La famigerata foto. Chi manipola le fonti falsifica il presente e allontana la verità sulle #Foibe

foibe

Franc Žnidaršič

Janez Kranjc

Franc Škerbec

Feliks Žnidaršič

Edvard Škerbec

Sono i nomi di cinque abitanti di Dane fucilati dai fascisti e questa è la foto di quell’attimo. Qui viene immortalato quel momento che poi è stato usato in una maniera incredibile e offensiva per commemorare il giorno del ricordo. Fate una ricerca su “google immagini” con il termine “foibe” e vedrete quante di queste foto appariranno. Mistificazione allo stato puro. Anche Vespa l’ha fatta vedere, ma per sua sfortuna, in studio c’era Alessandra Kersevan.

Basta con l’uso sbagliato e truffaldino di questa foto, lo dobbiamo a Franc Žnidaršič, Janez Jranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec.

La sequenza fotografica

Il dossier sulle manipolazioni di questa foto

L’opinione di Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica e studioso di fotografia.

Approfondimento sul giorno del ricordo

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20437

Il giorno del ricordo a uso e consumo della Terza Repubblica

hqdefaultQuando nel 2004 venne istituito il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata l’Italia della “seconda repubblica” stava confusamente cimentandosi, attraverso una convergenza bipartisan, nella riscrittura della storia nazionale per legge.
La narrazione del passato aveva da sempre rappresentato un terreno di scontro politico tra i partiti e l’uso pubblico della storia in chiave revisionista aveva segnato non solo la crisi del paradigma fondativo della democrazia, l’antifascismo, ma soprattutto la piena legittimazione di una “dualità memoriale”, quella dei vinti equiparata a quella dei vincitori, nella quale le ragioni e i torti delle parti in conflitto venivano portate a sintesi da una semplificazione di linguaggi, gesti simbolici ed elementi di fatto che lambivano la parificazione di vittime e carnefici.
L’istituzione del “Giorno del ricordo”, impropriamente indicato nella ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947 visto che le violenze delle foibe si verificarono nel settembre ’43 e poi nel maggio ’45, si collocò come fattore di “riequilibrio” memoriale tra la sinistra e la destra come se la storia fosse una coperta con cui avvolgere la propria legittimità politica anziché faticosa verifica di fatti e processi complessi.
La riscrittura “condivisa” delle vicende storiche italiane comportò l’oblio su questioni centrali della nostra identità nazionale come il consenso al fascismo, le leggi razziali o i crimini di guerra compiuti dalle truppe del regio esercito, e rimasti impuniti, in Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss e nelle colonie africane.
Le ragioni politiche di quello sciagurato “patto sulla memoria” coincisero con le esigenze dei partiti della seconda repubblica che riaffermarono su quel terreno la rispettiva legittimità a guidare il paese nella democrazia dell’alternanza.
Tutto ciò all’alba della nascente “terza repubblica”, quella senza Senato elettivo e imperniata sul Cancellierato forte, potrebbe apparire addirittura superato. Il fattore storico-memoriale sembra aver perduto da un lato la centralità valoriale della legittimità democratica, rappresentata dall’alterità fascismo-dittatura; antifascismo-libertà, e dall’altro quel significato generale di lettura e senso del rapporto tra passato e presente in grado di connettere tra loro vissuti e vicende generazionali tanto distanti a settant’anni dalla Liberazione.
In questo quadro, con la crisi della rappresentanza acuita da quella economica, il conflitto sulla memoria cambia forma e tende a risolversi in un complesso unificante quanto identitariamente indefinito che forse meglio di ogni altra cosa si identifica con la nozione del “partito della nazione”. L’oblio sui crimini di guerra italiani piuttosto che le strumentalizzazioni politiche delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe sembrano perdere la loro stessa alterità, inglobate da una narrazione a-conflittuale, e tendenzialmente vittimaria, che tutto tiene insieme e dunque tutto equipara in modo indolore.
Così, aperto il settennato con la visita alle Fosse Ardeatine, il neo Presidente della Repubblica celebra pochi giorni dopo il “Giorno del ricordo” e l’immagine complessiva appare sempre più sfocata in un quadro della rappresentazione della storia patria che abbandonando la rielaborazione critica del passato si concentra sulla centralità di un presente senza storia.

