio avevo fiducia in loro.

Perché la gente non reagisce?

Renzi ha approfittato della crisi per distruggere la Costituzione perché la maggior parte degli italiani è distolto dalla preoccupazione di portare il pane a casa.

Qual è il fraintendimento più grande?

Quello che solo andando d’accordo con B. si può governare. Uno scandalo, ma tutti ne sono convinti.

A luglio il Miur ha siglato con l’Anpi un accordo per promuovere i valori della Costituzione nelle scuole. Una presa in giro?

Sì, ma almeno il progetto è andato in porto.

Lei ha un’energia invidiabile. Spera ancora in un futuro migliore?

Quando a 17 anni decisi di fare il partigiano, ci dicevano che eravamo “bambini pazzi” e “troppo pochi” ma poi abbiamo vinto. Anche oggi dobbiamo resistere un minuto in più dei nemici. Staccai da un albero un morto impiccato. Questo ricordo, ogni volta, mi carica per la battaglia a favore della democrazia.

Intervista di Chiara Diana da “Il Fatto” del 19 agosto 2014

“In difesa della Costituzione, della Democrazia, dei Territori”.

costituzione_italianaPubblichiamo il documento firmato il 9 agosto a Crotone da 38 associazioni che porta come titolo “In difesa della Costituzione, della Democrazia, dei Territori”.

Documento di Crotone

In difesa della Costituzione, della Democrazia, dei Territori

È in corso un attacco alla nostra Costituzione, alla nostra democrazia, ai nostri territori.
Il quadro complessivo delle riforme costituzionali, unitamente alla riforma della legge elettorale, delinea una svolta autoritaria, che vanifica il sistema delle garanzie costituzionali e lascia presagire uno scenario istituzionale, a seguito del quale i cittadini avranno meno capacità decisionale.

Noi non siamo contrari ad una ipotesi di revisione della Costituzione, ma siamo contrari a questa revisione, che compromette la democrazia, minandola negli organi di rappresentanza territoriale, e che favorisce la blindatura della casta partitica in Parlamento.
Il disegno di legge di revisione costituzionale attualmente in discussione interviene principalmente su due questioni: il bicameralismo e l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni. Si tratta di due questioni strettamente connesse.

Il riordino delle competenze legislative previsto andrà a vantaggio dello Stato e a sicuro detrimento del ruolo delle Regioni. Se la riforma vedrà la luce, lo Stato potrà ergersi a decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni culturali e paesaggistici, del turismo, dell’energia, del governo del territorio, delle infrastrutture strategiche e di altre materie ancora.
La ratio sottesa alla proposta è quella di impedire che le Regioni possano in futuro legiferare su tali materie, partecipare ai procedimenti amministrativi, sostenere proposte alternative equo-sostenibili, opporsi alla realizzazione di numerosi progetti (come le grandi opere inutili e le infrastrutture strategiche), che le collettività locali e regionali contestano da tempo, per le evidenti implicazioni che hanno sui beni comuni e, in primo luogo, sulle risorse naturali.
È sufficiente pensare alla materia energetica.
Sebbene la riforma costituzionale del 2001 abbia attribuito l’energia alla competenza concorrente dello Stato e della Regione, la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa sì disciplinare per intero la materia in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento dell’intesa. L’intesa della Regione si configura, infatti, come una sorta di compensazione per la “perdita” di competenza dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Con il disegno di legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece, meno. In questo modo, i progetti energetici potrebbero non richiedere più l’assenso della Regione.
Si pensi alla miriade di progetti petroliferi che il Governo ha in serbo di realizzare in Basilicata, in Abruzzo, in Sicilia, in Puglia o in Campania: in questi e in altri casi lo Stato farà sicuramente da sé.

