«I dolori della tortura non cadono in prescrizione»

Rapotez_OvadiaLuciano Rapotez, nato a Muggia, partigiano comunista, da anni segretario dell’Anpi di Udine, si è spento il 23 febbraio scorso, a quasi 95 anni. Se ne vanno con lui i dolori delle torture che gli vennero inflitte per 106 ore ininterrotte, per fargli confessare un delitto orrendo, un furto conclusosi con un triplice omicidio di una coppia di coniugi e della loro collaboratrice domestica. Di quel crimine, Luciano Rapotez era completamente innocente. Del fatto fu dapprima assolto in assise per insufficienza di prove, quindi rinviato in appello e, da ultimo, prosciolto in cassazione con formula piena, per non avere commesso il fatto. Con lui furono assolti i suoi presunti complici, tutti suoi compagni di lotta nella resistenza antifascista, tutti comunisti.
Di tutto ciò che avvenne, Luciano Rapotez conservava meticolosamente una doviziosa documentazione, ma io la sua storia l’ho conosciuta direttamente dalla sua voce e l’ho ascoltata ripetutamente nel corso di un documentario girato dalla regista Sabrina Benussi, una videomaker di grande vaglia animata da un’insopprimibile passione civile. A quel documentario girato nel 2010, ho partecipato insieme allo storico Marcello Flores e all’allora giudice Gherardo Colombo.
Luciano Rapotez era una persona di carattere gioviale, con un volto ridente. Era un uomo simpatico, diventammo infatti subito grandi amici e da allora, in ciascuna delle ricorrenze che hanno restituito all’Italia libertà e democrazia, dandole una dignità costituzionale dopo la vergogna dell’infame Ventennio nero, ricevevo una sua telefonata di saluto, nella quale mi richiamava alla comune militanza antifascista. Capitava, quando mi trovavo dalle sue parti in Friuli, che alla telefonata facesse seguito un incontro a qualche manifestazione o semplicemente in un caffè per un bicchiere di vino.
Ogni volta, ogni singola volta che l’ho incontrato, Luciano mi ripeteva quella frase: «Sai Moni, i dolori della tortura non cadono in prescrizione…».
La sua non era un’ossessione, non era neppure un lamento — non ne aveva assolutamente il tono — era un’indignazione vibrante per l’ingiustizia subita e, più che per quella subita da lui stesso, per quella intollerabile che permetteva ad esponenti degli organi dello Stato, di praticare quella ripugnante forma di vile e impunita brutalità contro esseri umani inermi, colpevoli o innocenti, anche dopo la proclamazione della Costituzione e a oltre due secoli dalla pubblicazione di Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri.
L’incredibile vicenda di Luciano Rapotez, è già stata raccontata in un libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, Il caso Rapotez, ed è stata oggetto di una trasmissione televisiva su Rete 4, condotta dal grande giornalista Guglielmo Zucconi.
Recentemente il calvario di Rapotez, è stato anche riportato alla memoria del lettore italiano sul Corriere della Sera del 4 Giugno 2011 da un appassionato articolo di Gianantonio Stella.
Ricordiamolo brevemente. In una sera di gennaio del 1955, dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Luciano Rapotez — ex partigiano che si era distinto per azioni di coraggio straordinario come il trasporto di armi ed esplosivi travestito da ufficiale repubblichino su treni pullulanti di soldati nazisti — viene circondato da tre uomini armati di pistola che si dichiarano poliziotti e mentre gli comunicano la grave imputazione, gli suggeriscono di fuggire per sfruttare la cosiddetta ley de fuga che permette di giustiziare un ricercato che tenti di scappare sparandogli alla schiena. Luciano non cade nella trappola. I tre poliziotti, ex fascisti reintegrati nei ranghi e probabilmente ebbri di spirito di vendetta, lo portano in questura e da quel momento inizia il suo inferno. Lo pestano per cinque giorni e quattro notti, lo sottopongono alla privazione del sonno, del cibo, dell’acqua, gli impediscono di espletare le funzioni fisiologiche, gli applicano l’elettricità ai genitali, inscenano perfino un finto suicidio.
Rapotez, nella Trieste di quegli anni, con il suo irredentismo revanscista, era il colpevole perfetto, comunista, ex partigiano, con un cognome slaveggiante: doveva essere colpevole. Ricordando quelle ore terrificanti, Luciano mi diceva: «Avrei confessato anche l’uccisione di Giulio Cesare». Poi, dopo 106 ore implacabili, ininterrotte, la cella e infine il lungo processo di cui ho già fatto cenno, il suo calvario ebbe fine.
Per porre fine a questa via crucis — e Luciano lo ricordava con profonda gratitudine — si era mosso anche Aldo Moro in persona dopo essere stato informato della sua persecuzione. Quando dopo tre anni e mezzo, esce finalmente dal carcere libero e riabilitato, Luciano non trova né la moglie, né i figli ad aspettarlo: la moglie si è rifatta una vita, «i tempi erano durissimi» spiega con partecipe comprensione.
Il sistema giudiziario riconosce le torture e le altre vessazioni che ha subito, ma per queste non viene risarcito e non gli vengono neppure porte delle scuse. Da quel momento, Luciano Rapotez inizia la sua battaglia legale per ottenere giustizia, assistito gratuitamente da avvocati solidali, rivolgendosi, ad ogni cambio di governo, alle più alte cariche dello Stato — dal Guardasigilli, al Presidente della Corte Costituzionale, fino al Presidente — ottenendo solo algide e ipocrite risposte burocratiche: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Agghiacciante.
Disgustato, Luciano emigra in Germania. Ciononostante non smette di condurre, indomito, la sua battaglia che continua anche quando, dopo la pensione, rientra in Italia.
Sta per cedere, ma nel 2001 vede in televisione la cronaca dei fatti del G8 di Genova e gli orrori della macelleria messicana della caserma Bolzaneto: capisce così che la sua lotta contro la tortura non è un fatto superato, ma una battaglia da proseguire nel presente e nel futuro.
In pieno XXI secolo, l’Italia è sprofondata nella sozzura di una dittatura sudamericana come testimonia Amnesty international.
Luciano riprende la sua missione sacrale e, combattendola, muore senza avere avuto l’agognata giustizia, ma trasmettendo un duro monito: «L’Italia è l’unico paese in cui le parole si pervertono oltre ogni limite: si scrive moderazione e si legge ferocia».
Ci lascia parole scolpite nel sangue e nelle lacrime: «I dolori della tortura non cadono in prescrizione». Lo sanno bene, oltre a Rapotez, i ragazzi di Genova 2001, i Giuseppe Uva, i Federico Aldrovandi, gli Stefano Cucchi, i Francesco Mastrogiovanni e tanti, tanti, troppi altri.