Davide Conti, Il Manifesto del 10 febbraio 2015

Marcello Basso: intervento al Senato del 16 marzo 2004 (Istituzione della giornata del Ricordo)

Marcello Basso
Marcello Basso

Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, intervengo sul provvedimento “Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milosevic; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.

Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di riaprire qualche libro di storia e di riascoltare le versioni ed i racconti di alcuni rappresentanti dell’Associazione nazionale partigiani. Da questo punto di vista è senz’altro utile – lo suggerisco – la lettura dei “Quaderni della Resistenza” pubblicati da parte del Comitato regionale dell’ANPI del Friuli-Venezia Giulia.

La memoria storica va sottratta alla speculazione. Quando parliamo di seconda Guerra mondiale, di fascismo e di Resistenza vi è un’unica storia. Questa storia riguarda tutti gli italiani ma – direi – anche tutti gli europei. È una storia che non può essere né ignorata né oltraggiata. È incontestabile, allora, che la Germania nazista e l’Italia fascista, scatenando la seconda Guerra mondiale, si macchiarono della responsabilità di causare all’umanità oltre 50 milioni di morti, la metà dei quali, circa 25 milioni, civili.

Tra il 1940 e il 1945 si verificò un vero e proprio scontro di civiltà. La libertà e la democrazia alla fine prevalsero, ma il prezzo pagato fu senz’altro immane. Né la “riconciliazione” di cui oggi si parla può comportare il riconoscimento di valori comuni fra chi combatté per restituire il mondo alla libertà e alla democrazia e chi propugnò la cosiddetta civiltà dei cimiteri, dei reticolati e del cono d’ombra dell’Olocausto.

A quasi sessant’anni di distanza, guardiamo con sentimento di cristiana pietà a tutti i morti. Di fronte alla morte, il giudizio si interrompe! La morte rende tutti uguali! Ma fermo e dirimente rimane il giudizio sulle vite consumate. Quelle vite possiamo continuare a giudicare: le vite per la libertà e le vite per il regime. “Tutti uguali davanti alla morte, non davanti alla storia”, scrisse Italo Calvino.

E ancora, possiamo interrogarci non sulle ragioni, ma sulle motivazioni di chi quasi per un soffio o per un impennamento dell’anima, scelse, giovanissimo, di stare dall’altra parte della barricata. Rispondere a queste motivazioni significa trovare una spiegazione storica, non una giustificazione. E comunque nessuna revisione storica potrà mai cancellare gli orrori di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e della Risiera di San Sabba. Nessuna revisione storica potrà mai cancellare i campi di sterminio di Dachau, di Auschwitz e le tante altre stazioni di un’interminabile via crucis di dolore e di vittime innocenti.

La nuova Europa, della quale l’Italia è parte importante e integrante, e che andrà via via comprendendo gran parte dei Paesi dell’Est europeo, nasce dalla Resistenza e dalla liberazione dal nazismo e dal fascismo. Dobbiamo avvertire in modo forte la necessità di ravvivare il ricordo di una storia di cui si rischia di perdere traccia.

Ai giovani andrebbe spiegato che c’è una differenza sostanziale tra dittatura e democrazia e che la forza di una Nazione come la nostra, ma direi la forza dell’intera Europa, sta proprio nella sua memoria storica, non come eredità di un odio e di una vendetta, ma come memoria costitutiva della sua vita civile e politica. L’Europa unita non potrà permettere che rinascano gli orrori del passato.

La nuova Europa ha davanti a sé grosse responsabilità: i problemi enormi di interi popoli che devono riorganizzare il loro futuro sulla democrazia e sulla libertà, affermando il valore universale della pace e della convivenza tra gli uomini come attuale e vitale esigenza, ricostruendo una cultura che sappia ascoltare e che sia in grado di considerare le diversità come una ricchezza.

Nelle zone della frontiera orientale, nelle terre istriane e dalmate, per secoli italiani e slavi hanno vissuto in pace, senza violenza alcuna. L’equilibrio tra le diverse etnie fu mantenuto prima, e per diversi secoli, dalla Repubblica di Venezia, successivamente dalla stessa Austria.