Lo stesso può dirsi per le materie che residueranno in capo alle Regioni, posto che in ogni tempo lo Stato potrà esercitare la specialissima prerogativa che la riforma gli riserva: quella di privare la Regione della possibilità di legiferare anche nelle materie residuali solo perché così piace allo Stato, e cioè “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

D’altra parte, il duro colpo che alla democrazia regionale e locale verrà inferto non potrà trovare rimedio neppure attraverso la partecipazione delle Regioni e dei Comuni in seno al nuovo Senato. Nonostante, infatti, che il nuovo art. 57 Cost. dichiari che i senatori rappresentano le “istituzioni territoriali”, le modalità di elezione individuate (attraverso i Consigli regionali) e il limitato numero di seggi a disposizione di ciascuna Regione (da attribuire “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”) finiranno, nei fatti, per favorire la presenza in seno al Senato dei partiti più grandi e rafforzare finanche l’egemonia degli stessi nella Camera dei Deputati, agevolati, in questo, da una legge elettorale in corso di approvazione profondamente ingiusta e antidemocratica.

In conclusione, la riforma costituzionale del Governo Renzi si pone in palese violazione del principio autonomistico e del principio democratico, qualificati come principi fondamentali della nostra forma di Stato. Per questa ragione ci opponiamo fermamente alla revisione costituzionale in corso e invitiamo i parlamentari tutti a non votare il disegno di legge e i cittadini a sostenere le ragioni del nostro dissenso.

Al momento hanno già aderito:

1) A Sud

2) Alba – Reggio Calabria

3) Associazione Antimafie “Rita Atria”

4) Associazione Ariano in Movimento

5) Associazione Ghea – Attigliano (TR)

6) CAST – Comitato Ambiente Salute Territorio – Abruzzo

7) Circolo “Peppino Impastato” Abruzzo

8) Circolo “Peppino Impastato” Sicilia

9) Circolo Valorizzazione Terre pubbliche attraverso le popolazioni locali – Abruzzo

10) CIUFER

11) Comitati Cittadini per l’Ambiente – Sulmona

12) Comitato Abruzzese per la Difesa dei Beni Comuni

13) Comitato civico S. Angelo dei Lombardi

14) Comitato No Megacentrale – Guspini – Sardegna

15) Comitato Viva la Costituzione del Veneto

16) Coordinamento Nazionale No Triv

17) Fabbrikando l’Avvenire

18) Fondazione Capta – Vicenza

19) Forum Ambientale dell’Appennino

20) Forum Siciliano dei movimenti per l’Acqua ed i Beni Comuni

21) L’Albero Vagabondo – Campania

22) Madre Terra di Flumeri

23) Mediterraneo No Triv

24) No Petrolio Vallo di Diano

25) No Petrolio Alta Irpinia

26) No scorie Trisaia – Rotondella

27) No Triv Abruzzo

28) No Triv Basilicata

29) No Triv Calabria

30) No Triv Campania

31) No Triv Rossano

32) No Triv Valle del Belice

33) O.L.A. – Organizzazione Lucana Ambientalista

34) Piccoli Paesi

35) Rete Stop Biocidio – Lazio

36) Salviamo il Paesaggio – Alto Milanese

37) San Vito Bene Comune

38) WWF – Provincia di Crotone

Elena Cattaneo e il suo discorso al Senato contro la riforma costituzionale

costituzione_italiana«Signor Presidente, colleghi, ho partecipato alla discussione su questa auspicata riforma senza una posizione precostituita e con un interesse per i contenuti e per il metodo. Ho compreso l’impegno dei relatori e dei senatori. Ma sono rimasta delusa nel vedere che valutazioni e idee ineccepibili, in quanto a logica e pertinenza politica e civile, non abbiano trovato ascolto. Le risorse umane, professionali ed intellettuali per fare meglio c’erano tutte, qui dentro e nel Paese. Ma non ho visto il coraggio di volare alto, spiegando ai cittadini e al Governo ciò che serve per riqualificare le componenti e le funzioni delle Camere nel quadro di un ordinamento nuovo e ben coordinato.

La verità la conoscete meglio di me. Non è questa la riforma costituzionale che serve al Paese. E il mio voto sul testo di oggi è dettato da questo disagio e da tre considerazioni.