Moni Ovadia, Il Manifesto del 26 febbraio 2015

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24 febbraio 1945: i fascisti uccidono Eugenio Curiel “Giorgio”

curielI temi del rinnovamento anagrafico e della cosiddetta “rottamazione”, sembrano oggi monopolizzare l’attenzione del dibattito politico, sovente a prescindere dalla proposta avanzata. Nella storia non sono mancate fratture generazionali, tuttavia, i risultati più profondi in termini di rinnovamento si sono avuti quando tra vecchie e nuove generazioni si è determinata una saldatura incentrata sulle scelte di campo. La lotta di liberazione dal nazifascismo è un esempio in tal senso proprio per l’irrompere diffuso di giovani cresciuti nel regime che, nella clandestinità, trovarono un terreno d’incontro con i vecchi protagonisti dell’antifascismo sconfitto da Mussolini. Tra le figure dimenticate, eppure più significative, di quella pagina di storia si può annoverare quella del giovane scienziato e partigiano Eugenio Curiel di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.

Nato a Trieste l’11 dicembre 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in Ingegneria a Firenze e il Politecnico a Milano, si laureò in fisica e matematica a Padova nel 1933 con il massimo dei voti e una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Con la docenza universitaria, Curiel iniziò a partecipare anche ai seminari di studi dell’Istituto di filosofia del diritto. Ciò gli diede l’opportunità di curare l’altro versante delle sue passioni intellettuali, facendo i conti con la filosofia idealista di Croce e Gentile per arrivare attraverso Hegel al marxismo, secondo un percorso comune a tanti giovani della sua generazione. A questo periodo risalgono anche i suoi primi scritti e l’avvio di una più matura elaborazine politico-filosofica. Con altri giovani come Atto Braun, Renato Mieli (il padre di Paolo) e Guido Goldschmied costituì la cellula comunista di Padova, quindi nel ’36 stabilì un contatto con il PCI e partì per Parigi. Tra gli esiliati politici, l’arrivo di giovani italiani, che con l’entusiasmo e la voglia di fare si portavano dietro testimonianze dirette della situazione nel Paese, era atteso come una boccata d’aria fresca.

Tornato a Padova con le direttive del partito, Curiel dovette fronteggiare la delusione dei suoi giovani compagni, desiderosi di passare all’azione e poco propensi a dedicarsi alle sole attività di penetrazione nelle organizzazioni fasciste indicate dal centro estero del PCI. In coerenza con le direttive ricevute, Curiel iniziò una stabile collaborazione con il giornale universitario fascista “Il Bò”, dove scrisse 54 articoli tra il 1937 e il ’38 curandone la pagina sindacale. Le lunghissime discussioni redazionali si spostarono alle fabbriche, per l’intuizione di confrontare preventivamente le questioni da trattare nel giornale con gli stessi operai. Ciò consentì al gruppo di costruire solidi legami sociali nel mondo del lavoro, poi rivelatisi fondamentali con lo sgretolamento del regime. Ottenuto nel dicembre del 1937 il passaporto per motivi di studio, riuscì tornare a Parigi dove per due mesi ebbe modo di rafforzare sempre più i rapporti con Donini, Grieco e Sereni. Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convinse a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari che ancora gli erano rimasti e di non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF.

Nel 1938, abbandonata la collaborazione con “Il Bò” ed estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi razziali, Curiel tornò a Parigi in una fase difficilissima per le forze antifasciste, con la Guerra Spagnola avviatasi verso una tragica sconfitta e dissidi sempre più grossi tra le forze della sinistra. Gli offrirono diverse sistemazioni lavorative sicure in Francia, Svizzera e persino negli USA USA – dove ebbe l’opportunità di partire per fare da insegnante al figlio di uno dei più importanti magnati dell’industria cinematografica, Luis Burt Mayer – ma li rifiutò tutti per non abbandonare la sua militanza e l’impegno antifascista nel Paese. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio fu arrestato nel mese di giugno. Sottoposto a interrogatorio a San Vittore e mandato al confino a Ventotene, dal gennaio1940, Curiel si dedicò allo studio e alla formazione dei confinati antifascisti. Lasciata Ventotene, dopo tre anni, insieme agli altri confinati, Curiel tornò in libertà proprio alla vigilia dell’8 settembre.

Trasferitosi a Milano, su indicazione della direzione Alta Italia del PCI, con il compito di creare il Fronte della Gioventù, curare l’edizione settentrionale de “l’Unità” e della rivista “La nostra lotta”, diventò il «partigiano Giorgio». Dopo una medaglia d’oro al valor militare, una lapide e un inno partigiano a lui dedicato, di questa singolare figura, tanto interessante da meritare una sceneggiatura cinematografica, rimangono alcune vecchie pubblicazioni e il ricordo degli ultimi testimoni di quella storia. La generazione di Curiel diede alla guerra di liberazione una parte consistente di quadri e la sua base di massa. Giovani cresciuti nel regime, ma capaci di emanciparsi dal fascismo, aderire all’opposizione e affiliarsi nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie generazioni di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani inquieti e insoddisfatti dal regime c’era un salto generazionale, ciò nonostante tra essi si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza. I leaders del vecchio movimento antifascista, costretti all’emigrazione dopo il carcere e le violenze subite, senza l’apporto delle nuove generazioni difficilmente avrebbero potuto raggiungere una tanto vasta mobilitazione contro il movimento di Mussolini. Le nuove generazioni allevate a “pane e fascismo” e non “contaminate” dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole.

Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici e aver discusso il piano del numero de “l’Unità” in preparazione lasciò la redazione, riconosciuto sulla strada da un delatore, fu raggiunto e ucciso da una squadra fascista. Curiel morì a due mesi dalla liberazione di Milano, non aveva ancora compiuto 33 anni. Le cronache narrano che sul suo sangue un’anziana fioraia milanese gettò una manciata di garofani rossi. Tra tutti, per concludere, il ricordo dell’amico Giorgio Amendola: «Passammo, così, anche l’ultima notte del ’44, e salutammo con gioia il nuovo anno, quello della vittoria ormai certa. Ci vedemmo ancora una volta, qualche settimana dopo, e ci lasciammo in quel bar, all’angolo di Corso Magenta, da cui sarebbe uscito il 24 febbraio per andare in Piazzale Baracca incontro alla morte, alle pallottole dei fascisti. Anche la sua vita fu gettata nel rogo, come quella di tanti altri giovani. Ed il suo sacrificio, così crudele alla vigilia della liberazione, ha fatto di Eugenio Curiel, medaglia d’oro, un simbolo, il capo della gioventù della Resistenza». Quei giovani anteposero un ben preciso progetto, abbattere il regime e ricostruire da zero la democrazia, alla velleitaria pretesa di tagliare orizzontalmente ogni rapporto con le vecchie generazioni, non solo con quelle responsabili della dittatura, ma anche con chi lo aveva combattuto, seppur perdendo. Scelsero piuttosto di “rottamare” il fascismo.

Gianni Fresu (2012)

Angelo Del Boca. “Il governo è irresponsabile”

8903977-878-kirD-U10301995904489yY-568x320@LaStampa.itAbbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica ad Angelo Del Boca, storico del colonialimso italiano, della Libia e autore di molti saggi sulla figura di Gheddafi (compresa una importante monografia, riedita in questi giorni in una versione più completa da Laterza).
Come giudichi l’affermazione del ministro degli esteri Paolo Gentiioni: «Siamo pronti a combattere in Libia…», perché «è uno Stato fallito», sembra spiegare Matteo Renzi?

È una dichiarazione irresponsabile e imprudente. Perché mette l’accento (salvo marginalmente chia­rire il solito riferimento all’«egida Onu») proprio ad un intervento militare dell’Italia che non siamo in grado di fare. Perché un conto è attivare una guerra aerea come abbiamo fatto nel 2011, un altro combattere con truppe di terra. È una dichiarazione gravissima, perché siamo spinti dentro uno sce­nario di guerra per il quale siamo inadatti. Basterebbe che i nostri governanti incapaci studiassero un po’ la storia, per scoprire le tante sconfitte libiche che abbiamo subito. Altro che inviare 5mila uomini come ha evocato la ministra della difesa Pinotti. Da inviare contro chi? Su quale fronte?

Renzi, che relazionerà su questo giovedì in Parlamento, sembra ora frenare e parla di «soluzione politica». Ma è chiaro che, dopo il sì in patria di Berlusconi, lavora ad una «coa­lizione di volenterosi». Ma la situazione sembra precipitare: l’Egitto del generale golpista Al Sisi, bypassando l’Italia, ieri notte ha bombardato le basi dell’Is a Derna; e ieri mattina la Francia ha chiesto la riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu…

È nello stile di Renzi che vuole giocare su due tavoli. Il primo è quello da «protagonista», di una mis­sione militare a guida italiana. Una cosa mai sentita, almeno nel dopoguerra. L’altro è più prudente, viste le difficoltà reali di una tale enormità. Insomma: vabbè, lo facciamo con l’Onu. Che è un atteg­giamento più moderato e più spendibile. Soprattutto di fronte all’atteggiamento del Cairo.

Ieri notte l’aviazione egiziana ha bombardato le postazioni dello Stato islamico a Derna. Quali reazioni provoca in Libia l’entrata in campo dell’Egitto con l’offensiva militare del generale-presidente Al Sisi? E qual è la situazione politica interna al fronte libico, diviso e frammentato?

L’iniziativa militare egiziana è rilevante, anche se va ricordato che è iniziata da tempo, infatti aveva già bombardato nei giorni scorsi Bengasi. Di fatto il nuovo regime del Cairo appoggia il governo libico in esilio di Tobruk che fa riferimento al generale Khalifa Haftar e al suo esercito. Haftar com­batte già a Bengasi contro i jihadisti e sta riabilitando esponenti del regime di Gheddafi. E Al Sisi deve dare una prova di forza perché se non difende quel confine e il Sinai, per lui è finita. Il fatto è che dentro la Libia a cominciare da Tripoli, di alleati di Al Sisi non se ne vedono, Tripoli è persa. Anche perché il governo legittimo libico, eletto da elezioni suffragate dagli osservatori internazionali,
è nelle mani della coalizione Al Fajr (Alba), formazione che va dai Fratelli musulmani alla milizia Scudo di Misurata. Come si ricorderà nel 2013 il generale Al Sisi ha deposto il presidente Morsi, massacrato e messo fuori legge i Fratelli musulmani. E ora le milizie del Califfato puntano alla con­quista di Misurata, governata appunto dalle stesse forze di Tripoli.

Non ti sembra che, anche stavolta, venga taciuto l’interesse italiano, ormai decisivo, riguardo alle nostre fonti di approvvigionamento energetico?

Questo aspetto invece è fondamentale. Ma Renzi lo tace, anche perché la situazione dell’Eni in que­sto momento è pasticciata e ingestibile. Dopo gli scandali legati all’Algeria e soprattutto per la crisi in Ucraina che, alla fine, ha sostanzialmente penalizzato l’Unione europea e in particolare l’Italia, visto il disastro della cancellazione del South Stream, il fondamentale mega-progetto di gasdotto europeo. Secondo me in questa fase — e non solo per l’insicurezza derivata dalla guerra per bande ma anche per il mercato stornato verso altri lidi -, l’Eni non è in grado di estrarre nemmeno un litro di petrolio dai giacimenti libici.

Come mai tanta arroganza e miopia del governo italiano in questa fase della crisi mondiale?

È perché, in modo scellerato, manca una politica estera, una vera diplomazia italiana. Renzi dice che la Libia è uno «Stato fallito». E chi l’ha fatto fallire se non la guerra del 2011 voluta a tutti i costi dalla Francia di Sarkozy? Dimenticano che con quella guerra fuggirono milioni di lavoratori migranti e di libici, dei quali ora un milione è in Egitto e 600mila in Tunisia. Voglio ricordare che quando gli aerei della Nato bombardavano la Libia nel marzo del 2011, io ammonivo «la Libia diventerà una nuova Somalia». È quello che è accaduto. Ora va coinvolto, in una funzione di mediazione internaz­ionale l’alta personalità di Romano Prodi, già inviato speciale nel Sahel dell’Onu, che ha espresso più volte la sua contrarietà alla soluzione militare, e che è visto come interlocutore anche dalle attuali autorità di Tripoli. Subito, prima che sia troppo tardi.

Tommaso Di Francesco (Il Manifesto del 16 febbraio 2015)

O partigiano

14ultimaaDall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli in una intervista (parte di una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore.