A rompere questo equilibrio è stato il nazionalismo fascista, che introdusse ogni sorta di violenza, compreso un vero e proprio genocidio culturale. Si può dire che la spirale d’odio fu innescata dal discorso di Mussolini a Pola, già nel 1920: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.

Fu così! All’avvento del fascismo seguì una politica di “snazionalizzazione” nei confronti di oltre mezzo milione di slavi incorporati nel Regno d’Italia dopo la prima Guerra mondiale. Il fascismo proibì a queste popolazioni di parlare la loro lingua e di stampare i propri giornali; si chiusero le loro scuole, si sciolsero le loro organizzazioni culturali, sportive e ricreative; si bruciarono le loro sedi.

Si volle, in questo modo, italianizzare e fascistizzare tutta la Venezia Giulia, eliminando ogni espressione politica e culturale slava. Si italianizzarono persino i cognomi. Si trattò di una sistematica opera di colonizzazione dei territori slavi della Venezia Giulia; molti contadini slavi furono cacciati e le loro terre affidate a contadini italiani. Il tribunale speciale emanò sentenze di condanna a morte anche nei confronti degli sloveni, colpevoli – si dice – di cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni italiane.

Il 5 aprile 1941 l’Italia dichiarò guerra al Regno di Iugoslavia. Fu un’aggressione, come si sa, assolutamente immotivata. La Iugoslavia soccombette alle 56 divisioni italiane, tedesche, ungheresi e bulgare. Fu l’inizio di una violenza inaudita, di massacri di civili, di fucilazioni di partigiani. Lo Stato iugoslavo fu smembrato e diviso tra la Germania e l’Italia. In Croazia il Governo fu affidato ad un fascista croato, Ante Pavelic, e agli ustascia. Vennero armati cetnici e ustascia, che iniziarono una lunga lotta intestina che causò quasi 800.000 morti.

Iniziarono anche le deportazioni di massa: decine di migliaia di civili, vecchi, donne e bambini, vennero rinchiusi in tanti lager gestiti da italiani, come quello di Arbe, l’attuale Rab. È questa un’altra pagina vergognosa dell’occupazione italiana della Slovenia che contribuì ad allargare la spirale d’odio.

Dopo l’8 settembre il Friuli e la Venezia Giulia escono dalla sovranità italiana per essere affidati a un commissario nazista. Con ordinanza di Hitler si costituì la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana; territori destinati a diventare una marca del Terzo Reich tedesco, qualora la Germania avesse vinto la guerra.

Le formazioni fasciste della Repubblica Sociale vennero usate per l’attività poliziesca, delatoria e antipartigiana sotto il comando delle SS. Questo fu il vero ruolo dei fascisti, del Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” e dei battaglioni della X MAS, tanto cari all’onorevole Menia da citarli – come dicevo – nella relazione al provvedimento in esame!

La resistenza iugoslava agli aggressori fascisti e nazisti iniziò già nel luglio del 1941; come si sa, fu guidata dai comunisti di Tito unitamente alle diverse espressioni del nazionalismo iugoslavo. Si fece valere l’equazione “italiano uguale fascista”, equazione che le migliaia di italiani che morirono combattendo al fianco delle formazioni partigiane slave riuscirono solo in parte a mettere in discussione. Del resto, tale equazione era stata introdotta e diffusa proprio da Mussolini.

Qui va ricercata la ragione per cui le foibe del 1943 in Istria furono la tomba anche di qualche innocente che aveva il torto di essere italiano.

Dopo l’8 settembre molte regioni iugoslave insorsero contro gli invasori perpetrando persecuzioni particolarmente violente. Le vittime furono, a volte, semplici impiegati comunali, simbolo del potere dominante italiano, commercianti e piccoli gerarchi locali, sacrificate sull’altare di vendette personali che poco c’entravano con la politica e la guerra.

Tristemente esemplare – lo voglio ricordare – è l’uccisione della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole unicamente di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. L’allora rettore dell’università di Padova, il grande antifascista professor Concetto Marchesi, volle apporre una targa in ricordo della studentessa presso la sua università.