La prima riguarda il contesto generale in cui si sono svolti i lavori: di scarso ascolto e di linguaggio inadatto a un momento tanto importante. Si è parlato di “allucinazioni” e “professoroni”, con un sentimento “di sufficienza verso accademici ed esperti politicamente impegnati”. Il linguaggio deriva dal pensiero e gli illustri studiosi di storia politica presenti in quest’Aula mi insegnano che l’anti-intellettualismo è un indicatore di crisi culturale e civile per un sistema liberaldemocratico.

La seconda considerazione è sul metodo utilizzato, troppo condizionato da strategie di Governo e da discipline di partito con cui si sono dettati contenuti, paletti e tempi, decisi fuori da quest’Aula. È un metodo sbagliato perché non si può condurre un esperimento che presuppone libera condivisione democratica senza la disponibilità a esaminare davvero e analiticamente i risultati che questo esperimento è destinato a produrre. Se si sbaglia il metodo nel fare un esperimento, i risultati saranno inutilizzabili. Se va bene.

La terza considerazione riguarda il progetto. Gli interventi da più parti e i miei colloqui con i colleghi di tutto l’emiciclo mi fanno concludere che si tratta di un progetto tecnicamente pasticciato e frettoloso, attualmente decontestualizzato rispetto ad altre riforme. È un progetto che non è in grado ora di indicare l’esito, l’assetto, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costituzionale che stiamo costruendo.

Non mi convincono le motivazioni a sostegno di un Senato non elettivo, le scelte sulle funzioni assegnate a questa Camera, la mancata riduzione del numero dei parlamentari dell’altra Camera, l’incertezza circa le garanzie di bilanciamento dei poteri e circa l’effettività del pluralismo della futura rappresentanza parlamentare.

Non mi convince come è stata affrontata la questione dell’elezione dei Presidente della Repubblica e la mancata ricerca di un metodo per acquisire al nuovo Senato “personalità abituate a disegnare le frontiere del mondo”, che sarebbero utilissime in queste contingenze economiche.

Per questo, e concludo, il mio voto sarà di astensione (che so equivalere ad un voto contrario in quest’Aula), che vuole essere, nel suo piccolo, un segnale per i cittadini e per i colleghi dell’altro ramo del Parlamento, affinché i loro lavori possano essere più sereni ed in tutta indipendenza positivi e attenti».

Elena Cattaneo, direttrice del Laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative del Dipartimento di Bioscienze e co-fondatrice di UniStem, il Centro di Ricerche sulle Cellule Staminali dell’Universita’ di Milano, è stata nominata senatrice a vita da Giorgio Napolitano insieme ad Abbado, Piano e Rubbia. Classe 1963, è la terza donna a ricoprire questo ruolo, dopo Camilla Ravera e Rita Levi Montalcini.

9 agosto 1945

hiroshima-mon-amourOggi 9 agosto si chiude la mostra Majors for peace su Hiroshima e Nagasaki con la proiezione del film “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais versione integrale alle ore 21 in Sala consiliare in Villa Errera a Mirano.
Ringraziamo l’Amministrazione Comunale e in special modo la sindaca Maria Rosa Pavanello, Renata Cibin, Erica Brandolino, il centro Pace e l’Anpi di Mirano, ma soprattutto ringraziamo i Sindaci di Hiroshima e Nagasaki che già nel 1982 hanno creato l’Associazione “Sindaci per la Pace” che si prefigge l’obbiettivo nel 2020 di una Convenzione che vada alla distruzione di tutte le armi nucleari presenti nel mondo. Questo progetto prevede una corsa non solo contro il tempo, cinque anni non sono molto distanti, ma anche contro un’ inerzia mentale imposta a noi tutti dall’Informazione con la I maiuscola che tende a mantenere l’uso dell’arma nucleare relegato in uno spazio e in un tempo non ben definito e lontano che tuttavia è reale, esiste nelle sue coordinate, coordinate che non sono certo sotto il controllo del governo italiano -vedi Aviano, Ghedi, Vicenza ecc.- Se le cose stanno in questi termini è possibile che in determinate situazioni possa accaderne l’uso allora la liberazione da questa minaccia passa attraverso la prevenzione totale.
Con l’arma nucleare non è possibile la cura così come i nostri progenitori hanno fatto nel 1945 contro il Nazifascismo. La Bomba atomica mette in discussione la sopravvivenza stessa dell’umanità. Lo Statuto di Sindaci per la Pace parla chiaro: ogni Sindaco ha l’obbligo morale di sensibilizzare e di indurre i cittadini del proprio Comune a firmare la petizione e i sindaci di altri Comuni ad iscriversi a Majors for peace e sostenere così una grande rete a livello mondiale che realizzi questo progetto con determinazione. Il nostro appello è rivolto alle nuove generazioni ed è dettato dalla piega che stanno prendendo i rapporti nelle varie dispute internazionali. Facciamo come il Nicaragua: tutti i comuni di questo Paese sono iscritti a Majors for peace.
Sosteniamoli e sosteniamoci loro con noi e noi con loro.
Anpi Mirano

