Nel Miranese la “difficile” Resistenza di pianura

Nel Miranese la “difficile” Resistenza di pianura.

[Relazione di Maria Luciana Granzotto al convegno organizzato dall’ANPI di Mirano per la “Giornata della Memoria dedicata ai Martiri di Mirano, Sala conferenza di Villa Errera, Mirano, 11 dicembre 2011]

Qui il file Pdf completo di note:
Maria Luciana Granzotto Nel Miranese la difficile resistenza di pianura

 

Il miranese , o meglio, quel tratto di pianura veneta compreso tra le città di Padova, Venezia e Treviso, è stato teatro di una Resistenza che dalla città ha ricevuto l’impulso per nascere e svilupparsi. Possiamo individuare due fasi del movimento partigiano, che sono in sintonia col quadro nazionale : una prima fase, che va dal settembre ’43 alle soglie della primavera del ’44, in cui le persone coinvolte furono poche e legate ai vertici militari e politici; una seconda fase in cui la base del movimento partigiano tanto in pianura, quanto in montagna, si era allargata e politicizzata.

Padova in questo contesto svolse un ruolo di assoluto rilievo, in città vi era il Comando Regionale Veneto della Resistenza, il cui nucleo operativo faceva capo all’università cittadina.
Il 1° settembre era stato nominato nuovo rettore dell’Università Concetto Marchesi, prorettore Egidio Meneghetti, farmacologo, l’8 settembre si era diffusa la notizia dell’armistizio. Il giurista e prestigioso uomo politico azionista Silvio Trentin, esule in Francia dal 1926, in quei giorni era a Padova; il 10 la città fu occupata dalle truppe tedesche.

In una data imprecisa di questo periodo   si era costituito il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto nell’appartamento di Marchesi in palazzo Papafava, dove si ritrovarono Silvio Trentin ed Egidio Meneghetti, il cristiano sociale Italico Cappellotto, il socialista Cesare Lombroso e qualche altro. Tra questi “altri” vi era Giancarlo Tonolo, come egli stesso ha raccontato nell’intervista  concessa a Martino Lazzari nel 1992, citato tra l’altro nella ricostruzione che Paolo Spriano fa di quell’incontro , anche se erroneamente lo chiama Alessandro.
Il Tonolo, che abitava a Mirano, era studente di Lettere e Filosofia presso l’Università Patavina, aveva maturato il suo antifascismo di matrice azionista già nel 1941-42, sotto l’influenza dei corsi di Marchesi su Sallustio e Catullo, il quale, attraverso la letteratura latina, aveva potuto parlare liberamente di politica, e di Norberto Bobbio, il cui assistente era Opocher, che allora insegnava filosofia del diritto.
Grazie a questa vicinanza col gruppo dirigente della Resistenza veneta gli furono dati due importanti incarichi: fare da segretario a Silvio Trentin, quando questi era nascosto a Mira insieme al giovanissimo figlio Bruno, e il suo coinvolgimento nella missione Argo.
La missione Argo era una missione costituita dall’italiano SIM (Servizio Informazioni Militari) in collaborazione con l’inglese SOE (Special Operation Executive) che era in contatto con il Comando Militare Regionale Veneto. Meneghetti aveva dato l’incarico a Tonolo di accogliere Giovanni Bruno Rossoni, un capitano dell’Aviazione che dopo l’8 settembre era entrato in servizio al SIM.
Queste missioni svolsero un ruolo molto importante di collegamento tra le autorità alleate e le bande partigiane e di coordinamento tra le forze regolari e gli effettivi della Resistenza. In particolare lo scopo della Argo era di raccogliere informazioni sulle forze armate tedesche in Veneto e stabilire un collegamento tra i comandi militari partigiani e il comando alleato.
La missione era iniziata il 4 febbraio del ’44, quando dal sottomarino “Platino”, proveniente da Taranto, erano sbarcati Rossoni con il marconista Veglia sul litorale adriatico, vicino a Chioggia, dirigendosi poi a Venezia a casa Ferrari. Qui collocarono la ricetrasmittente, i cui fili si confondevano con quelli della biancheria. Grazie alla collaborazione dei ferrovieri fu possibile controllare il traffico militare tedesco, fornire notizie dettagliate sugli impianti delle stazioni d’interesse militare e dei lavori lungo la ferrovia; il servizio informativo si occupava anche dei porti e aeroporti e delle principali arterie stradali delle Venezie .
Il Tonolo faceva da tramite tra il Rossoni e il Comando Militare del CLN regionale e provinciale, favorito dal fatto che aveva la fidanzata a Venezia e poteva fare frequenti viaggi senza destare sospetti. La missione terminò l’8 agosto del ’44, il Rossoni, dopo essere stato catturato, fu deportato in Germania e fucilato a Mauthausen poco prima della fine della guerra. Il Tonolo braccato e condannato a morte fu fatto fuggire in Svizzera con documenti falsi e riparò presso dei parenti della fidanzata.