È indubbio che tra gli insorti vi fu anche la presenza di autentici criminali. La vicenda delle foibe è stata, sicuramente, una grande tragedia. È comunque da rifiutarsi, perché aberrante, un accostamento tra foibe da una parte e Shoah dall’altra che, con la Risiera di San Sabba, visse sul confine orientale una pagina particolarmente drammatica. Quest’ultima fu il frutto razionale e scientifico dell’ideologia nazista, la stessa che produsse Auschwitz, Mathausen e Dachau.

I partigiani slavi e italiani non hanno mai avuto tra le loro finalità la purezza della razza, così come risulta fra l’altro dalla relazione finale della commissione mista italo-slovena che recentemente ha concluso i propri lavori.

Diversamente i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati inferiori: ebrei, slavi, zingari. Stessa sorte era ovviamente riservata agli oppositori politici. Il metodo adottato dai nazisti era il ricorso agli eccidi di massa, alle stragi, alle rappresaglie contro ostaggi innocenti. Ecco allora che usare le foibe come contraltare dell’Olocausto per dimostrare che tutti sono stati ugualmente colpevoli e operare, così, una indiretta rivalutazione del fascismo è un esercizio da evitarsi.

Rimane la gravità degli infoibamenti anche come conseguenza dello scoppio di odi e rancori collettivi a lungo repressi.

Alle foibe del 1943 seguirono le foibe dell’aprile-maggio 1945. Anche in questo caso vi furono coinvolti non solo fascisti e nazisti, ma altresì persone che con il fascismo non c’entravano: è ragionevole pensare, allora, che qualcuno c’entrasse in quanto italiano. Fu sicuramente la conseguenza dell’odio che permeava il confine orientale; fu la conseguenza dell’imbarbarimento dei costumi, dello stravolgimento dei valori, degli odi nazionali.

Nelle foibe finirono anche esponenti del CLN che si opponevano all’annessione dei territori italiani di confine da parte di Tito, il quale, sul finire del conflitto, assunse l’antico comportamento di tutti i vincitori di guerra: annettere parti, anche consistenti, del territorio degli sconfitti, proprio nella logica del nazionalismo espansionistico.

E, infine, è possibile collegare le foibe con l’esodo, è possibile, cioè, considerare l’esodo come la conseguenza della paura delle foibe?

Un illustre istriano, il professor Diego de Castro, autore di due pubblicazioni (“La questione di Trieste” e “Memorie di un novantenne”) lo esclude. Se si fosse trattato di pulizia etnica i morti sarebbero dovuti ammontare a centinaia di migliaia. Le motivazioni erano, piuttosto, politiche e non etniche.

Si può dire, in riferimento all’esodo, che solo le persone fuggite nel maggio 1945 lo fecero per paura dell’infoibamento: si trattava di persone compromesse con i fascisti e con i nazisti. Sicuramente i grandi esodi, da Fiume nel 1946 e da Pola nel 1947, non sono ascrivibili a questa paura.

Non è certamente ascrivibile alla paura delle foibe l’ultimo esodo, quello del 1955, conseguente all’Intesa di Londra dell’ottobre 1954 che definì la spartizione del territorio libero: Trieste all’Italia e la zona B, comprendente fra le altre le cittadine di Pirano, Umago, Porto Rose, Isola e Capodistria alla Iugoslavia. L’esodo fu la conseguenza di una precisa scelta di libertà: vivere sotto il regime comunista di Tito, con un confine chiuso e una frontiera invalicabile, o, invece, scegliere l’Italia.

Si trattava di optare per la cittadinanza italiana o per quella iugoslava. Per la grande maggioranza degli istriani era impensabile vivere separati da Trieste, considerata la vera capitale dell’Istria.

Questa è stata la vera tragedia dell’Istria, assieme, ovviamente, a quella degli infoibati, che vanno ricordati con pietà e ai familiari dei quali è doveroso conferire una medaglia in ricordo, escludendo coloro i quali hanno compiuto efferati delitti contro la persona e hanno giurato fedeltà e volontaria sudditanza al supremo commissario del Terzo Reich.

L’esodo è stato un’immane tragedia umana. Una ferita che, così come è stato scritto, inciderà fino alla morte nell’animo di tutti coloro i quali abbandonarono la propria terra. Per questo l’abbandono non rappresentò l’ultimo momento del dolore, ma soltanto il suo inizio.

