Italiani mala gente (di Franco Giustolisi)

grecia3Ha condotto l’azione «con calma, implacabile energia ed intelligenza». Sono le precise parole di una proposta di encomio solenne per un tenente colonnello che durante l’ultima guerra guidò un’operazione militare nella Grecia occupata. Le parole le scrisse il comandante della divisione Pinerolo, il generale Cesare Benelli. L’ufficiale da encomiare era il tenente colonnello De Paula. Ma l’ufficiale non aveva guidato un’azione particolarmente rischiosa o impegnativa. Non aveva combattuto contro «soverchianti forze nemiche», come spesso si legge nelle motivazioni di medaglie ed encomi. Aveva “solo” messo a ferro e fuoco un paese, Domenikon, in Tessaglia, uccidendo gli uomini, bruciando le case, deportando donne e bambini. Un crimine di guerra commesso da soldati italiani sul quale sta adesso indagando la procura militare di Roma.
Tutto avviene il 16 febbraio 1943, in Tessaglia, appunto. Un’autocolonna italiana che trasporta viveri viene attaccata da quello che viene definito un “gruppo di banditi”, cioè di partigiani greci che combattono contro gli occupanti italiani. La battaglia termina con la rotta degli assalitori. Ma da dove sono arrivati i partigiani? La località abitata più vicina è Domenikon e gli italiani immaginano che da lì siano venuti i “banditi”. Gli uomini della Pinerolo agiscono immediatamente. Radunano e massacrano tutti i maschi di più di 14 anni che vi abitano. Le poche case vengono date alle fiamme. La chiesa viene risparmiata, le donne avviate in un campo di concentramento. Il generale Benelli si vanta di quell’azione, dice che è «esempio e monito per il futuro» e nelle conclusioni del rapporto scrive che «le perdite sono le seguenti, da parte nostra. Morti in combattimento:
truppa 8: morto in ospedale in seguito alle ferite, truppa 1. Feriti: 2 ufficiali, truppa 13. Da parte dei greci. Morti durante lo scontro: 8. Sbandati raggiunti e passati per le armi dalla scorta dell’autocolonna: 7. Rastrellati dalla compagnia di rinforzo e passati per le armi: 16. Passati per le armi perché cercavano di fuggire dall’accerchiamento: 4. Passati per le armi da reparto inviato da Tyrnavos: 8. Passati per le armi a Damasi: 97 (sono i cittadini di Domenikon, ndr.). In totale 140 sudditi greci deceduti».
I documenti su questa storia erano stipati in quello che può essere definito un “carrello della vergogna”. Un carrello grande, a due piani, di quelli che servono a portare faldoni da un ufficio all’altro e nascosto in un angolo della Procura militare, non molto lontano dall’“armadio della vergogna”. L’armadio aperto nel 1994 e di cui parlò per primo “l’Espresso”con l’articolo “Dieci, cento, mille Ardeatine” di Alessandro De Feo e mio. Un armadio della procura militare rimasto per decenni con le ante rivolte verso il muro e dentro, «archiviati provvisoriamente», 695 fascicoli sulle stragi commesse in Italia dai nazisti. Vi vennero chiusi nel 1960 per una sorta di patto segreto tra Italia e Germania. Nessun processo per i nazisti, nessun processo, in cambio, contro i fascisti colpevoli di crimini di guerra nei paesi aggrediti da Mussolini. Nel carrello della vergogna, infatti, insieme al fascicolo sulla strage di Domenikon ce ne sono molti altri relativi alle tante stragi commesse, durante l’ultima guerra, dai militari italiani.
Il fascicolo su Domenikon adesso è sul tavolo del procuratore militare di Roma, Marco De Paolis. E i fatti sono ricostruiti nel diario della divisione Pinerolo che, comandata dal generale Cesare Benelli, era di stanza nella Grecia occupata. A far riemergere questa storia è stato un documentario di Giovanni Donfrancesco (mai trasmesso dalla Rai), “La guerra sporca di Mussolini”. La Procura militare di Roma apre l’inchiesta, ma poi
la chiude frettolosamente con doppia motivazione: «Il generale Benelli è deceduto e manca la parità di tutela penale da parte dello Stato nemico a norma dell’art.165 del Codice militare di guerra». A parte il fatto che sarebbe stato opportuno scrivere Stato ex nemico, molti magistrati contestano l’applicabilità di quell’articolo, un articolo chiamato “salva-tutti”, perché riguarderebbe il rapporto tra militari e militari e non tra militari e civili.
Ma per fortuna il tempo non basta a soffocare l’anelito di giustizia che è una delle colonne portanti della democrazia. E così a Marzabotto, nel giorno della ricorrenza della strage, l’8 ottobre di due anni fa, un distinto signore avvicina l’attuale procuratore militare della Repubblica di Roma, Marco De Paolis. Si chiama Efstathios Psomiades, è il rappresentante delle famiglie delle vittime di Domenikon. Chiede giustizia, fa un discorso di questo tipo: qui in Italia, a gran voce, si chiede che vengano puniti i criminali nazisti responsabili di questo e di tanti altri massacri. Ma i fascisti sono ugualmente colpevoli di delitti simili. Perché non si procede anche contro di loro? Al suo ritorno a Roma De Paolis consulta quei vecchi fascicoli e riapre l’inchiesta chiusa circa cinque anni prima dal suo predecessore Antonino Intelisano, poi promosso al massimo grado di procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. Va ricordato che De Paolis ha riavviato le inchieste su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano e molte
altre stragi, chiedendo ed ottenendo, sinora, sessanta ergastoli. Di nazisti colpevoli ne sono rimasti in vita una quarantina, ma Germania e Austria non vogliono “disturbarli”, vivono tranquillamente nelle loro case.
Per Domenikon De Paolis ha aperto un procedimento a carico di ignoti alla ricerca di qualcuno della divisione Pinerolo ancora in vita. A oggi, a quanto pare, i carabinieri hanno scovato solo un novantacinquenne, ex sottotenente di quella divisione, che però non si trovava allora in quel teatro di operazioni. Ma l’inchiesta continua. (di Franco Giustolisi da “L’Espresso)

La guerra sporca di Mussolini: http://youtu.be/_ttQKhut4vo

Hannah Arendt

arendt

“La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”

Per comprendere meglio la personalità e le idee di Hannah Arendt vi proponiamo la visione di questa conferenza tenuta da Olivia Guaraldo,  ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Verona:

Genocidio nei balcani

JSNingrNon c’è stato soltanto l’Olocausto degli ebrei. Il primo genocidio dell’età contemporanea è stato quello degli armeni, un milione e 200 mila persone (o forse due milioni) massacrate dagli ottomani. Poi ci sono stati i crimini staliniani, molti milioni di morti, che sono soltanto una parte della tragedia sovietica. Infine, c’è stato l’Olocausto dei serbi ortodossi, ancora oggi praticamente sconosciuto, in cui sono stati eliminati 700 mila persone(o forse un milione).
I carnefici di quest’ultima mattanza – avvenuta durante gli anni del secondo conflitto mondiale e organizzata sul modello nazista, con deportazioni e campi di concentramento e di sterminio -, furono gli ustascia (letteralmente, ribelli) croati, guidati dall’ultranazionalista Ante Pavelić. Il quale si autoproclamò Poglavnik (Duce) dello Stato indipendente di Croazia (in realtà, un satellite della Germania e dell’Italia) e attuò una politica di pulizia etnica nei confronti di “tutti gli altri”, con particolare riguardo, naturalmente, verso zingari, ebrei e gli stessi croati che si opponevano agli ustascia, ma con speciale cura per i serbi. Non tanto e non solo perché costoro erano il nerbo della resistenza guidata dal comunista Tito, il maresciallo della futura Jugoslavia postbellica, ma soprattutto perché i serbi erano cristiani ortodossi e dunque, per un cattolico integralista fanatico come Pavelić, dovevano essere i primi della lista. E così, se agli ebrei toccò di essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte, la stella di Davide, cucita sul bavero della giacca, i serbi furono contrassegnati da una fascia infilata al braccio con una lettera P di colore blu. P come pravoslavni, cioè ortodossi.
I lager degli ustascia, fatti costruire alle stesse vittime, erano disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina, ma poiché il loro programma era quello di “eliminare quanti più Serbi possibile nel minor tempo possibile”, vennero utilizzati anche i lager che i tedeschi avevano costruito nel resto della ex Jugoslavia.
Soltanto negli ultimi anni però, e non dappertutto, si è cominciato a ricordare le vittime con testimonianze visibili, come per esempio il piccolo monastero alla memoria costruito a Herzeg Novi, in Montenegro, oppure la scultura che dal 2007 sorge a Banja Luka, Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, significativamente chiamata Pioppo dell’Orrore. Fino ad allora, fatta eccezione per il monumento del lager principale di Jasenovac (un enorme Fiore di Pietra dello scultore Bogdan Bogdanović, inaugurato nel 1966), il genocidio serbo aveva trovato accoglienza soltanto nell’Holocaust Memorial Museum di Washington e, alcuni anni dopo, all’Holocaust Memorial Park di New York. Al di là dell’Oceano. Mentre è da questa parte, a un centinaio di chilometri da Zagabria, che si trova Jasenovac, centro e luogo simbolo dello sterminio (vi sarebbero state eliminate circa 80 mila persone), e tuttavia un nome che non dice niente se non lo si accompagna con la stolida definizione di “Auschwitz dei Balcani”, quasi che, per essere riconosciuto, il male di casa a Jasenovac avesse bisogno di essere paragonato a quello di Auschwitz.
Jasenovac era un “complesso” di otto campi di sterminio – cinque più grandi e tre più piccoli -, con le camere di tortura e i boia, i quali impiccavano, accoltellavano, strangolavano, bruciavano vivi i deportati. O più “pietosamente” li abbattevano con un colpo alla nuca, senza far differenza tra adulti e bambini, donne e vecchi, ma facendo grande attenzione a eliminare i serbi in quanto serbi, come pure gli ebrei e i rom in quanto tali. Il tutto, spesso e volentieri, davanti a una cinepresa.
Oggi Jasenovac è un luogo silenzioso, impregnato di una tristezza che richiede solo contemplazione. Anche l’acqua dei quattro fiumi che la circondano (Sava, Trebež, Una e Struga) e le fronde degli alberi che colorano la pianura sembrano non voler fare troppo rumore qui, dove persino le SS tedesche inorridivano di fronte agli “eccessi criminali” degli ustascia, con i quali i militari italiani si scontrarono diverse volte per frenarne la furia sanguinaria. Ma c’era poco da fare, quando nel lager di Jasenovac a dispensare la morte con le proprie mani era addirittura un frate francescano, Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato Fra’ Satana (espulso dall’ordine appena vennero scoperti i suoi crimini), che guidò il campo dal 1942 e fu giustiziato nel 1945.
Ne nacque anche uno scontro fra la neonata Repubblica federale di Jugoslavia e il Vaticano. La prima accusò l’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, di aver coperto e favorito gli ustascia e per questo lo condannò a 16 anni di carcere. La Chiesa di Roma rispose prima con papa Pio XII, che nel 1953 nominò Stepinac cardinale, e poi con papa Giovanni Paolo II, che nel 1998 lo beatificò. Per chi lo accusa, Stepinac è stato un cinico favoreggiatore di Pavelić che non avrebbe esitato financo a praticare la conversione forzata di massa dei serbi. Per chi lo difende, tutto questo sarebbe una montatura, come dimostrerebbero le testimonianze di perseguitati serbi, rom ed ebrei che invece Stepinac avrebbe salvato anche attraverso lo stratagemma della “conversione”.
Resta il fatto che il dolore e la rabbia per Jasenovac sono poi esplosi durante la guerra degli anni Novanta, che ha sancito la dissoluzione della Jugoslavia. Un dolore e una rabbia che ancora covano sotto la cenere, se è bastata, nei mesi scorsi, una intervista di Bob Dylan al giornale Rolling Stone per scatenare una polemica feroce. “Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Così come gli ebrei possono sentire il sangue nazista, e i serbi il sangue croato”, ha detto Bob Dylan. Parole che gli sono costate l’incriminazione per ingiurie e istigazione all’odio in seguito a una denuncia presentata dalla Comunità dei croati francesi. Solo che appare difficile immaginare un Bob Dylan razzista. Meravigliose canzoni a parte, il vero nome di Dylan è Robert Allen Zimmerman e i suoi nonni, ebrei ucraini, fuggirono in America per scampare alle persecuzioni antisemite della Russia zarista.
Carlo Vulpio (La Lettura, Corriere della Sera, 19 gennaio 2014)

Guerra di Liberazione, non guerra civile

Guerra di Liberazione, non guerra civile, questa la conclusione della serata di ieri, con Gianni Giannoccolo, Alessandra Kersevan, Elisa Lolli.

Dall’introduzione del libro di Gianni Giannoccolo letta da Elisa Lolli:

La memoria non può essere cancellata, anche perché la Resistenza rimane un punto di riferimento per tutti coloro che quel periodo l’hanno vissuto e hanno avuto modo di conoscere gli orrori della guerra, la spietata occupazione nazista dell’Italia e dell’Europa con la deportazione di civili nei campi di concentramento, ebrei sterminati, saccheggi, incendi di case di civili con donne e bambini, stragi di gente inerme, le requisizioni e le depredazioni. In sostanza la violenza tendeva a ridurre a terra bruciata un ambiente che si avvertiva come ostile in quanto contrastava la violazione dei fondamentali diritti umani, respingendo ogni forma di complicità.
Eventi che non debbono cadere nell’oblio, ma che debbono essere trasmessi da generazione in generazione non tanto per esorcizzarli, quanto perché servano da monito affinché non abbiano a ripetersi. Parafrasando Gioele, essi continueranno ad essere presagiti dai figli, presenti nei sogni dei vecchi e nelle visioni dei giovani nell’incessante continuazione della memoria.
C’è troppa gente che quel periodo vuole rimuovere e non mancano coloro che, con teorie elaborate a tavolino, con iniziative estemporanee sprovviste di ogni seria verifica, tentano di stravolgere i termini storici di quegli avvenimenti, capovolgendone i rapporti casuali, nascondendo la motivazione e l’origine di determinati fatti, rifacendo una storia di comodo sulla base di tesi precostituite per adattarla e renderla funzionale a orientamenti politici contingenti.
E il momento di ricostruire, sulla base di documenti e testimonianze, quei drammatici eventi nella loro verità assodata e ineccepibile, per non smarrire la memoria di un patrimonio che deve essere tramandato, un patrimonio che è ignorato volutamente da coloro che, mimetizzati sotto i paraventi di qualche partito postmoderno, persistono ancora oggi nell’esaltare gesta saloine, come si è peritato di fare più di una volta l’ex Ministro La Russa.
Dico subito che chi scrive appartiene alla schiera, per fortuna tutt’altro in via di estinzione, di coloro che non si rassegnano a dover accettare passivamente l’interpretazione corrente che si intende dare al significato della Resistenza, di quello che essa ha rappresentato nella lotta di popolo contro l’occupante nazista dell’Italia dal 1943 al 1945. E neppure ad accettare alcuni episodi e strumentalizzazioni del dopoguerra, a volte raccapriccianti e da condannare, ma pur sempre isolati e anomali, attraverso i quali avallare la tesi che in Italia in quel periodo vi sarebbe stata la guerra civile.

18 gennaio 1944: insurrezione del ghetto di Varsavia

ghettoIl 18 gennaio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia occupata dai nazisti reagirono per la prima volta alle le violenze e le deportazioni, che riuscirono a impedire resistendo ai tedeschi. Il comandante delle SS ordinò la distruzione del Ghetto, i cui abitanti organizzarono una rivolta che tenne in scacco i nazisti per un mese tra aprile e maggio, prima che il Ghetto fosse raso al suolo e la rivolta si concludesse con l’uccisione di oltre diecimila ebrei e la deportazione di circa 50 mila.   Questa la storia della rivolta:

Dal settembre 1942 al gennaio 1943 i tedeschi cercarono di rassicurare i superstiti abitanti del ghetto. Non ci sarebbero state altre deportazioni verso Est, non c’era più nulla da temere. Tuttavia qualcosa nel meccanismo di autoinganno favorito dalle menzogne tedesche si era spezzato. Il ricordo dei familiari, delle mogli, dei mariti, dei genitori, dei figli trasportati verso la morte era troppo vivo negli scampati. Nessuno più si faceva illusioni o credeva nelle menzogne naziste.
Nessuno più credeva che sarebbe uscito vivo dal ghetto. Se si doveva morire questa volta si doveva però morire con onore, combattendo. Anche chi non cercò di aggregarsi alla resistenza militare aveva maturato la convinzione che occorresse combattere.
I combattenti della ZOB non elaborarono alcun piano di ritirata. A differenza del movimento di resistenza della città di Vilna, l’FPO che aveva pianificato la rivolta per fuggire dal ghetto, la ZOB voleva morire con il Ghetto di Varsavia difendendolo metro per metro.
Verso il 15 gennaio i nazisti compirono delle retate di uomini nella parte “ariana” di Varsavia. Una gigantesca caccia al polacco in età di lavoro venne scatenata dalla Gestapo. Nel Ghetto non ci si attendeva una azione nazista dopo queste operazioni di rastrellamento.
Contrariamente alle previsioni alle 6 del mattino del 18 gennaio 1943 una colonna tedesca entrò nel ghetto con il proposito di rastrellare gli abitanti. La tecnica adottata era quella consueta: accerchiamento degli stabili e intimazione ad uscirne. L’operazione colse completamente di sorpresa la ZOB: non c’era il tempo di riunire il comando e prendere delle decisioni.
Anielewicz si assunse la responsabilità dell’azione e con una dozzina di uomini armati di pistola si introdusse nella colonna di prigionieri che stavano marciando verso la Umschlagplatz dove i treni aspettavano. Ad un cenno convenuto, quando la colonna arrivò all’angolo tra via Zamenhof e via Niska, ogni combattente cominciò a scaricare la propria pistola sul tedesco più vicino. Contemporaneamente Yitzack Zuckermann attirò un gruppo di nazisti in un appartamento di via Zamenhof ferendone diversi.
L’attacco colse completamente di sorpresa i nazisti. Diversi rimasero sul terreno e gli uomini della ZOB si impossessarono delle loro armi. Quando altre SS accorsero in aiuto dei loro commilitoni gli uomini della ZOB fecero l’errore di combattere allo scoperto per le vie del Ghetto. Fu un grave errore: numerosi rimasero uccisi non potendo far fronte al numero e all’armamento dei nazisti.
Nonostante questo errore tattico l’effetto politico dell’azione fu enorme. Le centinaia di prigionieri già incolonnati si dispersero sottraendosi alla deportazione. Gli uomini della ZOB dimostrarono che non solo si poteva resistere ma che si potevano uccidere anche gli uomini della “razza superiore”.
I nazisti continuarono l’operazione sino al 22 gennaio continuamente disturbati dagli attacchi della ZOB che questa volta cambiò tattica attaccando e scomparendo.
Grazie alla resistenza armata della ZOB le SS riuscirono a deportare soltanto 650 persone e ad ucciderne sul posto 1.171 che erano state catturate. Considerando che l’operazione mirava almeno al dimezzamento degli ebrei del Ghetto il successo della resistenza appare evidente.
Quel che i difensori della ZOB non sapevano era che l’operazione cominciata il 18 gennaio non mirava al totale svuotamento del ghetto. Durante i primi giorni del gennaio 1943 l’automobile blindata di Heinrich Himmler percorse le strade del Ghetto per una visita che lo stesso Reichsführer volle compiere per rendersi conto personalmente della situazione. Dopo questa “ricognizione” Himmler domandò quanti ebrei rimanevano ancora nel Ghetto. Gli si disse che si stimavano circa quarantamila residenti.
Al suo ritorno a Berlino Himmler scrisse una lettera al capo delle SS e della polizia di sicurezza Krüger ordinando l’immediata deportazione di almeno ottomila ebrei verso i campi di sterminio e di altri sedicimila nelle fabbriche di munizioni di Lublino.
Sammern-Frankenegg con l’operazione del 18 gennaio stava obbedendo ad un ordine che proveniva direttamente da Berlino: rimuovere ventiquattromila ebrei dal Ghetto. I seicentocinquanta ebrei catturati era tutto ciò che era riuscito a fare.
La notizia dell’insuccesso venne ritrasmessa a Berlino. (http://www.olokaustos.org/geo/ghetti/varsavia/warsaw01.htm)

17 gennaio 2014: commemorazione dei 7 partigiani uccisi al cimitero di Mirano

17gennaioNell’ottobre del 1944 una pattuglia della Brigata Volga, comandata da Oreste Licori, catturò il tenente delle SS italiane Vasco Mingori e, forse per uno scambio di prigionieri andato male, l’ufficiale venne ucciso nell’accampamento della “Luneo”. Elda Gallo, sorella del segretario del fascio di S. Maria di Sala fu catturata e giustiziata come spia nell’accampamento della “Volga”.
A Mirano il comandante delle Brigate nere Mario Zagari, grazie alla segnalazione di una collaborazionista, poi giustiziata dai partigiani della “Luneo”, arrestò Oreste Licori mentre faceva visita alla madre. Il giovane venne fucilato il 1° novembre 1944. Seguirono numerosi arresti tra i partigiani della “Luneo” grazie alle rivelazioni di una spia che si era introdotta nella formazione. Sei giovani furono torturati a morte nella notte tra il 10 e l’11 dicembre. I cadaveri vennero gettati ed esposti per tutto il giorno nella piazza del paese, i loro nomi sono: Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor e Giulio Vescovo; un settimo giovane Mosè Bovo fu trucidato nell’aia di casa davanti ai genitori.
Il 5 gennaio del ’45 fu riesumato il cadavere della SS italiana in zona Luneo. I tedeschi, in relazione alla morte dell’ufficiale e all’esecuzione delle due donne, chiesero dieci condanne a morte tra la trentina di partigiani reclusi nella casa del fascio. Fu istituito un processo farsa che si concluse con la condanna a morte di dieci partigiani, di cui tre ebbero accolta la domanda di grazia. Il 17 gennaio furono fucilati presso il cimitero di Mirano Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni).

Per commemorare i partigiani uccisi, venerdì 17 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano (VE) verrà presentato il libro di Gianni Giannoccolo “Resistenza: guerra civile o guerra giusta?”. Sarà presente l’autore. Introduzione di Alessandra Kersevan, Elisa Lolli leggerà brani del libro.

GIANNOCCOLO

Addio ad Arnoldo Foà

imagesAddio ad Arnoldo Foà. L’attore, nato a Ferrara, avrebbe compiuto 98 anni il 24 gennaio 1916. La sua carriera ha coperto quasi un secolo di teatro, cinema e tv, ma anche di libri, poesia e pittura e di insegnamento ai giovani del Centro Sperimentale di Cinematografia. L’artista si è spento a Roma. Il direttore di Rai1, Giancarlo Leone, lo ha ricordato su Twitter: “Chi si ricorda di Arnoldo Foà nell’Isola del Tesoro?”, evocando la partecipazione dell’attore allo sceneggiato televisivo diretto da Anton Giulio Majano e trasmesso dalla Rai nel 1959.
Quando la Casa del Cinema di Roma aveva organizzato la festa per il suo 95° compleanno l’artista, accanto ad Anna non aveva rinunciato a lanciare qualche battuta volutamente ruvida, di quelle che hanno nutrito la sua leggenda di uomo intrattabile: ”Ma siete tutti venuti qui per me, davvero? Ma allora siete tutti cretini!”.
Nella sua “Autobiografia di un artista burbero” pubblicata due anni fa da Sellerio l’attore confessava candidamente di ”aver sempre desiderato di essere amato; non riverito, encomiato, rispettato; amato nel senso di vedere il sorriso sul volto di chi mi guarda, il sorriso che si accende sul volto degli amici e degli sconosciuti”.
Il decano del teatro italiano è apparso sulle tavole dei teatri e sullo schermo in tutte le età e in tutti i contesti: da quando subì le leggi razziali in quanto ebreo, a quando, in veste di annunciatore di Radio Bari annunciò la fine della guerra; dai film d’avventura degli anni Cinquanta, alla popolarità televisiva della stagione d’oro degli sceneggiati di matrice letteraria (un titolo fra cento: ‘Capitan Fracassa’) alle collaborazioni di prestigio, con Orson Welles, Toto’ o Giorgio Strehler.
Foà ha collaborato anche con Luchino Visconti, Luigi Squarzina, Luca Ronconi. È stato anche mettendo in scena spettacoli di prosa – da Aritofane a Pirandello – e di lirica. Nella sua carriera ha raccolto successi anche come doppiatore e restano indimenticabili le sue dizioni poetiche della Divina Commedia di Dante, delle opere di Lucrezio, Carducci, Leopardi, Neruda, García Lorca. (da “Il Fatto” dell’11/1/14)