Le fonti scritte  sono generalmente concordi a datare l’inizio dell’operatività della Resistenza nella primavera del 1944, mentre la costituzione di un CLN locale, formato da Giancarlo Tonolo (PdA), Michele Cosmai (PCI), Luigi Bianchini (DC) e Jacopo Monico (PLI), è anticipata al settembre-ottobre del ’43. Questa circostanza è confermata dalle testimonianze raccolte da Lazzari: lo ricorda sia Tonolo, che colloca la riunione alla fine del settembre ’43 a casa sua in piazza a Mirano, sia Gioacchino Gasparini, suo amico e aderente al movimento Giustizia e Libertà .

Per comprendere come avvenne il passaggio dalla prima alla seconda fase di cui si diceva, è bene tenere presente alcuni avvenimenti di rilievo nazionale relativi all’inverno ’43-’44: i tedeschi si erano attestati saldamente tra il Garigliano e il Sangro nell’Italia centrale, impedendo l’avanzata anglo-americana verso Roma e il Nord, nonostante il successo dello sbarco ad Anzio nel gennaio del ’44. Solo a maggio si rimise in moto il fronte e la città di Roma venne liberata (4 giugno) dagli Alleati e senza insurrezione popolare. Questo rappresentò per il CLN un grosso problema politico, ormai la prospettiva era il dopoguerra: era necessario che i partigiani fossero protagonisti della liberazione, quindi si doveva precedere, anche se di poco, le truppe alleate, liberare le città dall’interno, conquistare legittimità e favore popolare. Con la liberazione di Firenze (4 agosto) si affermò il nuovo corso di una Resistenza in grado di dare “una prova inequivocabile della sua capacità di suscitare e guidare un apprezzabile protagonismo polare” .

Le fonti locali attestano che l’attività cospirativa e operativa del movimento partigiano aumentò il numero dei propri aderenti a partire dalla primavera del 1944. Questo sviluppo era stato favorito da diversi elementi: la sfiducia nei confronti delle autorità della RSI, percepito come governo illegittimo sostenuto dalle truppe di occupazione tedesche; il rifiuto generalizzato di continuare la guerra che si concretizza nell’insuccesso sostanziale dei bandi Graziani del febbraio e dell’aprile ’44; la speranza di una rapida conclusione del conflitto che, con la liberazione di Roma e lo sbarco in Normandia degli alleati, appariva imminente.
Nella primavera del ’44 si superarono le vecchie organizzazioni militari, le prime che si erano formate in modo spontaneo, che divennero meno importanti rispetto alle nuove organizzazioni politiche armate di montagna, di campagna e dei territori di città.
Per i CLN l’imperativo era quello di ampliare la base popolare del movimento, formare politicamente e militarmente e, seppure nell’unità del comando regionale, si sviluppò una competizione tra i partiti per la direzione della lotta, per il numero dei partigiani aderenti e per le zone da controllare.
Nel territorio che abbiamo considerato si sviluppò l’attivismo dei comunisti che i cattolici immediatamente cercarono di contrastare, quasi un anticipo di quello che negli anni cinquanta sarà la “guerra fredda”. Questo è documentato per il salese, la zona di scontro in particolare fu la frazione di Caltana nel comune di Santa Maria di Sala.