Il processo per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema è da rifare

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In Germania fin dagli anni cinquanta Karlsruhe è conosciuta come «la Città del Diritto» in quanto ospita le sedi della Corte costituzionale Federale e della Corte di Giustizia Federale. E per questa cittadina di 300.000 abitanti del land Baden-Wuttemberg sembrano incrociarsi, a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il passato e il presente dell’Europa sia nella sua memoria storica di continente lacerato dal conflitto contro il nazifascismo sia nella sua prospettiva di unità politica futura.
A febbraio 2014 la Corte Costituzionale Federale aveva rinviato alla Corte Europea il giudizio sulla legittimità dell’Outright Monetary Transaction (Omt) il piano d’intervento straordinario di acquisto di titoli di Stato di paesi in difficoltà che il governatore della Bce Mario Draghi, osteggiato dal «falchi» della Bundesbank con a capo Jens Weidmann, aveva prospettato nel 2012 in piena crisi dell’eurozona. Una scelta che affondando le mani nel presente ha permesso di contenere la «tempesta perfetta», mantenere in piedi la moneta unica e offrire, in ultima istanza, ancora una possibilità al futuro progetto di unità politico-economica continentale. Ieri la Corte di Giustizia Federale le mani le ha affondate nel passato prossimo dell’Europa, quello dell’occupazione nazista e delle stragi di civili, ed ha annullato la decisione della procura generale di Stoccarda che nel maggio 2013 aveva disposto l’archiviazione del procedimento per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 che provocò 560 morti.
Il processo in Germania si riaprirà ad Amburgo dove sono stati trasmessi gli atti a causa della presenza in quella città di uno degli imputati, Gherard Sommer, mentre in Italia la vicenda giudiziaria si era conclusa nel 2005 con la condanna definitiva di dieci membri delle Schutzstaffeln (SS) tedesche.
La storia molto prima delle sentenze dei tribunali si era premurata di scrivere pagine fondamentali su quelle vicende, sulla loro natura e sulla loro eredità collettiva e memoriale nonché sui motivi, prevalentemente legati alla «ragion di Stato» e agli equilibri geopolitici della Guerra Fredda, dei mancati processi ai criminali di guerra tedeschi e italiani. Ora a fianco ad una sfera giuridica a cui rimane comunque il compito dovuto di consegnare una sentenza, altra cosa sarebbe stata la giustizia da perseguire nell’immediato dopoguerra con altri effetti politici, è la lettura che un fatto del genere proietta nel presente ad interrogare i contemporanei.
E così nel suo continuo ondeggiare tra passato e presente la Germania sembra di nuovo divenire specchio della condizione di un continente investito dalla crisi economica e da una complessa transizione caratterizzata dalle tendenze a un rigido assetto monetarista e dalla riemersione di fenomeni xenofobi e di estrema destra alimentati proprio politica dell’austerità. Un’Europa però legata nello stesso tempo alla necessità irrinunciabile di determinare una coesione politica basata su una ricostruzione unitaria, non necessariamente condivisa, della sua storia.
Così, rifuggendo dalla tentazione di utilizzare come una clava il debito della Germania con la storia, recente è la polemica sui risarcimenti di guerra rivendicati dalla Grecia durante la somministrazione della «cura economica» della Troika ad Atene, allo stesso tempo la declinazione del presente dovrebbe indicare alla Germania una linea di ridefinizione del proprio ruolo scevro dagli spettri del passato imperiale del Reich. In questo senso un tratto unico e unitario della storia del continente, in grado cioè di segnarne un profilo identitario riconosciuto e riconoscibile è rappresentato dall’antifascismo e dalla guerra contro la Germania hitleriana e l’Italia di Mussolini. Un’istanza di carattere internazionale che divenuta movimento reale percorse trasversalmente tutte le società europee sostituendo il paradigma nazionalista e della fedeltà fideistica alla patria, fosse anche quella nazista, con quello valoriale che poneva i diritti delle persone e dei popoli al di sopra del primato dell’identità nazionale. Ogni partigiano, antifascista o antinazista europeo si batté contro la propria patria non per determinarne la morte, come in tempi di revisionismo prepotente si prova a dire oggi, ma per rifondarla su nuovi valori. Proprio nel ferro e nel fuoco di quella grande e drammatica storia nacque nel confino fascista di Ventotene l’idea stessa dell’Europa unita. La «Città del Diritto» non restituisce solo un processo da fare e non relega la sua attenzione alla sfera privata dei parenti delle vittime. La decisione di riaprire il procedimento ad Amburgo offre, di nuovo, l’occasione di fare i conti con la storia, di riaprire gli armadi della vergogna per guardarci dentro, conoscere da dove veniamo e capire dove si vuole andare.
In questo modo, utilizzando l’eredità del passato come leva dell’azione del presente e non come retorica celebrativa è possibile rendere giustizia ai morti di Sant’Anna di Stazzema e delle tante altre stragi nazifasciste perpetrate in Italia e nel resto Europa. (Davide Conti, Il Manifesto del 7 agosto 2014)

Intervista a Franco Giustolisi:

Giornalista da più di mezzo secolo, scrittore e storico per vocazione (nel 2003 ha partecipato alla scrittura di un volume collettivo sulla strage di Sant’Anna di Stazzema), Franco Giustolisi da vent’anni si batte per rendere pubblici i documenti nascosti nel cosiddetto «Armadio della vergogna». Si tratta di un armadio “scoperto” nel 1994 a palazzo Cesi Gaddi di Roma (sede di vari organi giudiziari militari) dove erano stati “dimenticati” centinaia di fascicoli giudiziari e migliaia di notizie di reato relative ai crimini commessi in Italia durante l’occupazione nazifascista.

Una buona notizia arriva dalla corte federale di Karlsruhe.

La riapertura delle indagini contro il nazista Gherard Sommer, già condannato in Italia per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, è importante perché in primo grado avevano addirittura assolto tutti gli assassini. Significa che la Germania continua a far bene il suo lavoro e a fare i conti con la sua storia, senza badare a sovrastrutture di alcun tipo. L’Italia, invece, continua a tacere. Ultimamente mi ha molto colpito l’intervento del ministro degli esteri tedesco, Frank Walter Steinmeier, quando a Civitella di Val di Chiana, altro luogo dove ci fu una strage orribile, ha detto che non riusciva a concepire ciò che ha potuto fare il popolo tedesco. Come non riesce a concepire? Anche se poi si è scusato, mi lascia un po’ sgomento il fatto che un ministro tedesco esprima stupore, quanto al nostro ministro degli esteri, Federica Mogherini, in quell’occasione non ha aperto bocca. E dire che il ragazzotto fiorentino la vorrebbe ministro in Europa.

Cosa avrebbe dovuto dire?

