Un ricordo di Oreste Licori di Renzo Tonolo, vice presidente Anpi sez. “Martiri di Mirano”:
Oreste Licori
Un giovane partigiano di 23 anni che ha affrontato la morte con grande coraggio e dignità, senza mai subire esitazione alcuna nei confronti della propria utopia.
Oreste Licori era un partigiano comunista, venne fucilato dalle famigerate brigate nere il primo novembre del 1944
Lo ho ammirato!
Lo ammirai quando l’ho visto passare avanti a me, a testa alta e con passo deciso, in mezzo agli scherani, per andare verso l’esito violento della propria breve esistenza, con grande dignità.
Lo ammirai quando seppi che non ha voluto subire passivo la programmata cerimonia fascista della sua fucilazione: ha scelto lui il posto dove dovevano ucciderlo: non avanti il muro ma qui, sulla strada.
Fu questo il suo ultimo atto di rifiuto alla sottomissione!
Lo ammirarono i suoi carnefici che espressero profondo rispetto per il coraggio con cui affrontò il plotone, urlando prima della fine la propria fede.
Oreste Licori, partigiano di 23 anni, fucilato dai fascisti a Mirano il primo novembre 1944. Venerdì 1 novembre 2013 ricorderemo la figura di questo martire caduto per la Libertà del nostro Paese: alle ore 10.30 partenza del corteo da Mirano in piazza Martiri per giungere nei pressi del cimitero e rendere omaggio a Oreste Licori nel luogo del suo barbaro assassinio.
Alle ore 20.45, sala conferenze di villa Errera, proiezione del film: ACHTUNG! BANDITI! di Carlo Lizzani
Da “Luoghi della Resistenza nel veneziano”: Oreste Licori, comandante della Brigata “Volga”, fu il primo tra i partigiani a essere ucciso a Mirano. Il giovane era tornato a casa a salutare i famigliari e su insistenza della madre si era fermato a dormire. Le brigate nere, avvertite da una informatrice abituale, Gioconda Pellizzon, lo catturano e dopo un breve interrogatorio decisero per la fucilazione. Il plotone si dispose nel cortile di una casa colonica nelle vicinanze del cimitero. Non si sa se la scelta sia da interpretarsi come la volontà di terrorizzare ancora di più la popolazione, irrompendo in uno spazio privato, o se si fossero affrettati all’ultimo momento, fermandosi a pochi metri dal cimitero, per paura di un intervento dei compagni di Oreste, che la voce popolare dava per certo. Dietro il condannato si formò un piccolo corteo, donne, ragazzi, qualche persona anziana. Sergio Savoia aveva dodici anni e di quello che ha potuto vedere gli è rimasta un’immagine ancora oggi molto nitida:
Oreste era in mezzo a queste brigate nere, facendo questa strada pensavo “va a farsi ammazzare, non ha da scappare?”. Dopo lo portarono su questo campo e eravamo tre o quattro persone. Però ci hanno tenuto distanti, ci fermarono prima, passarono dalla parte di là e gli hanno sparato. Mi sembra abbia detto “viva Stalin”, ha alzato il pugno chiuso e ha detto “viva Stalin” e gli hanno sparato. Era senza benda. Dopo che gli hanno sparato sono andati via tutti. Io insieme a un signore anziano gli siamo andati vicini e questo signore gli alzò la maglia. Sotto non aveva niente e gli si vedevano tutti i fori delle pallottole. Mi faceva una cosa strana perchè non si vedeva il sangue, si vedevano solo i fori di entrata.
L’ Anpi di Mirano, sez. “Martiri di Mirano” conferma le ragioni che hanno determinato l’adesione e la partecipazione alla manifestazione del 12 ottobre a Roma, non ritenendosi destinataria di un giudizio di “biasimo” per le scelte operate, riconosce, altresì, importante sviluppare ed approfondire il dibattito apertosi all’interno dell’ANPI nazionale su questo tema.
Constatato che è stato approvato il DDL che istituisce il Comitato Parlamentare per la Riforma della Costituzione Italiana da una maggioranza di governo che, seppur legittima, non rappresenta le istanze di rinnovamento volute da quanti sentono che i valori della Resistenza sono irrinunciabili punti di riferimento della vita politica.
Considerata la necessità di mantenere alta la soglia di mobilitazione unitaria tra tutte le forze democratiche, per un impegno che abbia come obiettivo prioritario la vigilanza affinché non vengano manomessi i principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale partendo dal rifiuto, netto, di ogni strisciante forma di ricostituzione del partito fascista,
L’ANPI di Mirano, sez. ”Martiri di Mirano”
si rende disponibile a dar vita, in sintonia con gli organismi direttivi Provinciali, Regionali e Nazionali, con le forze politiche sinceramente democratiche, con realtà espressione della società civile, movimenti e associazioni, a iniziative per una sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questo tema di vitale importanza per le sorti della nostra Democrazia.