«Ero tornato a Bologna dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li aveva mandati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a lavorare al Resto del Carlino. L’8 settembre andai a trovare i miei genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato.
E c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu come una ribellione interiore: gliela faccio pagare. Credo che sia successo a tanti che furono presi da sentimenti diversi, ricordi della prima guerra mondiale, i giuramenti alla patria, io avevo giurato da ufficiale… Per cui non ci fu una base comune ma tante storie individuali che entrarono nella Resistenza.
Entrai in un bar vicino alla stazione e c’era gente che diceva bisogna fare qualcosa, basta coi tedeschi, e c’era Corrado Bonfantini, che disse: chi vuole fare qualcosa, possiamo farlo insieme. Mi diede appuntamento il giorno dopo e formammo le squadre, divise fra Partito d’Azione e socialisti. Il nostro compito era informativo, di sabotaggio e anche di eliminazione, simile ai Gap. Io non sapevo che esistessero i Gap se non per sentito dire. Facevamo le stesse cose, ma senza la stessa capacità organizzativa e senza le azioni gloriose fatte dai Gap di Torino che erano comandati da Giovanni Pesce e da Ilio Barontini, che erano stati in Spagna. La prima cosa era procurare le armi per formare squadre che potessero combattere seriamente, e alimentare la guerriglia che si veniva formando in montagna. Comunque abbiamo compiuto varie azioni, abbiamo fatto saltare gli impianti ferroviari, varie cose che si dovevano fare in quei tempi. Io ero abbastanza esperto di esplosivi perché avevo fatto il corso guastatori nell’esercito. Anche eliminazioni: c’era un reparto di polizia addetto contro i partigiani, e io mi ero fatto amico, fingendo di esser fascista, con uno di questi agenti che mi diceva come ricevevano le informazioni – le delazioni sono state moltissime perché erano ben pagate. E io ho partecipato a queste azioni di eliminazione.
I fascisti scoprirono il comando militare, col quale ero in contatto tramite i cattolici. Fu preso in una chiesa, dove avrei dovuto trovarmi anch’io, tutto il comando militare del Cln e furono fucilati al Martinetto. Perché non andai a quell’incontro? Mi aveva mandato Bonfantini; lui disse a me di andare perché si sentiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza Carignano e lui mi fece cenno di stare attento; appena fatto questo cenno gli saltarono addosso due, mi ricordo con impermeabili chiari, gli saltarono addosso. Bonfantini si divincolava e gli spararono alla schiena. Io mi allontanai, ero disarmato, non andai a quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in pericolo. Mi disssero di raggiungere un reparto di Giustizia e Libertà nel Monferrato. Però avrei dovuto portarmi dietro dei ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, giovanissimi, avevano costituito un distaccamento e fatto delle azioni, quindi li conoscevo bene. Nel frattempo venni a sapere che un ragazzo che si chiamava Folco Portinari, che poi sarebbe diventato funzionario della Rai e docente, era stato preso dai tedeschi e gli avevano detto, a lui e altri, che se si arruolavano nelle SS italiane avrebbero avuto un trattamento particolare; se no, dovevano andare ai lavori forzati in Germania.
A punta di pistola mi feci consegnare un camion dell’azienda del gas, e andai all’appuntamento con questi quaranta in divisa da SS. Salimmo sul camion e andammo a Superga. Decidemmo di dormire lì nel campo, però i ragazzi della Barca sospettarono che queste SS erano vere, e discutevano se uccidermi – poi decisero di aspettare e io ebbi salva la vita, ma per miracolo. Fatto sta che con questo camion che tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, raggiungemmo la 19brigata, e lì mi dissero che avrei dovuto comandare questo reparto, che era piuttosto consistente, poi però mi nominarono capo di stato maggiore e passammo nella val di Lanzo.
Lì avemmo delle avventure piuttosto pesanti, dei rastrellamenti feroci. Uno di questi ci portò a disperderci. La nostra tecnica era di prevedere di doverci disperdere e di avere dei punti di raccolta. Il mio punto di raccolta era una conceria, vicino al parco della Mandria, e mentre eravamo lì che ci stavamo riorganizzando arrivò uno che sembrava un contadino a dire che c’era un carrarmato che avevano rimesso a posto, proprio dentro la Mandria, e lui ci avrebbe aperto una certa porticina e avremmo potuto recuperarlo. Andammo, presi una decina di uomini, c’era anche Adolfo, il commissario politico. Io per primo mi presentai davanti a questa porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise il suo mitra sotto il braccio destro, e io avevo la pistola in mano e gli uomini dietro. Aprimmo questa porta — e ci spararono. Io non fui preso dai primi colpi perché quello che mi doveva uccidere fu colpito da questo mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una raffica e fui ferito, fui ferito gravemente. Quelli che erano dietro a me mi tirarono indietro e mi salvarono, mentre questo Adolfo rimase in mano loro e fu preso e lo impiccarono.
Mi nascosero nei sotterranei della conceria dove c’erano delle grandi caldaie, faceva un caldo terribile. La ferita mi faceva molto male, sbattevo la testa pensando di ammazzarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi intontivo soltanto, finché mi tirarono fuori e mi salvarono, proprio. Poi i nostri reparti si riunirono e ritornammo nel Monferrato, e io mi trovai in una cascina nel Monferrato dove veramente mi salvarono la vita perché ci furono dei rastrellamenti feroci e questi contadini, non sapevo neanche chi fossero, rischiarono la pelle per nascondermi, facevano delle buche col letame perché i tedeschi avevano dei cani che fiutavano, e mi salvarono. Continuai fino alla liberazione a zoppicare.
Noi avevamo dei rapporti straordinari con la gente. Eravamo, se si può dire, molto ricchi, nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata redistribuita alle formazioni partigiane, soldi ci arrivavano anche dalla Fiat, poi anche gli alleati ci mandavano non armi ma soldi. Per cui il rapporto con contadini era buono perché noi pagavamo, non davamo i buoni. Molte volte erano generosi, non volevano essere pagati a volte; noi abbiamo passato un periodo molto buono dal punto di vista dell’alimentazione. Certo le condizioni erano durissime ma l’accoglienza da parte della popolazione fu una cosa straordinaria.
Quando scendemmo dalle montagne ci ponemmo il problema di che tipo di guerriglia fare. In pianura dovevamo inventare, e io, per carità non pretendo di essere uno stratega, fui uno dei fautori della guerra delle volanti – cioè prendemmo dei camion grossi, li facemmo corazzare, il padre di Sergio Pinin Farina ci fece corazzare dei camion con delle lastre di metallo, e quattro cinque di quei camion diventavano una volante, si facevano della azioni molto veloci soprattutto contro i posti di blocco, e ci si ritirava. Durante i rastrellamenti si nascondevano questi camion, li avevamo anche interrati con delle fatiche spaventose per fare delle buche enormi per questi camion. Facemmo delle azioni, prendemmo anche una piccola città, Chieri, neutralizzando con le volanti i presidi vicini. Per sbaglio nelle prime luci dell’alba io sparai un colpo di bazooka contro il campanile. La presa di Chieri, che prelude a Torino, fu interessante perché queste brigate nere erano gente feroce per cui trovammo nei sotterranei gente moribonda perché avevano messo fra le dita dei piedi del cotone imbevuto di qualcosa che bruciava e gli avevano bruciato i piedi, erano in cancrena… E decidemmo di fucilarli in piazza, e li fucilammo dopo un processo in cui il presidente della corte era un ufficiale dei carabinieri che poi diventò il comandante dei carabinieri a Roma.
I ricordi si affastellano, sono anche dolorosi perché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, diciassette anni, e avevano molta fiducia in me. Il rapporto di fiducia col comandante era importante, non perché fosse più valoroso o coraggioso ma perché ti dava un minimo di sicurezza in una guerra così insicura come quella della guerriglia. Io avevo l’esperienza della guerra di Russia ma ho avuto delle paure terribili. Tu non puoi avere paura: devi recitare, di fronte agli altri, perché se no li fai morire; la paura del comandante è la morte dei sottoposti. Tu devi recitare di sapere quello che vuoi, non avere incertezze; se mandi uno in un certo posto è perché sai che dev’essere così, questo l’avevo imparato in guerra in Russia.
E così arrivammo agli ultimi giorni tormentati della presa di Torino. Noi ci attestammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di attestarci prima sul Po per dividere le zone d’attacco. E mentre eravamo lì ricevemmo l’ordine di non entrare a Torino. Il colonnello Stevens della radio inglese aveva avuto informazioni dal comando generale dell’esercito inglese che c’era un raggruppamento di divisioni tedesche che stava puntando su Torino. Stevens diceva che se noi entravamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il sangue sarebbe corso in un modo spaventoso. Noi ci fermammo per qualche ora, meditammo – ma la città era insorta, già nelle fabbriche si combatteva. Allora Colaianni, che si chiamava Barbato come nome di battaglia, che era il comandante della zona attestata sul Po, disse: bisogna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che passarono il Po. Il comandante si incavolò come una bestia perché lasciai il posto per andare con loro, però rientrai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il sidecar. E furono giorni di combattimenti feroci.
Torino è l’unica città dove si è veramente combattuto tanto, e ci sono degli episodi che non sono stati forse raccontati. La cosa terribile di Torino è che c’erano i franchi tiratori, i quali non sparavano contro i partigiani: sparavano contro chiunque, era un’azione terroristica. E chi li organizzava era questo Solaro che fu poi impiccato allo stesso albero di Ignazio Vian che era un eroico partigiano nostro impiccato dai fascisti. Solaro fu preso non so come, e cominciò a dire che era un uomo di sinistra, che aveva aderito al partito fascista perché voleva che diventasse comunista… Il tribunale militare ne ordinò la morte. Mi ordinò di farlo impiccare. Fu incaricato un gruppo della 19ma, però andai anch’io. Ed è una cosa spaventosa, questo uomo distrutto che sa di essere ammazzato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore di giustizia, ti fa sempre male vedere un uomo morire in quelle condizioni. Io ero contrario alle impiccagioni, tanto è vero che ho chiesto se potevamo fucilarlo, mi dissero no; qualcuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che volevano restituire alla popolazione questa visione del colpevole, l’ organizzatore dei franchi tiratori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per salvarlo, mi sembrava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popolazione sopraffece lo schieramento di questi uomini della 19ma, lo impiccarono e impiccato lo portarono in giro per Torino fin quando lo buttarono nel fiume».

A cura di Alessandro Portelli (Il Manifesto del 13 febbraio 2015)

Una pausa che non guasta

costituzione_italianaDa varie parti viene posto un problema reale, vale a dire la necessità di una pausa di riflessione e di confronto sul delicatissimo tema della Costituzione e, per altri versi, della legge elettorale. In primo luogo, perché l’attuale Parlamento dovrebbe procedere con grande cautela sul problema della Costituzione, in quanto è stato eletto con altri obiettivi e della Carta fondamentale non si è praticamente parlato in campagna elettorale. E c’è anche chi ha proposto, con qualche fondamento, un’apposita Assemblea costituente. Tutto ciò sta avvenendo con vincoli, imposizioni disciplinari e “patti”, senza un confronto aperto. Infine, non va dimenticato che la legge elettorale con cui è stato eletto il Parlamento è stata fortemente messa in discussione dalla sentenza della Corte Costituzionale.
La stessa revisione della legge elettorale, strettamente intrecciata alle citate modifiche costituzionali in corso, viene portata avanti con una fretta del tutto destituita di fondamento, visto che la sua entrata in vigore è comunque rinviata al 1° luglio 2016, come afferma il testo approvato dal Senato. Se mancano sedici mesi, perché tanta fretta ?
Del resto, il cosiddetto patto del Nazareno è oggi in crisi e non si capisce perché si dovrebbe perseverare su scelte fortemente viziate da condizionamenti indubbiamente inaccettabili.
Il Parlamento farebbe bene -anche dopo le “baruffe” delle ultime ore – a fermarsi per un periodo e ad aprire una discussione ampia e democratica. Tra l’altro, i ripetuti «incidenti» in Aula non sono il sintomo di difficoltà reali? L’eventuale riforma della Costituzione va pensata guardando ai decenni a venire, come hanno fatto i padri costituenti.
Del resto, è l’anno del 70° della Liberazione dal nazifascismo. La Costituzione che ne derivò merita, dunque, un’attenzione e una considerazione ben diverse da quelle che oggi le è riservata. Si rischia seriamente di contraddire i principi e gli obiettivi della prima parte della Costituzione, che sono le fondamenta della stessa convivenza nazionale. Né va sottovalutato il rovesciamento dei ruoli a favore del Governo, che renderebbe di fatto subalterno e residuale il Parlamento.
Per questo, proponiamo una adeguata pausa di riflessione su modifiche costituzionali e legge elettorale, che consenta all’opinione pubblica di conoscere bene quanto sta accadendo e di esprimersi con piena consapevolezza attraverso le rappresentanze civili e sociali. Ricordiamoci che simile coinvolgimento non fu permesso, ad esempio, in occasione del cambiamento dell’articolo 81 della Costituzione che, nella versione approvata, ha ingabbiato le politiche di bilancio dell’Italia, al punto dari-sultare in evidente contraddizione, nel testo attuale, con le richieste di politiche di rilancio dell’occupazione e dell’economia che pure il Governo ha portato in sede europea.
Si rifletta con cura, allora, prima di mettere in questione gli aspetti «genetici» dell’identità nazionale. Lo chiedono autorevolissimi appelli. Ci uniamo. Una pausa non è tempo perduto, bensì ritrovato.