I comunisti erano i garibaldini della Brigata Padova, poi “Franco Sabatucci”, dal nome del prestigioso comandante ucciso dai sicari della banda Carità nel dicembre del ’44. Bruno Ballan , esponente di spicco della compagnia “Bis” del VI battaglione Sparviero, racconta  che, nel febbraio- marzo del ’44, lui con altri giovani di famiglia contadina furono avvicinati da Virgilio Ferraresso e Giulio Coppo. Il primo si occupava della formazione politica ed era il tramite con la direzione padovana, mentre il secondo si occupava della formazione militare. Per un periodo di alcuni mesi Ferraresso visse col gruppo che si costituì dopo poco. Sia Ferraresso, che Virginio Benetti, che lo sostituì in seguito, erano vecchie conoscenze delle autorità: il primo era operaio, (anche se Ballan lo chiamava il professore e di lui diceva che era “insegnante pratico di chimica all’università”) ed era stato deferito al tribunale speciale e condannato per due volte. Virginio Benetti, nel dopoguerra sindaco di Cadoneghe, apparteneva a una famiglia di antifascisti (i fratelli Anselmo e Giuseppe), era stato condannato per propaganda sovversiva a cinque anni al confino nell’isola di Ponza. Nel ‘38 era a combattere in Spagna, fu poi internato in Francia e consegnato alla polizia italiana nel ’43; trasferito nel campo di concentramento di Scipione, in provincia di Parma, dal 6 giugno del ’44 si era reso latitante .

A Caltana fin dal gennaio del ’44 era arrivato don Antonio Pegoraro  che, incaricato del vescovo castrense di Padova Bartolomasi, aveva iniziato ad organizzare una formazione di giovani partigiani cattolici che contrastassero il successo del proselitismo dei comunisti.
Seguirono numerosi contatti e riunioni tra don Pegoraro, il presidente diocesano dell’Azione Cattolica, Isidoro Marzaro di Caltana e il capitano dei paracadutisti Antonio Ranzato, che rappresentava l’ala militare moderata, già in contatto col colonnello di Marina Rutoli, che lavorava come medico all’ospedale della Marina Militare a Mirano. Rutoli era il padre del giovane partigiano Brunello che morì in uno scontro a fuoco a Codevigo nel marzo del ‘45. Questo gruppo faceva parte della brigata del popolo “Guido Negri”.
Ranzato conobbe il professor Ezio Franceschini, a sua volta legato a Marchesi, che dal dicembre del ’43 si era rifugiato in Svizzera. Con l’avvallo alleato avevano costituito  l’organizzazione FRAMA (dai cognomi dei due) che diede con continuità  informazioni sia politiche che militari ai vertici anglo-americani fino alla liberazione . Il Ranzato, insieme a un ufficiale della Folgore Sergio Cardin e il dottor Giovanni Scapin, fu presentato a Meneghetti e Zancan tramite Franceschini già nel settembre del ‘43 . Per reperire le armi si dovette attendere il maggio- giugno del ’44, quando ci fu un aviolancio in località Premaore. Le armi, visto il rapido incremento degli effettivi, erano sempre insufficienti, per cui con una convergenza delle forze cattoliche da poco costituite, i miranesi Gasparini, Monico, Bianchini, Tomat, i garibaldini della “Padova”  fu pianificato l’attacco alla caserma della GNR di Dolo. Il comando fu affidato al capitano Ranzato, l’operazione andò bene, non ci furono né morti, né feriti e le armi recuperate furono nascoste nel cimitero di Caltana. Al momento della spartizione ci fu un contrasto insanabile tra don Pegoraro e Ballan, appoggiato dal commissario politico Ferraresso .

Su un territorio che coincideva in parte con la zona di azione della “Sabatucci” agiva la “Lubian”, che apparteneva alla brigata azionista “Silvio Trentin”. La “Trentin” fu organizzata in città e provincia, dove si costituì un gruppo a nord e uno a sud di Padova, dall’ingegnere Renato Otello Pighin, collaboratore di Meneghetti e del Servizio Informazioni Militare. Il comandante era lo stesso Pighin che fu ucciso per il tradimento di un ufficiale, Mario Santoro, che ricopriva un ruolo di rilievo nel Comitato militare provinciale; lo stesso contribuì a far catturare Meneghetti, rifugiato sotto falso nome nella casa di cura Villa Antenore del professor Palmieri.
Pighin, caduto nella trappola organizzata dallo stesso Santoro, fu ferito gravemente presso Ponte Barbarigo a Padova  il 7 gennaio 1945. Agonizzante fu portato a Palazzo Giusti, sede della banda Carità, dove fu torturato fino alla morte. Il suo corpo nudo fu consegnato ad uno spazzino ad Abano .
La relazione militare della brigata  sottolinea che i gruppi che si erano formati avevano caratteri di formazioni militari permanenti: le squadre vivevano alla macchia, avevano organizzato i servizi di guardia, approvvigionamento, informazione e collegamento, attraverso staffette, col centro di Padova. Quelli che erano in clandestinità, per la loro attività erano costretti a vivere in case diroccate o in appartamenti di città, avevano documenti falsi e organizzavano azioni di guerriglia e/o di sabotaggio. Altri, che potevano esibire un’occupazione giornaliera, avevano una doppia vita e vivevano in famiglia.

In zona Mirano agiva la “Salzano-Luneo”, una compagnia meno formata politicamente e che aveva un carattere di maggiore spontaneità. L’unico punto di forza era la preparazione militare del suo comandante Bruno Tomat, un sergente che aveva fatto la guerra nei Balcani con le truppe d’assalto dei bersaglieri. Dopo l’8 settembre era finito prigioniero dei tedeschi ma riuscì a fuggire fortunosamente e a rientrare in Italia. A casa sua a Mirano tornò nel gennaio del ’44, dopo poco, a causa dei bandi Graziani, fu costretto a nascondersi nei campi e con lui altri giovani che avevano rifiutato la leva.
Quando gli è stato chiesto di raccontare la sua esperienza di comandante partigiano  Tomat aveva ricordato le molte difficoltà incontrate a causa dell’alto livello di pericolosità che aveva la resistenza in pianura: l’addensamento dei centri abitati e la popolazione numerosa li esponeva facilmente alla delazione; era impossibile trovare, anche per brevi periodi, luoghi sicuri per gli accampamenti, il deposito delle armi, la custodia dei prigionieri. Erano condannata a una mobilità continua e chi era alla macchia conduceva un’esistenza di estrema precarietà.
A Tomat era poi impossibile controllare quelli che raggiungevano la formazione e impotente nel sanzionare o limitare comportamenti sventati e spavaldi dei “nuovi”.

[…] qua in pianura si era esposti a tutto! Io che provenivo dalla guerra dei Balcani e conoscevo bene la guerra partigiana o antipartigiana, trovandomi in mezzo a tanti che prendevano le cose così, con spavalderia e superficialità … Quello che era brutto era che ogni tanto capitava gente raccomandata, magari con una lettera, tu non li conoscevi perché avevano il nome di battaglia […]. E poi come erano arrivati, se ne andavano da un’altra parte; […] a noi era capitato il famoso Scalmana, ex ufficiale: era stato preso in un rastrellamento e dopo poco era diventato vice comandante delle brigate nere e lui era quello che ci accusava

Come abbiamo visto la permeabilità permetteva l’inserimento di personaggi spregiudicati che, all’occorrenza, diventavano spie e traditori. La fragilità organizzativa di questo gruppo accresceva il rischio per tutti e, di conseguenza, era poca la coesione e la fiducia reciproca. Per questi aspetti fu proprio la Luneo-Salzano a pagare il più alto tributo di sangue tra tutti i gruppi che operavano nella zona.

Su questo delicatissimo aspetto vediamo come invece funzionava nelle bande stabili di montagna, ad esempio uno dei più noti comandanti partigiani, poi grande oralista, Nuto Revelli nel suo diario, diventato il libro “La guerra dei poveri”, del rapporto coi suoi uomini scrive che

Ivano, Nino, Marco, sono i migliori ufficiali che potessi avere. Con questi collaboratori è possibile inquadrare la banda per farne un reparto saldo, un reparto di alpini, capace di affrontare il combattimento. Conosco quasi tutti i miei uomini. Parlo molto con loro, non mi stanco di ascoltarli. Mi interessa sapere perché sono saliti in montagna e dov’erano prima e che mestiere facevano .

Brevi frasi significative: l’ascolto dei compagni presuppone un rapporto di uguaglianza che costruisce un rapporto di conoscenza piena, anche affettiva, tutto l’opposto della gerarchia militare,  ma è pure una forma primaria di tutela, di autodifesa del gruppo. In questo modo il comandante può capire chi tentenna, chi non ha fede salda, chi ha paura, chi è ambiguo. E, poco oltre, la rigorosa selezione degli uomini che Revelli fa in vista di un rastrellamento in cui probabilmente si sarebbe dovuto combattere.

8 aprile. […] Rigorosa selezione degli uomini: chi vuole è liberissimo di andarsene, chi resta dovrà combattere. Gli incerti, i malati, i piedipiatti, lasceranno domani la valle .

Alla Luneo-Salzano mancavano la disciplina e l’organizzazione militare, quindi oltre ai rischi di cui si diceva, anche le azioni progettate avevano meno incisività. Inoltre la leadership di Tomat veniva  insidiata da altri partigiani dalla forte personalità, come Gianmatteo Zamatteo e Oreste Licori.
Nell’accampamento della Luneo fu ucciso il tenente delle SS italiane catturato dalla “Volga”  su pressione del commissario comunista veneziano. Egli aveva dato corso alla circolare emanata delle Garibaldi di Padova dell’ottobre del ’44, che ordinava di giustiziare tutti gli elementi nazi-fascisti che si potevano prendere . Da questa esecuzione Tomat si dissocerà sia durante che dopo il periodo bellico.

Tornando ai garibaldini della “Bis”, le azioni che la compagnia mise a segno nel periodo della sua operatività portano il marchio distintivo delle disposizioni dei comandi provinciali . Il gruppo agiva in modo disciplinato, il commissario politico Ferraresso li seguiva passo passo. Tra i suoi compiti “l’ora della politica”, in cui informava i compagni sugli ultimi avvenimenti e sugli obiettivi della lotta di liberazione. Curava la disciplina all’interno della banda e svolgeva la funzione di mediatore, risolvendo i conflitti sia all’interno che tra partigiani e popolazione.
All’inizio dell’attività il gruppo mise a segno un colpo che aveva il duplice obiettivo di tutelare la popolazione e acquisire autorevolezza:  i bandi erano estremamente impopolari per cui, quando nel giugno del ’44, il Podestà di Santa Maria di Sala volle forzare i giovani a presentarsi alle armi con la minaccia di denuncia ai tedeschi, i garibaldini penetrarono in municipio, asportarono le carte d’identità, le tessere annonarie e incendiarono il resto, per impedire di risalire alle liste dei renitenti alla leva.
Ferraresso e Ballan tesero un’imboscata a Nello Allegro, il feroce comandante della brigata nera di Camposampiero, in provincia di Padova, lo volevano prigioniero così da poterlo scambiare con degli ostaggi. L’agguato finì malamente e Ballan venne catturato e portato nelle carceri di Camposampiero.
I compagni seppero organizzare la sua liberazione che fu pianificata insieme a un ex combattente della guerra di Spagna, Sante Boscolo detto Chio. Fu una liberazione senza spargimento di sangue, beffarda e fortunata. Nel pieno della notte due partigiani vestiti da brigatisti condussero il garibaldino Francesco De Gaspari in qualità di renitente fermato perché sospetto. I finti militi chiesero di entrare; una volta che gli fu aperto immobilizzarono le sentinelle della GNR e liberarono Ballan. Quando se ne andarono si impadronirono dell’Aprilia fuoriserie del federale Vivarelli, all’epoca una macchina da sogno.
A fine giugno del ’44, la direzione nord delle Brigate Garibaldi aveva dato disposizioni affinché si portasse l’insurrezione nelle campagne , si sentiva prossima la fine della guerra. La strategia e il piano delle operazioni per i partigiani che operavano in campagna erano di difendere i beni dei contadini dalle requisizioni e impedire l’ammasso militare, incentivare l’occultamento dei beni agricoli e favorire la distribuzione alla popolazione; togliere dalla circolazione tutti gli elementi fascisti e tedeschi e sabotare le vie di comunicazione.
Disposizioni che furono pienamente applicate dalla “Bis”, sono documentate le azioni di sabotaggio a linee elettriche, a fili del telefono, ai cartelli stradali sulla importante arteria di collegamento tra le città di Treviso e di Padova, e fu impedimento l’ammasso militare.
A un certo punto gli effettivi furono così numerosi, tra cui molti sbandati e giovani del luogo talmente compromessi con le autorità da essere costretti alla clandestinità, che si abbandonarono le elementari regole di prudenza e nella zona tra Briana di Noale e Massanzago funzionarono degli accampamenti permanenti, che finirono con dare nell’occhio. L’11 ottobre del ’44 le due postazioni – la “Bis” e la “Felisati” –  furono attaccate in forze delle brigate nere di Padova, distaccamenti di Camposampiero e Ponte di Brenta. La memorialistica partigiana ha definito lo scontro come la “battaglia di Briana”, un combattimento di pianura, dove si contrapposero un “esercito partigiano” e le brigate nere .
La guerra non era affatto finita e l’autunno portò allo scompaginarsi delle formazioni; già il giorno successivo allo scontro, coloro che l’avevano scampata dovettero trovarsi un altro rifugio, contando sull’aiuto dei famigliari.
Nell’inverno ‘44-’45 l’offensiva  alleata si era fermata sulla linea “Gotica”, per cui si liberano uomini e mezzi che poterono nuovamente essere impiegati nell’azione di repressione delle bande partigiane. A Mirano nel novembre e nel dicembre del ’44 si fecero numerosi arresti; nella locale casa del fascio si susseguirono gli interrogatori e le violenze in un crescendo di sangue e furore che culminò nella strage dell’11 dicembre del ‘44, quando sei giovani della “Luneo-Salzano” furono uccisi, dopo essere stati torturati per giorni, e gettati nella piazza di Mirano nella notte tra la domenica e il lunedì, tradizionale giorno di mercato che richiamava la popolazione del paese e del circondario. In gennaio, cercando di recuperare una parvenza di legittimità, i fascisti istituirono un processo che si concluse con la condanna alla fucilazione di sette partigiani, tre ancora della Luneo e l’anziano Michele Cosmai .
La parte politica del CLN sopravvisse alla repressione, mantenne i suoi contatti con Padova e Venezia, gestì bene i giorni della liberazione, impegnandosi in una frenetica attività di mediazione e di mantenimento dell’ordine pubblico che scongiurò il verificarsi di gravi incidenti con le truppe tedesche in transito verso la Germania.

Il grande investimento nella politica che fecero i partiti di sinistra durante la lotta partigiana fu premiato nel dopoguerra; nel ’46, il primo sindaco liberamente eletto fu il comunista Tullio Morgante, che con abilità seppe elaborare per la comunità di Mirano il lutto di coloro che a vario titolo erano stati coinvolti nella lotta partigiana, e di chi aveva sofferto le perdite causate dalla guerra. Rispetto ai paesi limitrofi si costruì precocemente una memoria civile della Resistenza, attraverso un percorso monumentale, che nel corso degli  anni si è addirittura incrementato.
Lo spirito e l’etica della Resistenza permeò la vita democratica del paese: fornì la classe dirigente ai maggiori partiti e alle istituzioni locali, tre sindaci – Bianchini, Gasparini e Tonolo – e, negli anni settanta, un decennio di buona amministrazione PSI-PCI che modernizzò profondamente il comune.

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