Una tragedia, dicevo, immane che, come sostiene Mario Bonifacio, istriano, classe 1928, antifascista, andatosene con la famiglia da Pirano nel 1955 e che oggi vive a Venezia ed è attivo nell’Istituto storico della Resistenza di quella città, determinò la scomparsa dei cosiddetti istro-veneti, la popolazione veramente autoctona dell’Istria, almeno da 2.500 anni. Si tratta dei discendenti degli Istri, affini ai Venetici e, al pari degli altri veneti, culturalmente latinizzati da Aquileia.

Questa è storia! Io voterò questo provvedimento! Lo farò perché ritengo giusto ricordare chi è morto in modo orrendo nelle profondità delle foibe carsiche. Lo farò perché ritengo sia inderogabile ricordare il dramma dell’esodo istriano-dalmata; vorrò farlo, però, nella chiarezza più assoluta.

Delle nefandezze e delle violenze perpetrate anche dall’esercito italiano in Iugoslavia mi ha parlato a lungo un artigliere, mio padre. La sua divisione, nel Sud della Iugoslavia, dopo l’8 settembre 1943, si riscattò combattendo non contro, ma assieme alle partigiane e ai partigiani di Tito; non facendosi prendere dai tedeschi, ma facendo prigioniera un’intera divisione tedesca. Poi, gli artiglieri italiani si imbarcarono per Bari e da lì, assieme agli Alleati, parteciparono alla liberazione totale dell’Italia. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).

Sloveni e croati, genocidio ancora avvolto dal silenzio

Il cimitero di Rab
Il cimitero di Rab

Il Giorno del ricordo: nessun accenno ai campi e agli aguzzini del fascismo. Da Arbe a Gonars al Veneto e alla Toscana: migliaia di deportati e di vittime (di MARIO QUAIA )