Alfiero Grandi e Vincenzo Vita (Il Manifesto del 14 febbraio 2015)

La dura condanna dell’astensione italiana sulla risoluzione ONU contro la glorificazione del nazi-fascismo

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L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato lo scorso 22 novembre una mozione presentata dalla Russia che condanna i tentativi di glorificazione dell’ideologia del nazismo e la conseguente negazione dei crimini di guerra commessi dalla Germania nazista.

La Risoluzione esprime “profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell’organizzazione “Waffen SS”, anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l’organizzazione di manifestazioni pubbliche”.

Il documento rileva anche l’aumento del numero di attacchi razzisti in tutto il mondo.

Una iniziativa giusta, si dirà, visti i continui rigurgiti fascisti e nazisti ai quali si assiste sempre più spesso in diversi quadranti del mondo.

E invece no. Perché solo 115 dei Paesi rappresentati alle Nazioni Unite hanno votato a favore della mozione, mentre in passato il numero dei sì era stato assai più consistente, ad esempio 130 due anni fa. Incredibilmente ben 55 delegati, tra i quali il Governo italiano, si sono astenuti e 3 rappresentanti – quelli degli Stati Uniti, Canada e Ucraina – hanno addirittura votato contro.

La Vicepresidente nazionale dell’ANPI, Carla Nespolo ha inviato il seguente comunicato stampa, condiviso dall’ANPI Provinciale di Alessandria.

” L’astensione del Governo Italiano sulla risoluzione dell’ ONU, approvata a maggioranza, che sancisce il rifiuto del neonazismo nel mondo e respinge “ogni forma di negazione dei crimini nazisti”, è un atto grave e inaccettabile.

L’Italia è il Paese in cui la Resistenza al fascismo e al nazismo è stata tra le più forti ed estese d’Europa.

La Costituzione Italiana è, per specifica decisione dei Padri Costituenti, una Costituzione Antifascista.

Tanti partigiani, tanti giovani e tante donne, hanno lottato, sofferto e in molti casi hanno lasciato la vita, per sconfiggere nazismo e fascismo.

Vergognosa è l’astensione dell’Italia!

Il fatto che tanti altri Paesi Europei si siano astenuti, rappresenta una svolta pericolosa e regressiva nella stessa politica estera europea, ma non giustifica in alcun modo la scelta del Governo Italiano che ancora una volta ha rinunciato ad un ruolo di protagonista in Europa.

La decisione degli Stati Uniti d’America, del Canada e dell’Ucraina, di votare contro tale risoluzione, se mai, dimostra un’inaccettabile subalternità europea ed italiana, alla volontà americana.

Nè vale a giustificare tale scelta, il fatto che tale risoluzione sia stata proposta dalla Russia.

Tra l’altro si tratta di un documento molto simile ad altri, presentati nel 2011e nel 2012, e sempre votati all’unanimità o quasi, dall’Assemblea dell’ONU.

Persino Israele, Paese notoriamente amico degli Stati Uniti, ha votato a favore del rifiuto dell’ideologia fascista e nazista.

L’Italia si è astenuta! E questo è inaccettabile e deplorevole.

L’ANPI eleva alta e forte la propria voce, contro tale voto, che umilia la nostra storia democratica e offende la Resistenza, i suoi protagonisti e i suoi valori.”

La famigerata foto. Chi manipola le fonti falsifica il presente e allontana la verità sulle #Foibe

foibe

Franc Žnidaršič

Janez Kranjc

Franc Škerbec

Feliks Žnidaršič

Edvard Škerbec

Sono i nomi di cinque abitanti di Dane fucilati dai fascisti e questa è la foto di quell’attimo. Qui viene immortalato quel momento che poi è stato usato in una maniera incredibile e offensiva per commemorare il giorno del ricordo. Fate una ricerca su “google immagini” con il termine “foibe” e vedrete quante di queste foto appariranno. Mistificazione allo stato puro. Anche Vespa l’ha fatta vedere, ma per sua sfortuna, in studio c’era Alessandra Kersevan.

Basta con l’uso sbagliato e truffaldino di questa foto, lo dobbiamo a Franc Žnidaršič, Janez Jranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec.

La sequenza fotografica

Il dossier sulle manipolazioni di questa foto

L’opinione di Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica e studioso di fotografia.

Approfondimento sul giorno del ricordo

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20437

Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica

hqdefaultQuando nel 2004 venne istituito il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata l’Italia della “seconda repubblica” stava confusamente cimentandosi, attraverso una convergenza bipartisan, nella riscrittura della storia nazionale per legge.
La narrazione del passato aveva da sempre rappresentato un terreno di scontro politico tra i partiti e l’uso pubblico della storia in chiave revisionista aveva segnato non solo la crisi del paradigma fondativo della democrazia, l’antifascismo, ma soprattutto la piena legittimazione di una “dualità memoriale”, quella dei vinti equiparata a quella dei vincitori, nella quale le ragioni e i torti delle parti in conflitto venivano portate a sintesi da una semplificazione di linguaggi, gesti simbolici ed elementi di fatto che lambivano la parificazione di vittime e carnefici.
L’istituzione del “Giorno del ricordo”, impropriamente indicato nella ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947 visto che le violenze delle foibe si verificarono nel settembre ’43 e poi nel maggio ’45, si collocò come fattore di “riequilibrio” memoriale tra la sinistra e la destra come se la storia fosse una coperta con cui avvolgere la propria legittimità politica anziché faticosa verifica di fatti e processi complessi.
La riscrittura “condivisa” delle vicende storiche italiane comportò l’oblio su questioni centrali della nostra identità nazionale come il consenso al fascismo, le leggi razziali o i crimini di guerra compiuti dalle truppe del regio esercito, e rimasti impuniti, in Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss e nelle colonie africane.
Le ragioni politiche di quello sciagurato “patto sulla memoria” coincisero con le esigenze dei partiti della seconda repubblica che riaffermarono su quel terreno la rispettiva legittimità a guidare il paese nella democrazia dell’alternanza.
Tutto ciò all’alba della nascente “terza repubblica”, quella senza Senato elettivo e imperniata sul Cancellierato forte, potrebbe apparire addirittura superato. Il fattore storico-memoriale sembra aver perduto da un lato la centralità valoriale della legittimità democratica, rappresentata dall’alterità fascismo-dittatura; antifascismo-libertà, e dall’altro quel significato generale di lettura e senso del rapporto tra passato e presente in grado di connettere tra loro vissuti e vicende generazionali tanto distanti a settant’anni dalla Liberazione.
In questo quadro, con la crisi della rappresentanza acuita da quella economica, il conflitto sulla memoria cambia forma e tende a risolversi in un complesso unificante quanto identitariamente indefinito che forse meglio di ogni altra cosa si identifica con la nozione del “partito della nazione”. L’oblio sui crimini di guerra italiani piuttosto che le strumentalizzazioni politiche delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe sembrano perdere la loro stessa alterità, inglobate da una narrazione a-conflittuale, e tendenzialmente vittimaria, che tutto tiene insieme e dunque tutto equipara in modo indolore.
Così, aperto il settennato con la visita alle Fosse Ardeatine, il neo Presidente della Repubblica celebra pochi giorni dopo il “Giorno del ricordo” e l’immagine complessiva appare sempre più sfocata in un quadro della rappresentazione della storia patria che abbandonando la rielaborazione critica del passato si concentra sulla centralità di un presente senza storia.

Davide Conti, Il Manifesto del 10 febbraio 2015

Tutta la passione di un comandante

Omniroma_Image__0022_040115_MGZOOMMassimo Rendina, comandante partigiano, non c’è più. Aveva 95 anni (era nato a Venezia nel 1920), forse era nell’ordine delle cose, ma è difficile pensare a quello che resta dell’antifascismo senza di lui.
È stato una figura carismatica, un grande cuore e una straordinaria intelligenza, capace di appassionare gli studenti in tante scuole di Roma con la sua eloquenza antica e coinvolgente, con la tangibile passione per la libertà e la giustizia che lo animavano.
Presidente dell’Anpi regionale del Lazio, era stata la sua ostinazione a ottenere da Veltroni la creazione della Casa della Memoria a Roma. Ne era stato a lungo il principale animatore e la vera ispirazione: aveva la visione di un punto di riferimento internazionale, e con la sua competenza di uomo della comunicazione si adoperava (purtroppo con successo limitato) affinché disponesse delle più avanzate tecnologie per collegarsi con il mondo intero.
Ogni conversazione con lui era intessuta di ricordi dei suoi rapporti con figure importanti della storia, da Aldo Moro a papa Wojtyla, sempre raccontati con una prospettiva insolita, piena di rispetto ma mai subalterna.
La storia della sua vita è un filo che attraversa la storia d’Italia (una lunga intervista che facemmo alla Casa della Memoria bastò solo a raccontarne una metà; ne pubblicheremo una parte sul «manifesto» nei prossimi giorni).
Giornalista prima della guerra, poi ufficiale dei bersaglieri in Russia, ne torna ferito e aderisce subito dopo l’8 settembre alla Resistenza, nelle brigate Garibaldi con cui entrerà a Torino liberata il 25 aprile. Nel dopoguerra, lavora a «l’Unità», poi entra alla Rai, dirige il telegiornale, viene cacciato da Tambroni perché reo di antifascismo, e reintegrato da Moro. Continuerà a scrivere su giornali e riviste, e sarà autore di due libri utilissimi: Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995) e il prezioso Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995).
Claudio Costa ha curato nel 2011 un film che porta il suo nome di battaglia, «Comandante Max», in cui Massimo Rendina racconta i suoi anni di guerra, in Russia e nella Resistenza.
Quando finalmente ci mettemmo seduti per un’intervista vera e propria, parlammo a lungo dei rapporti fra cristianesimo e comunismo. Era un cattolico convinto, restato sempre schierato a sinistra, in modo indipendente, critico, e proprio per questo incrollabile.
Per tutta la vita, ha continuato ad aderire non ai partiti, ma ai principi.
Me lo ricordo dopo un 25 aprile particolarmente difficile, a Porta San Paolo, quando Renata Polverini, allora presidente della Regione Lazio, ebbe la sfacciataggine di salire sul palco e alcuni dei partecipanti pensarono di punirla tirandole uova o qualcosa del genere – e colpirono Massimo invece. Lui questo gesto lo disapprovava e diceva: è quasi un fatto simbolico, certe forme di protesta, invece di colpire il bersaglio reazionario, finiscono per fare male a noi. Forse aveva ragione, forse no; ma ci stava male.

Alessandro Portelli (Il Manifesto del 10/2/15)