In questa azione di informazione e mobilitazione L’ANPI di Mirano si richiamerà ai contenuti presenti nel documento approvato all’unanimità dal Consiglio Direttivo di Sezione il 15.07.2013 di seguito allegato.
Il voto finale dell’aula di Palazzo Madama è in calendario per domani mattina. I senatori sono chiamati a dare il via libera – in seconda e ultima lettura – al disegno di legge costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme. Una proposta contro cui, il 12 ottobre scorso, sono scese in piazza a Roma migliaia di persone, contrarie a questa “scorciatoia” per cambiare in fretta e furia la nostra Carta fondamentale. Ora, per il Senato, è l’ultima possibilità. E se l’approvazione sembra scontata, non è ancora chiaro quali saranno i numeri: se il ddl non ottiene i due terzi del voto, la legge dovrà essere obbligatoriamente sottoposta a referendum popolare. È quello che auspicano i firmatari dell’appello che pubblichiamo qui di seguito.
Sig. Senatore, Sig.ra Senatrice, permetta anche ai semplici cittadini di dire la loro. La celebrazione di un referendum che consenta agli italiani di votare sulla deroga dell’art. 138 è possibile. Basta non partecipare alla votazione finale o dare un voto di astensione o votare contro il ddl di deroga dell’art. 138 su cui il Senato sta per pronunciarsi. Qualunque idea lei abbia delle riforme costituzionali, sarebbe un gesto coerente con la più volte proclamata volontà di rendere sempre obbligatorio il ricorso al referendum sulla revisione della Costituzione. In presenza di una legge elettorale su cui, peraltro, gravano forti sospetti di incostituzionalità e che distorce pesantemente la rappresentatività del voto degli italiani, sarebbe un atto di fedeltà allo spirito e alla sostanza della Carta costituzionale. Infatti, come risulta chiaramente dal dibattito all’Assemblea costituente, il quorum dei 2/3 necessario per evitare il referendum era stato pensato per un sistema elettorale di tipo proporzionale. Né si può in nome della stabilità del governo tenere fede a un “crono-programma” che impedisca ai cittadini di pronunciarsi sulla modifica di una norma importantissima della nostra Costituzione. Per questo Le chiediamo di raccogliere il nostro appello e di rendere possibile il referendum sulla revisione dell’articolo 138.
Luigi Ciotti, Paolo Maddalena, Alessandro Pace, Gianni Ferrara, Claudio De Fiores, Alberto Lucarelli, Raniero La Valle, Massimo Villone, Antonello Falomi, Cesare Salvi, Raffaele D’Agata, Antonio Ingroia, Beppe Giulietti, Franco La Torre, Tiziana Silvestri, Giulia Rodano, Roberto Giulioli
La Repubblica dell’Ossola durò solamente 33 giorni. Un territorio di quasi duemila chilometri quadrati fu liberato dai partigiani e diventò un vero e proprio Stato con un governo, un esercito e una capitale: Domodossola. Fu un esperimento democratico che stupì il mondo intero perché venne realizzato all’interno di un paese in guerra.
Tutto cominciò nell’agosto del 1944, i partigiani della brigata Valdossola comandata dal maggiore Dionigi Superti, della brigata Beltrami agli ordini del capitano Bruno Rutto, della brigata Piave di Filippo Frassati e Armando Calzavara, e infine della brigata Valtoce del tenente Alfredo di Dio, intimano la resa a tutti i presìdi tedeschi e fascisti stipati lungo la riva occidentale del Lago Maggiore. I tedeschi si arrendono subito, i fascisti invece combatteranno alcune ore prima di cedere le armi. Uno alla volta, i piccoli presìdi fascisti cadono. L’8 settembre 1944 l’intera Valdossola viene liberata, tranne Domodossola, che i partigiani, non senza esitazioni, decidono di liberare.
Il 9 settembre 1944 l’arciprete di Domodossola, don Luigi Pellanda, promosse un incontro al quale parteciparono i comandanti tedeschi e fascisti e i capi partigiani Dionigi Superti e Alfredo di Dio, per evitare inutili spargimenti di sangue. Sia i tedeschi che i fascisti decidono di lasciare Domodossola ai partigiani, a patto di poter evacuare con armi e familiari.
I partigiani accettano a condizione che siano da loro abbandonate tutte le armi non fabbricate in Germania. Appena Domodossola viene liberata, gli abitanti euforici si riversano per le strade sventolando il tricolore. Vengono aperte le frontiere con la Svizzera consentendo così ai giornalisti di tutto il mondo di poter documentare l’evento.
La controffensiva fascista venne sferrata all’alba del 10 ottobre, e alle 17 la prima colonna fascista entrava in Domodossola.
I fascisti schierarono circa 5.000 uomini, con tre cannoni, cinque carri armati e dieci autoblindo. I partigiani erano invece 3.000.La gran parte della popolazione abbandonò la Val d’Ossola per rifugiarsi in Svizzera lasciando il territorio pressoché deserto impedendo di fatto le forti rappresaglie che furono minacciate.
A tal proposito proprio il capo della provincia Enrico Vezzalini scrisse il famoso comunicato a Mussolini che recitava: “Abbiamo riconquistato l’Ossola, dobbiamo riconquistare gli Ossolani”. I partigiani che poterono trovarono rifugio in Val Sesia, dove si ricostituirono due formazioni partigiane che all’inizio del 1945 tornarono nell’Ossola e lottarono fino alla fine della guerra. La storia della Repubblica dell’Ossola è stata narrata nello sceneggiato di Leandro Castellani -Quaranta giorni di libertà- e dal libro di Giorgio Bocca -Una repubblica partigiana-.
Piero Malvestiti (1899-1964), combattente decorato della Prima guerra mondiale e antifascista cattolico che prese parte alla guerra di liberazione e al governo dell’Ossola, ricorda:
Ancor oggi la “Repubblica di Domodossola” […] costituisce l’eventus che ha caratterizzato – quale che sia stata la sua importanza militare – un poco tutta la Resistenza italiana […] Ben a ragione il Capo del Governo italiano, on. Bonomi, scriveva in quei giorni da Roma che i Patrioti della Valdossola “sono il simbolo dell’eroismo che pervade tutto il popolo italiano della battaglia per la sua redenzione”. […] La “Repubblica di Domodossola” prefigurava l’Italia di domani, ed era soprattutto un’aspra condanna e una sfida irriducibile. Paradossale, mentre il nazismo era ancora in Norvegia, in Danimarca, in Russia, in Olanda, nel Belgio in Francia, nell’Europa centrale, nei Balcani, in Grecia, in Italia, paradossale e assurdo che un pugno di uomini osasse sfidarlo al punto da istituire una «Giunta Provvisoria di Governo»
I vecchi ergastolani di porto Longone, poi porto Azzurro, il carcere di massima sicurezza dell’isola d’Elba, nel secolo scorso, a chi chiedeva quanto tempo ancora avevano da trascorrere dietro le sbarre rispondevano «oggi, domani e sempre». Per gli ergastolani nazisti la battuta va, invece, rovesciata: «né oggi, né domani e né mai». Ieri mattina è arrivata un’altra sentenza: al carcere a vita è stato condannato Alfred Stork, 90 anni, ex caporale della terza Compagnia del 54° battaglione Cacciatori delle Apli (Gebirgs-Jager). Fu uno degli esecutori dell’orrendo massacro di Cefalonia. Cinque-seimila militari della divisione Acqui trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca. «Traditori, traditori» urlavano mentre facevano partire le raffiche mortali. «Il peggior delitto di tutte le guerre moderne», disse a Norimberga il pubblico accusatore generale Tajlor. Con la condanna di Stork, siamo arrivati ormai a 32 ergastolani di qualità fuori dal comune: la pena gli è stata inflitta, ma loro sono liberi e tranquilli nei loro paesi. La Germania si è liberata dal nazismo o, meglio, è stata liberata dal nazismo, ma protegge i «figli», anche se degeneri. L’Italia su Cefalonia tace. Sembra che istituzioni, governi, associazioni abbiano da nascondere qualcosa. Di sicuro avrebbero preferito che l’«Armadio della vergogna» non fosse stato mai aperto.
Al processo che si è concluso ieri hanno testimoniato alcuni reduci da Cefalonia, gente con un’età da 90 in poi. Ecco, qui di seguito, qualcuno dei loro ricordi. Bruno Bertoldi, 94 anni, «compiuti» precisa, sergente maggiore del reparto autieri della divisione Acqui, comandata dal generale Gandini, decorato a suo tempo da Hitler con la massima onoreficenza tedesca, che gettò in terra e calpestò prima di essere fucilato. «A Cefalonia fu un massacro, presero la gente e la ammazzavano così, con le mani alzate…». «No, in quei tempi non si poteva parlare con i superiori, allora le nostre parole erano Signorsì, Signorno…». «Arrivò una squadra di Stukas sopra di njoi, erano una trentina…». L’Italia del re e di Badoglio era fuggita e gli Inglesi non intervennero in aiuto della divisione Acqui che Mussolini aveva mandato in guerra senza artiglieria contraerea. “…arrivarono le prime pattuglie tedesche, furono falciati tutti quanti, tutti ammazzati, fucilati… Al capitano Pampaloni (Amos Pampaloni, un grande, non dimenticherà mai i suoi compagni, n.d.r.) spararono alla testa, ma la pallottola uscì senza fargli gran danno, rimase sotto i corpi dei compagni morti… Poi i greci lo aiutarono e lui combattè contro i nazisti. …ero anch’io sulla portaerei Garibaldi quando il presidente Ciampi venne a Cefalonia e chiese a Pampaloni cosa pensava di quel che era accaduto. E lui, ricordo, rispose «mi sento ancora perseguitato». «…come prendevano i prigionieri li fucilavano… avevano massacrato un battaglione del 317°, poi, a Troyanata fucilarono seicento soldati e li gettarono in un pozzo, togliendogli tutto quel che di valore avevano indosso… Erano gli uomini del maggiore Klebe che avevamo battezzato ‘il macellaio’». «Mi presero, erano in tre, il capo squadra mi guardò, era di Bolzano, aveva fatto con me la scuola di sottufficiali, mi dette due calci aggiungendo “porco italiano” e, poi, sottovoce “scappa, scappa”, mentre gli altri due urlavano al compagno “sparagli, sparagli”. Al generale Gherzi gli sfilarono gli stivaloni, dopo averlo ucciso. Un greco mi aiutò, dandomi i suoi vestiti, ma riuscirono a catturarmi. Poi seppi che i carabinieri erano andati dai miei genitori perchè firmassero l’atto di morte, in modo da prendere la pensione di guerra, ma mia madre si oppose sempre sperando che tornassi a casa. Infatti ci tornai due anni dopo, alla fine del ’45». Mario Piscopo, 94 anni, già sottotenente. «Ho assistito all’uccisione dei prigionieri, venivano passati per le armi via via che venivano catturati. Cito un piccolo grande episodio. Ritrovai tra le vittime il mio compagno di plotone, il sottotenente Giuseppe Quattrone… Era stato colpito alla nuca: evidentemente, non appena si era arreso gli avevano sparato… Un’esecuzione vera e propria… Ci portarono su una carretta, passammo davanti alla “Casetta Rossa (lì fu sterminata la maggioranza degli ufficiali, n.d.r.), vidi una cinquantina di corpi. Ed era appena l’inizio. L’ex sottotenente racconta del silenzio che circondò, e circonda, questa vicenda. Si incontrò con Simon Wiesenthal: ci disse, “attivatevi”. Ma che potevamo fare? Mica eravamo in Israele, eravamo in Italia, abbiamo fatto il possibile, monumenti ai nostri caduti, ma la televisione ha sempre poco curato i nostri interventi pubblici… Mi sentii dire “Ma che cosa possiamo fare, ormai siamo alleati della Germania”».
Il teste dà notizia di una lettera inviata il 12 maggio 2004 al presidente della Commissione parlamentare sulle cause dell’occultamento delle stragi nazifasciste: «Chiedo che venga accertata – è scritto – la responsabilità di coloro che nascosero quei fascicoli, consentendo l’impunità ai responsabili di esecuzioni di massa da parte di militari tedeschi che premeditatamente uccisero militari inermi». Come si sa, questa risposta, e sono passati quasi 70 anni dai fatti, nessuno l’ha ancora data. Giuseppe Benincasa, 91 anni, musicante della banda della divisione Acqui. Esordisce il pubblico ministero militare, Marco De Paolis: «Signor Benincasa, allora…». «Non sento, sono sordo, mi posso avvicinare?» Interviene il presidente Antonio Lepore: «Rimanga pure lì, sarà il pm ad avvicinarsi a lei». «Veramente io non ho mai sparato, mi è sempre piaciuta solo la musica e le donne. Suonavo la tromba; ero la prima tromba solista… Abbiamo fatto una specie di referendum, come alle elezioni. Abbiamo votato sì e no e la maggioranza ha votato che dovevamo combattere… Allora mi hanno dato un fucile mitragliatore, ma io ci dissi che non so sparare. Allora mi dettero uno zaino pieno di bombe a mano che dovevo portare in prima linea. Però mi hanno preso e ci levavano tutto, portafogli, anelli. Mi presero pure una piastrina indorata con la Madonna, agganciata conilo filo di ferro… In quella zona quattrocento sono stati fucilati, fra i quali pure gente della Croce Rossa, con la fascia della Croce Rossa, fucilati pure loro. Poi sono riuscito a darmela a gambe, i greci mi hanno aiutato, sono diventato greco, mi hanno fatto la fotografia, sono andato al Comune, il sindaco ci ha messo il bollo e mi hanno dato il nome di Jorgo Jannapulo. Mi hanno portato da Jannapulo padre e gli hanno detto: “questo è tuo figlio”. Però lui ha risposto, “va bene che è mio figlio però non gli posso dare da mangiare perchè non ce l’ho neanche per me».
Arriva la sentenza, ovviamente in contumacia e probabilmente Stork non ne subirà le conseguenze, come i suoi 31 compatrioti. Lui ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, che gli dispiace aver dovuto sparare agli uffuciali italiani, ma poi si è saputo che i componenti dei plotoni di esecuzione erano volontari. Assai più netto fu il sottotenente Otmar Muhlauser, che comandò uno dei plotoni: «Era giusto che si fosse fatto così perchè gli italiani erano dei traditori». Della sua esistenza in vita si seppe nel 2002, ma il procuratore di allora, Antonio Intelisano, poi promosso Procuratore generale, attese che tirasse le cuoia, nel 2009, proprio duurante l’udienza preliminare. Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e parte civile, inviò insieme a chi scrive questo articolo una lettera aperta al Capo dello Stato, pubblicata proprio sul manifesto. Ma non ci fu alcuna risposta. (di Franco Giustolisi da “Il Manifesto”)
Ergastolo per Alfred Stork, l’ex nazista novantenne che a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943. La condanna è del Tribunale militare di Roma, seconda sezione presieduta da Antonio Lepore, dove si è concluso il processo all’ex caporale che vive in Germania a Kippenheim.
«COMODAMENTE A CASA» – L’ex caporale maggiore Stork «non ha avuto il coraggio di mantenere ferma la sua ammissione di colpa, restando comodamente nella sua casa in Germania», aveva detto il procuratore militare Marco De Paolis, che aveva poi elencato le numerose testimonianze che hanno indicato Stork come uno di quelli «che fucilò l’intero stato maggiore della Acqui», nel settembre 1943. La sentenza del Tribunale militare è la prima sentenza emessa in Italia sulla strage di Cefalonia, finora infatti i precedenti giudizi si erano conclusi in archiviazioni o per morte dell’imputato come nel caso del Maresciallo Otmar Muhlhauser.
L’AMMISSIONE – Alfred Stork ex caporale dei Cacciatori di montagna (Gebirsgjager), ascoltato otto anni fa dai magistrati tedeschi, aveva comunque ammesso di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione attivi nei pressi della cosiddetta Casetta Rossa, il 24 settembre. «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori», disse. Alla Casetta Rossa gli ufficiali giustiziati furono 129 (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da parte di due plotoni.
73 UFFICIALI – Quello di Stork, sparò dall’alba al pomeriggio lasciando sul terreno 73 ufficiali, come afferma lo stesso imputato. In quella testimonianza resa in Germania Stork aveva anche aggiunto particolari agghiaccianti: «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l’altro… prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini».
CORPI ANCORA INSANGUINATI – Dure le parole di Marcella De Negri, figlia del caduto Francesco, parte civile nel processo: «Questo frugare nei corpi ancora sanguinanti, nelle tasche di divise dalla giacca slacciata (a cui erano stati tolti i bottoni che avrebbero potuto deviare i colpi dei fucili) per portar via gli oggetti di valore e tenere fra le mani quelle fotografie di bambini, “belli”, e donne che mai più avrebbero rivisto i loro cari massacrati, mi ha convinto alla costituzione di parte civile».
PRIMA SENTENZA STORICA – Soddisfazione per l’avvocato dello stato Luca Ventrelli: «E’ andata come doveva andare, questa è la prima sentenza su Cefalonia di qualsiasi tribunale». Il procuratore De Polis aggiunge: «E’ di fatto, dopo Norimberga, la prima in Europa su Cefalonia». De Paolis ha altri fascicoli su cui sta lavorando e riguardano le stragi naziste in Grecia, a Kos e a Leros, ma anche in Albania. Un fascicolo è aperto anche su ex militari italiani, riguarda la strage di Domenikon, un villaggio della Grecia interna. (da http://storiedimenticate.wordpress.com)
Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest’accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
(intervista a Stefano Rodotà di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2013)
Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006. (di Maurizio Molinari “La Stampa”)
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