Per loro non c’è spazio nel calendario. Sono stati privati sia della memoria che del perdono. Sono i morti – qualche migliaio – nei campi di concentramento italiani. A opera degli aguzzini del Duce. La maggior parte erano sloveni e croati, ma tra le vittime si contano anche ebrei e zingari. Moltissimi i bambini. Di loro nessuno ne vuole parlare. Forse erano scomodi anche per la propaganda politica che da sempre ha accompagnato le campagne elettorali su queste terre di confine. Il tema è sempre stato ben delimitato: le violenze titine e le foibe. Su tutto il resto, cioè gli antefatti, soltanto oblio.
Eppure, a distanza di settantanni, la documentazione è imponente. Gli archivi hanno restituito rapporti, statistiche, verbali, testimonianze e perfino fotografie. Il giudizio degli storici è pressoché unanime: si è trattato di veri e propri lager con efferatezze inaudite. Il loro parere, semmai, diverge sul numero dei campi e sul numero degli internati.
Secondo Fabio Galluccio, il numero dei diversi luoghi di detenzione (campi di concentramento, campi per l’internamento militare, colonie di confino, campi per l’internamento civile) era 200; Luciano Casali ne conta 259. A giudizio dello storico Carlo Spartaco Capogreco (I campi del Duce, Einaudi) gli sloveni e i croati deportati dalla primavera del 1942 all’8 settembre 1943 furono non meno di 25 mila.
Domenica è stato celebrato il Giorno del ricordo per rendere un doveroso omaggio alle vittime delle foibe, istituito dal presidente Carlo Azeglio Ciampi e sostenuto dal presidente Giorgio Napolitano. Una scelta felice e condivisa dopo gli anni dell’oblio, della contrapposizione ideologica, delle accuse e dei rancori. E sulle recenti e numerose manifestazioni si è fatto leva sui sentimenti di pietà, sulla riappacificazione e sulla verità quale monito per il futuro.
Sui lager, però, ancora silenzio. Tombale. Perché? Perché negare ancora? Perché nascondere ancora le nostre responsabilità quando anche la Germania, per bocca del cancelliere Angela Merkel, ha sostenuto che «la nostra responsabilità nei crimini nazisti è perenne?». E la nostra responsabilità? Sulle torrette di guardia, nei nostri campi di concentramento, c’eravamo noi “italiani brava gente”.
Ad Arbe (Rab), nella provincia di Fiume; a Melada (Molat), nel Governatorato della Dalmazia; a Gonars (Udine), a Monigo in provincia di Treviso; a Chiesanuova in provincia di Padova; a Colfiorito, in provincia di Perugia e a Renicci, in provincia di Arezzo. È in questi luoghi che si è compiuto un altro genocidio. Settemila sloveni non tornarono più e i croati furono più numerosi.
Sull’isola di Arbe il lager più importante. I prigionieri alloggiavano in tende all’interno di quattro campi distinti, più un cimitero dove finivano i tanti che morivano per fame e freddo. Su circa 7.500 internati i morti accertati furono 1.435, tra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai dieci anni, con un tasso di mortalità superiore a quello registrato a Buchenwald.
La responsabilità di tutta l’organizzazione era affidata al comandante Mario Rabotti, di cui è trapelata dagli archivi una sua celebre frase: «Qui si ammazza troppo poco». Il campo era affidato alle dirette responsabilità del colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, «un mostro dalle sembianze umane», come si legge nel sito della comunità ebraica di Milano: «Sadico e fascista fanatico portava sempre con sé una frusta che utilizzava volentieri». A futura memoria la testimonianza di padre Odorico Badurina, ospite nel convento di Kampor sull’isola: «Gli italiani volevano distruggere gli internati con la fame».
Su quel periodo terribile e buio ha dedicato molte ricerche Alessandra Kersevan, storica e insegnante di questa regione, che ha poi dato alle stampe Lager italiani (Nutrimenti). Fonte principale, gli archivi della Prefettura di Udine dove, in quegli anni, ha operato l’ufficio censura dell’esercito di Mussolini. Documenti ma soprattutto testimonianze. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
«Non c’era niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente»; “Ad Arbe dormivamo sulla paglia, come le bestie. I bambini morivano di fame, nascondevamo i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri». Del resto, gli ordini erano ordini.
Cosi Benito Mussolini, durante un incontro con i suoi generali che si tenne a Gorizia alla fine del luglio ’42: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria va interrotta. È incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. Questa popolazione (sloveni e croati, ndr) non ci amerà mai».
A distanza di settant’anni che non sia il caso di chiedere scusa? Ricomporre anche questa pagina di storia strappata? E andare in delegazione a Rab e deporre una corona di fiori?

Il cattivo tedesco e il bravo italiano

coverfocardiPremessa – di Wu Ming 1

Ecco un’occasione da cogliere al volo.

Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…
Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere – l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.
Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.
[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.
Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l’elargizione non si sono costituite parte civile.]
Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.
Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:
– la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;
– l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;
– la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);
– i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;
– l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;
– la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.
E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:http://youtu.be/2IlB7IP4hys

Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).

A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:

«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»

Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.
Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.

(dal sito http://www.wumingfoundation.com)