http://youtu.be/D5uXc4zCFE0?list=PL60F55FF1BE69F3D7

Recensione di “Operazione foibe: fra storia e mito” di Wu Ming

seli5b19Un libro fon-da-men-ta-le, che deve circolare, che va diffuso con ogni mezzo necessario e letto dal maggior numero di persone possibile. La lettura spalanca il mondo davanti agli occhi. Questo saggio è uno strumento di lotta, è un’ascia di guerra dissepolta, alfine.
Claudia Cernigoi, dopo anni di ricerche, ha riscritto e ampliato la sua opera del ’97, Operazione “Foibe” a Trieste. Ora il libro parla anche dell’Istria e si chiama Operazione “Foibe” tra storia e mito, lo ha pubblicato la Kappa Vu di Udine nella collana “Resistenza storica”. Trecento pagine fitte e documentatissime, costa sedici euro e sono ben spesi. Mooolto ben spesi.
Cernigoi ha passato a pettine tutti gli archivi consultabili di qua e di là del confine. Il suo libro smantella con rara e lucida spietatezza le dicerie, le falsificazioni, le leggende contemporanee e le buffonate che, modellate dalla propaganda nazionalista sul confine orientale, si sono fatte strada nell’opinione pubblica senza mai essere messe in questione, fino a spingere il Parlamento a istituire una giornata commemorativa. Nel mentre, si è realizzata una fiction campionessa d’ascolti basandosi su fandonie che i vari “foibologi” hanno preso di pacca da “Questo è il conto!”, opuscolo in lingua italiana diffuso dai nazisti sul Litorale Adriatico, subito dopo i venti giorni del “potere popolare”, nel 1943.
Operazione “Foibe” tra storia e mito deve diventare IL testo di riferimento per chi voglia occuparsi di “foibe” in modo scientifico, e non sto parlando di geologi.
Cernigoi dimostra che le liste degli “infoibati” sono state oggetto di pesanti manipolazioni. In quegli elenchi, gli pseudo-storici delle “foibe” (molti dei quali neofascisti: chi proveniente da “Ordine Nuovo”, chi coinvolto nel golpe Borghese etc.) hanno infilato tutti i dispersi, compresa gente che nel frattempo era tornata a casa, non con le gambe in avanti o dentro un’urna bensì viva e vegeta. I “foibologi” hanno aggiunto anche i nominativi di partigiani e civili uccisi dai nazifascisti. Come spiega molto bene l’autrice, l’infoibamento fu teorizzato, evocato, minacciato dal nazionalismo italiano fin dall’inizio del secolo, per esser poi messo in pratica durante l’occupazione nazifascista. Va aggiunto che molti nomi di “infoibati” sono doppi o addirittura tripli, sovente la stessa persona figura “infoibata” in posti diversi, e in un caso tre nominativi di presunti “infoibatori” (Malvagi Partigiani Slavo-Comunisti) figurano pure nella lista dei relativi “infoibati”! Della serie: se la cantano e se la ridono.
Una lista in particolare, quella degli “infoibati” (in realtò comprensiva di tutti i dispersi) della provincia di Trieste, dopo attento esame registra una percentuale d’errore superiore al 65%. Su 1458 nomi, ben 961 si rivelano sbagliati!
Tutti gli altri caduti (e nemmeno questi furono tutti “infoibati”) erano torturatori della Milizia di Difesa Territoriale o della X Mas, massacratori vari, collaborazionisti, delatori, etc. Di molti di costoro Cernigoi fornisce il cursus honorum, ricavato da documenti e fonti d’epoca. A conti fatti, viene smentita la propaganda sugli ammazzati “solo perché italiani”. I motivi erano ben altri. Il “feeling” non era antitaliano, ma antifascista.
Quanto alla soppressione del CLN di Trieste da parte dei “titini”, spesso citata come esempio di politica fratricida tra nemici del fascismo, Cernigoi spiega in modo chiaro che – a causa della repressione tedesca – in città si susseguirono ben tre CLN, molto diversi l’uno dall’altro, l’ultimo dei quali composto da loschi figuri di destra, anche ex-X Mas. Col paravento dell’antifascismo, costoro cercavano addirittura alleanze con residui del regime fascista in funzione nazionalista e anti-slava, inoltre preparavano – e in alcuni casi eseguirono – attentati e azioni armate contro i partigiani di Tito. Risulta abbastanza normale che questi ultimi abbiano deciso di arrestarli, portarli a Lubiana e colà processarli.
Per quanto riguarda i finti “infoibati”, è particolarmente buffo (si fa per dire) il caso di Remigio Rebez, “il boia di Palmanova”, tenente della X Mas e feroce torturatore. Condannato a morte dopo la Liberazione, gode dell’amnistia di Togliatti (o meglio, della sua interpretazione estensiva da parte dei magistrati) e si trasferisce a Napoli, dove muore addirittura nel 1996. La stampa triestina dà notizia del suo decesso, gli dedica distici elegiaci, ma si guarda bene dal dire ai lettori che il suo nome figura sulle liste degli “infoibati” fornite da vari storici di destra come Papo, Pirina etc.
Un altro esempio di chi e cosa si possa trovare in quegli elenchi: viene presentato come “vittima degli slavi” tale Eugenio Serbo, “capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14/12/44 a Leitmeritz”.
Lapidaria, Cernigoi: “Leitmeritz è però il nome tedesco di Litomerice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin, praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificato ‘Slavi’ nominati da Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco”.
Anche soffiando e gonfiando e gonfiandosi, come la rana che vuol competere col bue, i “foibologi” non sono mai riusciti a presentare elenchi plausibili. L’ammontare complessivo delle “vittime” non superebbe le 500 persone tra Venezia Giulia e Litorale Adriatico. Il resto (“decine di migliaia di vittime” etc.) è fantasy, non c’è nessun riscontro documentale. L’anno scorso il ministro Gasparri parlò addirittura di “milioni di infoibati”, ma la verità è che siamo ben lontani da quel “genocidio per mano rossa” cercato disperamente dalla destra per contrapporlo alla Shoah e poter ricorrere al “benaltrismo” ogni volta che si parla di leggi razziali, Salò, stragi etc.
Cernigoi non nega che vi siano state vendette personali ma, ricostruendo il contesto e riportando alla luce materiali d’archivio, dimostra che si trattò di azioni individuali e sporadiche, non certo di una politica di sterminio o “pulizia etnica” da parte dei partigiani jugoslavi.
Altre truffe sono i resoconti degli scavi avvenuti nel dopoguerra, a opera di società speleologiche che stavano alla destra fascista come il negozio di fiori sta al Gruppo TNT. Più ci si allontana nel tempo, più si moltiplicano i morti trovati nella data foiba. Se, putacaso, nel ’46 erano otto, si può star sicuri che oggi si dice che erano ottanta, e così via. La stessa foiba di Basovizza, divenuta monumento nazionale e frequente location di picchetti e commemorazioni, è più un oggetto di propaganda che di seri studi storici. Non è stato dimostrato in alcun modo che in fondo a quella cavità carsica sia finito “un numero rilevante di vittime, civili e militari, in maggioranza italiani, uccisi ed ivi fatti precipitare”. Alla sola Basovizza, Cernigoi dedica un capitolo che pare la messa in scena di una lunga, macabra pochade.
La “tragedia delle foibe” è una truffa ideologica, e la cosa peggiore è che studiosi come Cernigoi e Sandi Volk (autore di un altro saggio importante e recensituro, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, 2005) sono praticamente i soli a confutarla con gli strumenti della storiografia. La propaganda di destra viene accettata a cresta bassa anche a “sinistra”, Bertinotti compreso. Tutt’al più si tratteggia vagamente il contesto, si fanno dei distinguo, gli eredi del PCI se ne chiamano fuori dicendo “Noi coi titini non c’entriamo niente” etc.
Invece andrebbe smantellato tutto, ma proprio tutto, e senza alcun indugio.

Wu Ming, 2005