Arnoldo Foà legge l’epigrafe di Calamandrei al comandante Kesserling:

Cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo”

pietre inciampoDomenica 12 gennaio alle ore 11.00 in Campo del Ghetto Novo, Venezia ci sarà la cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo” (Stolpersteine) in memoria dei cittadini e cittadine veneziani deportati nei campi di sterminio nazisti, con l’artista tedesco Gunter Demnig autore delle Pietre.
Il percorso della posa delle dodici Pietre d’Inciampo inizierà nel Campo drio la Chiesa, adiacente Campo SS. Apostoli (Cannaregio 4470), alle ore 9.00 per poi proseguire con la posa delle altre Pietre; invitiamo tutti a partecipare fin dall’inizio alla manifestazione e seguire l’intero percorso della posa per rendere omaggio, simbolicamente, a tutti coloro che hanno sofferto prima la deportazione e poi la morte nei campi di sterminio nazisti.
http://iveser.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1076&Itemid=13

 

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno: Intervista con Mario Bernardo, classe 1919, uno dei protagonisti della Resistenza, in particolare nel Bellunese ma anche a Venezie e nel Trentino orientale. La sua esperienza in proposito è narrata nel volume “Il momento buono” del 1969.

Di origini veneziane, classe 1919, Mario Bernardo è stato fra i protagonisti della Resistenza nelle vicine montagne bellunesi, come comandante delle formazioni garibaldine nelle quali erano inquadrate anche le due giovanissime martiri del Tesino, Clorinda Menguzzato «Veglia», seviziata e poi fucilata dai nazisti (nell’ottobre 1944, a Castello), e la sua amica Ancilla Marighetto «Ora», freddata con un colpo alla testa dopo essere finita nelle mani di una pattuglia del Corpo di sicurezza Trentino, Cst (nel febbraio 1945 al passo Broccon). Mario Bernardo, che dopo la guerra è diventato una figura di primo piano del mondo del cinema (direttore della fotografia per molti grandi maestri nonché regista a sua volta), era ufficiale alpino di stanza in Alto Adige quando arrivò l’8 settembre. Riuscì con alcuni commilitoni a sfuggire ai nazisti, supportati da forze locali, e riparò in una casa di montagna che la famiglia (padre veneziano, madre bellunese) aveva a Bieno, nel Tesino (dove Radiosa vive tuttora). Qui animò un primo tentativo di dar vita alla guerriglia ma non c’erano le condizioni per un successo e quindi si aggregò alle forze garibaldine del Bellunese. Ebbe ruoli di comando dapprima nella brigata Gramsci sulle Vette Feltrine, dove nacque l’operazione che condusse al varo del battaglione Gherlenda in Tesino, e poi con la divisione Belluno proprio sui monti che sovrastano il capoluogo della vicina provincia dolomitica. Radiosa Aurora si distinse in numerose azioni e, data la sua competenza specifica, diede un contributo importante alle azioni armate, specie in relazione all’utilizzo dell’artiglieria e degli esplosivi. Nel settembre 1944 riuscì con alcuni compagni a mettersi miracolosamente in salvo durante il tragico rastrellamento sul monte Grappa, quando ingenti reparti nazifascisti circondarono il massiccio e massacrarono anche civili in un’operazione che rappresentò un colpo durissimo per la Resistenza (più di 500 morti e 400 deportati).  Dopo la Liberazione, Bernardo fu inviato a Trento per guidare la polizia partigiana, ma in breve tempo prese atto della impossibilità di procedere realmente nei riguardi dei numerosi e zelanti collaborazionisti. Una delusione che indusse amaramente Radiosa Aurora a lasciare l’incarico anzitempo.

Questa la registrazione audio dell’intervista di Zenone Sovilla (Bellunopop.it): http://www.bellunopop.it/bellunopodcast/?p=episode&name=2012-04-11_o_voci-10-4-2012.mp3