Foibe: nazisti e Pdl contro l’Anpi e la storica Alessandra Kersevan

Un raduno del fronte veneto skinheads

Momenti di tensione, sabato, si sono registrati al convegno sulle foibe organizzato dall’Anpi e intitolato “Fascismo, confine orientale e foibe”. Non contenti delle minacce dei giorni precedenti, che avevano già portato gli organizzatori a uno spostamento della sede dell’iniziativa, un gruppo di nazisti del “Veneto Fronte Skinheads”prima si sono presentati all’ingresso dell’ex biblioteca dove l’Anpi teneva una conferenza stampa con la storica Alessandra Kersevan, e poi di nuovo a Villa Wassermann, a Giavera, durante l’incontro pubblico. Gli estremisti di destra hanno fatto irruzione all’interno della sala, minacciato i presenti e realizzato un volantinaggio prima che alcuni carabinieri li obbligassero ad abbandonare il convegno. Nel frattempo la sala – piena, dicono i giornali locali – aveva intonato ‘Bella Ciao’ e slogan antifascisti.
Poco dopo all’iniziativa, in cerca anche loro di visibilità, si sono presentati alcuni esponenti della Giovane Italia, movimento giovanile di estrema destra interno al Pdl. Guidati dal loro presidente provinciale Claudio Borgia hanno tentato anche loro di entrare all’interno di Villa Wassermann per volantinare e megafonare, ma i carabinieri ancora presenti li hanno invitati a desistere.
Già nei giorni scorsi le minacce e le proteste dell’estrema destra nei confronti dell’iniziativa sulle foibe controcorrente rispetto alla vulgata comune, avevano convinto il sindaco di Montebelluna Marzio Favero a revocare la concessione dell’auditorium della biblioteca di Montebelluna tanto da costringere l’Anpi a chiedere e trovare ospitalità a Giavera, dove il sindaco Fausto Gottardo aveva concesso la sala di villa Wassermann. «La nostra intenzione era di fare un sit in dalle 15 davanti alla biblioteca per indirizzare quanti arrivavano al municipio» spiega un po’ sconsolato il presidente dell’Anpi di Montebelluna, Sergio Brunello, «ma non siamo riusciti a trovare nessuno in municipio per avere l’autorizzazione alla manifestazione, la Digos ci ha fatto poi presenti i problemi di ordine pubblico che potevano sorgere per la presenza di Forza Nuova con un suo gazebo, a quel punto abbiamo trovato la disponibilità di villa Wassermann per il convegno e quindi lo spostiamo lì e al posto del sit-in faremo una conferenza stampa nella nostra sede». (dal sito www.pane-rose.it)

Il caso Montebelluna dal sito www.diecifebbraio.info:

http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/02/GIORNO-DEL-RICORDO-A-MONTEBELLUNA..pdf

La giornata del ricordo

Soldati del Regio Esercito Italiano fucilano 5 contadini di Dane (Slovenia)

Franc Znidarsic, Janez Kranjc, Franc Skerbec, Feliks Znidarsic e Edvard Skerbec: sono questi i nomi dei 5 abitanti di Dane in Slovenia fucilati dai soldati italiani il 31 luglio del 1942. Questa è una foto che trovate spesso nelle celebrazioni della giornata del ricordo e viene sempre usata in maniera sbagliata sia da fascisti e post-fascisti ma anche da istituzioni pubbliche, da comuni, province, video, siti internet e, da buon ultimo, anche da Bruno Vespa nella puntata dello scorso anno di “Porta a porta”: gli italiani nella foto sono quelli in divisa e il far passare per martiri delle foibe 5 sloveni fucilati la dice lunga sulle mistificazioni e falsità che continuano ad essere dette e scritte dai più svariati personaggi che non hanno evidentemente mai fatto una ricerca storica precisa e basata sui documenti (sono tanti ed esistono) degli archivi di stato.
Un altro caso emblematico, riportato alla nostra  conoscenza dallo storico Davide Conti, è quello di un criminale di guerra italiano, Vincenzo Serrentino, premiato nel 2007 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ambito della cerimonia annuale di conferimento della medaglia come “martire delle foibe” e che causò un incidente diplomatico con la Croazia. Nella motivazione ufficiale viene presentato semplicemente come “ultimo prefetto di Zara italiana”. In realtà Serrentino arrivò a Zara nel ’19 come ufficiale del Regio esercito e fu all’inizio degli anni ’20 tra i principali dirigenti del Fascio di combattimento di Zara. In seguito divenne tenente colonnello delle Camicie nere e dopo l’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse fece parte del Tribunale speciale per la Dalmazia, l’organo di “giustizia” che serviva a dare una copertura giuridica alle rappresaglie contro il movimento partigiano. Per questo la Jugoslavia inserì il Serrentino, assieme agli altri suoi colleghi del Tribunale speciale, nella lista di criminali di guerra italiani presentata alle Nazioni Unite. Lui fu però uno dei rari criminali di guerra che gli jugoslavi riuscirono a catturare e portare davanti a un tribunale. Venne infatti giudicato a Sebenico e condannato a morte, sentenza che venne eseguita il 15 maggio del 1947. Cosa ricordiamo nella giornata del ricordo?

Dossier Dane sull’uso della foto (dal sito www.diecifebbraio.info):  https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMZ2FoNXVYdjNJemc/edit?usp=sharing

Dossier premiazioni:  https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMM3VOdTBrVS1KekU/edit?usp=sharing

Alessandra Kersevan sulla verità storica delle foibe: