Genocidio nei balcani

JSNingrNon c’è stato soltanto l’Olocausto degli ebrei. Il primo genocidio dell’età contemporanea è stato quello degli armeni, un milione e 200 mila persone (o forse due milioni) massacrate dagli ottomani. Poi ci sono stati i crimini staliniani, molti milioni di morti, che sono soltanto una parte della tragedia sovietica. Infine, c’è stato l’Olocausto dei serbi ortodossi, ancora oggi praticamente sconosciuto, in cui sono stati eliminati 700 mila persone(o forse un milione).
I carnefici di quest’ultima mattanza – avvenuta durante gli anni del secondo conflitto mondiale e organizzata sul modello nazista, con deportazioni e campi di concentramento e di sterminio -, furono gli ustascia (letteralmente, ribelli) croati, guidati dall’ultranazionalista Ante Pavelić. Il quale si autoproclamò Poglavnik (Duce) dello Stato indipendente di Croazia (in realtà, un satellite della Germania e dell’Italia) e attuò una politica di pulizia etnica nei confronti di “tutti gli altri”, con particolare riguardo, naturalmente, verso zingari, ebrei e gli stessi croati che si opponevano agli ustascia, ma con speciale cura per i serbi. Non tanto e non solo perché costoro erano il nerbo della resistenza guidata dal comunista Tito, il maresciallo della futura Jugoslavia postbellica, ma soprattutto perché i serbi erano cristiani ortodossi e dunque, per un cattolico integralista fanatico come Pavelić, dovevano essere i primi della lista. E così, se agli ebrei toccò di essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte, la stella di Davide, cucita sul bavero della giacca, i serbi furono contrassegnati da una fascia infilata al braccio con una lettera P di colore blu. P come pravoslavni, cioè ortodossi.
I lager degli ustascia, fatti costruire alle stesse vittime, erano disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina, ma poiché il loro programma era quello di “eliminare quanti più Serbi possibile nel minor tempo possibile”, vennero utilizzati anche i lager che i tedeschi avevano costruito nel resto della ex Jugoslavia.
Soltanto negli ultimi anni però, e non dappertutto, si è cominciato a ricordare le vittime con testimonianze visibili, come per esempio il piccolo monastero alla memoria costruito a Herzeg Novi, in Montenegro, oppure la scultura che dal 2007 sorge a Banja Luka, Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, significativamente chiamata Pioppo dell’Orrore. Fino ad allora, fatta eccezione per il monumento del lager principale di Jasenovac (un enorme Fiore di Pietra dello scultore Bogdan Bogdanović, inaugurato nel 1966), il genocidio serbo aveva trovato accoglienza soltanto nell’Holocaust Memorial Museum di Washington e, alcuni anni dopo, all’Holocaust Memorial Park di New York. Al di là dell’Oceano. Mentre è da questa parte, a un centinaio di chilometri da Zagabria, che si trova Jasenovac, centro e luogo simbolo dello sterminio (vi sarebbero state eliminate circa 80 mila persone), e tuttavia un nome che non dice niente se non lo si accompagna con la stolida definizione di “Auschwitz dei Balcani”, quasi che, per essere riconosciuto, il male di casa a Jasenovac avesse bisogno di essere paragonato a quello di Auschwitz.
Jasenovac era un “complesso” di otto campi di sterminio – cinque più grandi e tre più piccoli -, con le camere di tortura e i boia, i quali impiccavano, accoltellavano, strangolavano, bruciavano vivi i deportati. O più “pietosamente” li abbattevano con un colpo alla nuca, senza far differenza tra adulti e bambini, donne e vecchi, ma facendo grande attenzione a eliminare i serbi in quanto serbi, come pure gli ebrei e i rom in quanto tali. Il tutto, spesso e volentieri, davanti a una cinepresa.
Oggi Jasenovac è un luogo silenzioso, impregnato di una tristezza che richiede solo contemplazione. Anche l’acqua dei quattro fiumi che la circondano (Sava, Trebež, Una e Struga) e le fronde degli alberi che colorano la pianura sembrano non voler fare troppo rumore qui, dove persino le SS tedesche inorridivano di fronte agli “eccessi criminali” degli ustascia, con i quali i militari italiani si scontrarono diverse volte per frenarne la furia sanguinaria. Ma c’era poco da fare, quando nel lager di Jasenovac a dispensare la morte con le proprie mani era addirittura un frate francescano, Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato Fra’ Satana (espulso dall’ordine appena vennero scoperti i suoi crimini), che guidò il campo dal 1942 e fu giustiziato nel 1945.
Ne nacque anche uno scontro fra la neonata Repubblica federale di Jugoslavia e il Vaticano. La prima accusò l’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, di aver coperto e favorito gli ustascia e per questo lo condannò a 16 anni di carcere. La Chiesa di Roma rispose prima con papa Pio XII, che nel 1953 nominò Stepinac cardinale, e poi con papa Giovanni Paolo II, che nel 1998 lo beatificò. Per chi lo accusa, Stepinac è stato un cinico favoreggiatore di Pavelić che non avrebbe esitato financo a praticare la conversione forzata di massa dei serbi. Per chi lo difende, tutto questo sarebbe una montatura, come dimostrerebbero le testimonianze di perseguitati serbi, rom ed ebrei che invece Stepinac avrebbe salvato anche attraverso lo stratagemma della “conversione”.
Resta il fatto che il dolore e la rabbia per Jasenovac sono poi esplosi durante la guerra degli anni Novanta, che ha sancito la dissoluzione della Jugoslavia. Un dolore e una rabbia che ancora covano sotto la cenere, se è bastata, nei mesi scorsi, una intervista di Bob Dylan al giornale Rolling Stone per scatenare una polemica feroce. “Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Così come gli ebrei possono sentire il sangue nazista, e i serbi il sangue croato”, ha detto Bob Dylan. Parole che gli sono costate l’incriminazione per ingiurie e istigazione all’odio in seguito a una denuncia presentata dalla Comunità dei croati francesi. Solo che appare difficile immaginare un Bob Dylan razzista. Meravigliose canzoni a parte, il vero nome di Dylan è Robert Allen Zimmerman e i suoi nonni, ebrei ucraini, fuggirono in America per scampare alle persecuzioni antisemite della Russia zarista.
Carlo Vulpio (La Lettura, Corriere della Sera, 19 gennaio 2014)