Almeno che le sentenze si devono rispettare. Tutti i processi ai gerarchi nazisti si sono svolti nel modo più garantista possibile, tanto che la Germania non ha mai avuto nulla da eccepire. Mi sa che regalerò ai due ministri una copia del libro sulla strage di Sant’Anna di Stazzema

Quella drammatica vicenda è nella storia, ma quante altre stragi anche sconosciute sono state compiute dai nazifascisti?

Nell’armadio della vergogna ne sono state censite oltre mille e altri eccidi documentati e accertati non fanno nemmeno parte di quell’elenco. La nostra è una storia orribile ancora da scrivere e da divulgare.

L’argomento in Italia è a dir poco sottaciuto. Non solo non se ne parla, ma negli ultimi anni siamo stati travolti da un’ondata revisionista piuttosto volgare che scredita l’antifascismo. Resta ancora qualcosa di utile da fare?

Secondo me l’approdo naturale per rifare la storia di queste vicende ha bisogno di pochi punti fermi. La conta di tutte le vittime delle stragi, perché ancora oggi non conosciamo il numero dei morti. La richiesta di un perdono ufficiale, perché per cinquanta anni sono stati nascosti i fascicoli, e ricordo ancora le parole del presidente Ciampi che si era pronunciato favorevolmente. L’esecuzione di tutte le sentenze. E una giornata della memoria. Insomma, la fine del silenzio. La cosa più strana è che non si parla della più grande tragedia della storia italiana. Una vergogna.

Cosa intende per rendere esecutive le sentenze?

Se tizio merita l’ergastolo, ergastolo deve essere. Alla Germania non si chiede l’estradizione, basta che la sentenza venga applicata con gli arresti domiciliari. Altrimenti che senso ha? Sono persone anziane che già passano quasi tutto il tempo in casa, che ci stiano per un altro motivo.

Giovani e anche meno giovani sanno poco. Cosa bisogna fare perché la storia non rimanga stampata solo nei libri o sulle carte di una sentenza?

Parlarne, e parlarne ancora. Tutti adesso rileggono la storia della prima guerra mondiale, qualcuno mi deve spiegare perché invece nessu­no ha voluto parlare dell’Armadio della vergogna. Sono passati tanti anni, credo che non sia nessun motivo per mantenere il silenzio. L’Anpì sarebbe il naturale depositario di questa ricostruzione storica, eppure di certi argomenti non vogliono parlare. A febbraio, con i sindaci di alcune località colpite dalla violenza nazifascista, e con i presidenti di Emilia Romagna e Toscana, le regioni più colpite, ho scritto una lettera al Quirinale: ancora non ho ricevuto risposta. Mi chiedo se ci sia qualcosa da nascondere.

Intervista di Luca Fazio da Il Manifesto del 7 agosto 2014

Proiezioni speciali nei giorni commemorativi del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki

Nell’ambito della mostra “The Atomic Bombings of Hiroshima and Nagasaki Poster Exhibition”, allestita presso la sala consiliare auditorium “Madre Teresa di Calcutta” di Mirano, nei giorni commemorativi dei bombardamenti ci saranno due speciali proiezioni.

Nella stessa sala consiliare mercoledì 6 agosto alle ore 20.45 verrà proiettato il documentario sul bombardamento di Hiroshima dal titolo “La bomba atomica:Hiroshima Nagasaki” (dal programma Ulisse). Sabato 9 agosto alle ore 20.45 verrà proiettati il film “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais. Ingresso libero.

Nell’occasione sarà visitabile la mostra che, attraverso 18 poster informativi, racconta gli effetti delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. E’ allestita grazie al materiale fornito da Mayors for Peace, l’organizzazione nata dai sindaci delle due città giapponesi che chiede l’abolizione delle armi nucleari nel mondo, alla quale la Città di Mirano ha aderito da quest’anno. La mostra è aperta fino al 9 agosto (data del bombardamento di Nagasaki) tutti i giorni dalle 17.00 alle 19.00. Quest’iniziativa è realizzata da Comune di Mirano, Centro per la Pace e la Legalità “Sonja Slavik”, Anpi Mirano.