Non serve molto per capire cosa è stato fatto quel giorno, a meno di un’ora, a qualche decina di chilometri da Trieste, in questo piccolo villaggio vicino a Rupa, sulla strada tra Fiume e Trieste.
Quelle due cifre, 87 abitazioni e 85 tra stalle e altri edifici, ad appena 21 km da Fiume.
Era una domenica pomeriggio; i maschi adulti o giovani impegnati quasi tutti con i partigiani erano da tempo via dal villaggio. Un monumento nel centro del paese, quasi di fronte alla lapide della foto, ricorda i 17 partigiani di Lipa caduti durante la guerra di liberazione jugoslava. Nei pascoli intorno qualche ragazzo o ragazza, 4 o 5 in tutto, attenti al bestiame. La neve se ne era andata da poco. E una famiglia giù a Fiume, in città. Sarebbe ritornata il giorno dopo, sorpresa dai militari addetti alla “bonifica” e sterminata per impedire scomode testimonianze.
Al mattino era stata attaccata da una brigata partigiana la caserma di Rupa, un paese un po’ più grosso, dove la stazione dei carabinieri fascisti serviva da presidio per il controllo della strada che collegava Fiume a Trieste. Da Fiume sta sopraggiungendo una colonna di una trentina di soldati tedeschi che vengono chiamati in soccorso e mentre stanno ancora decidendo il da farsi una granata li colpisce; 4 soldati tedeschi muoiono. Questo episodio fa scattare la rappresaglia. Vengono chiamati rinforzi da Ilirska Bistrica, un reparto speciale guida l’azione che dovrà essere “esemplare”. Viene chiesto ai carabinieri da quale villaggio intorno a Rupa fossero originari con certezza i partigiani. E i carabinieri li accompagnano a Lipa…
Madri, bambini e anziani vengono condotti e stipati nell’ultima casa di Lipa e bruciati vivi. Le bombe a mano gettate dentro per distruggere completamente la casa e rendere impossibile un riconoscimento delle vittime. I morti furono 269, fra cui tre bambine che non avevano neanche un anno.
Ma la caratteristica straordinaria di questa strage sono le fotografie originali, scattate da qualche soldato addetto alla documentazione delle azioni di guerra (immagino), stampate di nascosto nel laboratorio fotografico di Ilirska Bistrica e ancor oggi conservate e solo parzialmente riprodotte nel piccolo Museo di Lipa; la cui visita è un vero “pugno nello stomaco” per chi non sa cosa abbiamo combinato – noi brava gente – in quei luoghi. (da http://fiumetrieste.blogspot.it)
Ho inviato una lettera a “Il Fatto” esprimendo le mie perplessità su quello che aveva scritto Marco Travaglio in un articolo su Giuseppe Saragat, in cui descriveva Francesco Moranino come “un criminale della guerra partigiana”. Questa la sua risposta (non pubblicata sul giornale):
Caro Roberto,
Moranino era un feroce aguzzino, colpevole di fatti che ben travalicavano la guerra. Cordiali saluti
mt
come potete leggere sono parole che non ammettono replica e che, Marco Travaglio (d’ora in poi mt), sicuramente afferma sapendo di dire una cosa sbagliata, vista la notevole documentazione esistente e il libro di Massimo Recchioni appena uscito. Forse le sue fonti sono i libri di Pansa e allora si capisce la diffamazione di una figura simbolo della Resistenza (da leggere come viene descritto nel sito dell’Anpi nazionale) che mt prende ad esempio per denigrare una lotta di popolo che ha permesso di riscattare tutti gli italiani (compreso mt). Forse imparerebbe qualcosa di diverso e per lui sconosciuto, dalle parole di una ragazza di terza media che ha scritto questo: “Il popolo sotto oppressione di una dittatura terribile e insensata ha combattuto per la libertà, la fine della guerra, i propri diritti che venivano violati. È stato un movimento soprattutto di giovani di diverse età e classe sociale, anche di vari partiti.
E molti di quei giovani sono morti, ma ancora oggi è importante ricordarli poiché nei luoghi dove hanno combattuto e dato la vita si sono scritte le prime pagine della nostra Costituzione, quella della Repubblica Italiana, libera dalla dittatura e che ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli.”
Penso che mt dovrebbe vergognarsi per aver descritto il comandante “Gemisto” con quelle parole. Cordiali saluti (non a mt)
Nell’anniversario della morte di Antonio Gramsci, avvenuta a Roma il 27 aprile 1937 dopo dieci anni di carcere fascista, il Centro Gramsci, in collaborazione con l’Anpi di Mirano, del Partito Democratico, del Partito della Rifondazione Comunista, il Partito dei Comunisti Italiani, Sinistra Ecologia e Libertà e l’Italia dei Valori organizza il convegno: “Partigiani prima del 1943” nella sala conferenze di Villa Errera alle ore 17.00.
Nell’esporre la sua netta contrarietà all’esecuzione di «Fischia il vento e infuria la bufera» durante le celebrazioni del 25 aprile, il commissario prefettizio di Alassio ha spiegato agli ultimi, stupefatti partigiani che la festa della Liberazione è apolitica. Non me ne voglia Sua Eccellenza, ma fatico a trovare una festa più politica dell’abbattimento di una dittatura. Politica in senso nobile e bello, al netto degli orrori reciproci che purtroppo fanno parte di ogni guerra civile.
Oggi il modo più diffuso per commemorare la Liberazione consiste nel rimuoverla, annegandola in un mare di ignoranza. Un signore ha scritto scandalizzato dopo avere udito all’uscita da una scuola la seguente conversazione tra ragazzi: «La prof dice che giovedì non c’è lezione». «Vero, c’è qualcosa tipo… una liberazione». Ma anche i pochi che sanno ancora di che cosa si tratta preferiscono non diffondere troppo la voce «per non offendere i reduci di Salò», come si è premurato di precisare il commissario di Alassio. Una sensibilità meritoria, se non fosse che a furia di attutire il senso del 25 aprile si è finito per ribaltarlo, riducendo la Resistenza alla componente filosovietica e trasformando le ferocie partigiane che pure ci sono state nella prova che fra chi combatteva a fianco degli Alleati e chi stava con i nazisti non esisteva alcuna differenza. La differenza invece c’era, ed era appunto politica. Se avessero vinto i reduci di Salò saremmo diventati una colonia di Hitler. Avendo vinto i partigiani, siamo una democrazia. Nonostante tutto, a 68 anni di distanza, il secondo scenario mi sembra ancora preferibile. Grazie, partigiani.
Massimo Gramellini “La Stampa” 24.4.2013
Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è.In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale. (P. P. Pasolini “Scritti Corsari” 1975)
Per commemorare, per ricordare, perchè la memoria non sia una cosa astratta, troviamoci tutti (iscritti, simpatizzanti, antifascisti) questa mattina davanti alla Casa del Combattente a Mirano alle 9.30.
Antonio ”Ragazzo” Boschieri nato a Biadene nel 1921, partigiano sul Monte Grappa col nome di battaglia “D’Artagnan”. Combattè nella Brigata G. Matteotti come comandante del battaglione Zecchinel. Combattente freddo e deciso, amato e stimato dai compagni di lotta, partecipò a moltissime e pericolose missioni e azioni culminate nei tragici combattimenti del settembre 1944 durante il rastrellamento del Grappa da parte dei nazi-fascisti. Catturato, fu a lungo torturato ma non rinnegò le sue idee nè tradì i suoi compagni. Fu impiccato ad Arten di Feltre il 27 settembre del 1944. Aveva 23 anni…
Per tutta la giornata del 25 aprile, Antonio sarà ”presente” a Villa Pisani di Montebelluna con ricordi, foto, testimonianze e documenti nello spazio ANPI.
Questi sono i bambini di Bullenhuser Damm o almeno sono le foto di 12 dei 20 bambini impiccati dalle SS nella cantina di questa scuola di Amburgo trasformata dai nazisti in un luogo di supplizio. Degli altri otto non si conoscono i visi ma questi sono i loro nomi: Goldinger Surcis (11 anni), Junglieb W. (12 anni), Klygermann Lea (8 anni), Mekler Bluma (11 anni), Reichenbaum Eduard (10 anni), Steinbaum Marek (10 anni), Witónska Eleonora (5 anni) e Georges-André Kohn (13 anni). Questa è la loro storia:
Nell’aprile del 1945 gli Alleati stanno avanzando rapidamente nella Germania nazista. La guerra è ormai decisa e l’8 maggio sarà firmata la resa incondizionata. Intanto coloro che sanno quali crimini hanno commesso distruggono tutte le prove possibili. In quel periodo nel campo di concentramento di Neuengamme si trovano anche 20 bambini ebrei di età compresa tra i cinque e i dodici anni. Sono dieci femmine e dieci maschi, tra cui due coppie di fratelli e sorelle. Per mesi il medico delle SS Dr. Kurt Heißmeyer si è servito di loro come cavie per esperimenti medici. Ha immesso con sonde nei polmoni dei bambini bacilli tubercolotici vivi. Ha asportato le ghiandole linfatiche. Durante l’interrogatorio nel 1964 Heißmeyer ha dichiarato “per me non esiste alcuna differenza tra ebrei e cavie”. Il 20 aprile 1945 i bambini assieme a quattro detenuti adulti che li avevano assistiti nel campo di concentramento vengono portati in una scuola di Amburgo. Arrivano verso la mezzanotte. Gli adulti sono i medici francesi Gabriel Florence e René Quenouille, gli olandesi Dirk Deutekom e Anton Hölzel. È la scuola di Bullenhuser Damm, campo esterno del campo di concentramento di Neuengamme. Tutto il gruppo viene portato nello scantinato. Gli adulti vengono impiccati ai tubi di riscaldamento sotto il soffitto. Ai bambini fanno una iniezione di morfina per farli dormire. Li impiccano ad un gancio sulla parete. Johann Framm, uomo delle SS, si appende con tutto il peso del suo corpo al corpo del bambino per stringere il cappio.
Durante un interrogatorio nel 1946 Frahm dichiara “di aver appeso i bambini a un gancio come quadri alla parete”. Nessun bambino ha pianto.
Dopodiché vengono impiccati 24 prigionieri di guerra sovietici. Non si conoscono a tutt’oggi i loro nomi.
Nel dopoguerra, come se non fosse successo questo orribile crimine, ad Amburgo la vita riprende il suo corso. Si riapre la scuola e agli scolari non si racconta nulla di ciò che era successo nella cantina dell’edificio. Non si cercano i genitori e i parenti delle vittime, ben presto si dimenticano gli assassini. Solo alcuni ex prigionieri del campo di concentramento di Neuengamme vengono a Bullenhuser Damm tutti gli anni per deporre fiori. Gli imputati durante il processo al Curio-Haus nel 1946 hanno accusato Arnold Strippel, primo comandante responsabile del campo esterno del campo di concentramento di Neuengamme ad Amburgo, di essere stato complice al crimine di Bullenhuser Damm. Nel 1949 Strippel è stato condannato all’ergastolo per i crimini commessi a Buchenwald, ma nel 1969 viene scarcerato e riceve un risarcimento in denaro. Nel 1967 la Procura di Stato di Amburgo archivia gli atti del processo per “insufficienza di prove”. Alcuni parenti dei bambini sono sopravvissuti al ghetto e ai campi di concentramento e pur avendo fatto difficili ricerche per tanti anni, non sapevano cosa fosse successo ai bambini. Inoltre in seguito alla deportazione molti dei sopravvissuti avevano perso tutto ciò che possedevano, oggetti personali, ricordi. Erano rimaste solo poche fotografie conservate dai parenti emigrati o vissuti nascosti fino alla liberazione.
33 anni dopo questo terribile evento il giornalista Günther Schwarberg è riuscito a portare alla luce la storia dei 20 bambini. Nella rivista “Stern” ha pubblicato una serie di articoli con il titolo “Il medico delle SS e i bambini ” ed è riuscito a rintracciare i loro parenti facendo lunghissime ricerche in molti Paesi. Con il suo libro tradotto in sei lingue (non in italiano), Schwarberg ha salvato la loro storia. A tutt’oggi sono stati trovati i parenti di 16 dei 20 bambini e il 20 aprile 1979 sono venuti per la prima volta a Bullenhuser Damm per la cerimonia commemorativa. Erano presenti anche 2000 amburghesi. È stata fondata l’Associazione dei bambini di Bullenhuser Damm, per tenere vivo il ricordo delle vittime in stretto contatto con i parenti e il presidente onorario è Philippe Kohn di Parigi, fratello di Georges-André Kohn, il bambino francese ucciso. Nello stesso anno l’avvocatessa Barbara Hüsing ha denunciato Strippel per assassinio e la Procura di Stato ha riaperto il caso, ma nel 1983 sono stati di nuovo archiviati gli atti del processo. Per dimostrare il fallimento della giustizia tedesca nel caso Arnold Strippel l’Associazione dei bambini di Bullenhuser Damm ha insediato nel 1986 nella scuola di Bullenhuser Damm un “Tribunale Internazionale”: erano presenti i parenti delle vittime ed ex detenuti del campo di concentramento di Neuengamme. Dal 1980 nella cantina della scuola di Bullenhuser Damm c’è un museo e il memoriale oggi non è solo per Amburgo un importante luogo della memoria e di attività educative, ma ha importanza internazionale.
Migliaia di persone hanno piantato rose nel “giardino delle rose” per ricordare i bambini di Bullenhuser Damm . Dal 1991 nel quartiere di Amburgo Schnelsen Burgwedel ci sono le strade con i nomi dei venti bambini, un asilo, un centro giochi e un parco.
Da “Moschetti di legno, fucili di latta” di Emidio Pichelan:
“…tempi calamitosi, quelli dal 1932 al 1945 a Pontelongo, non c’era spazio per la gentilezza, cantava Brecht:
Oh, noi
che abbiamo voluto preparare il terreno alla gentilezza
non abbiamo potuto essere teneri. Ma voi,
quando sarà venuta l’ora
che gli uomini si aiutino l’un l’altro
pensate a noi con indulgenza…”
Venerdì 19 aprile 2013 a Mirano, villa Errera sala conferenze, ore 20.45, presentazione del libro:
“Moschetti di legno, fucili di latta”
saranno presenti:
-l’autore Emidio PICHELAN
-il presidente Anpi Reg. Veneto Maurizio ANGELINI
-il resp. Centro pace Sonja Slavik Vincenzo GUANCI
Le 4 del mattino del 17 aprile 1944. Nel giro di pochi minuti, i tedeschi entrano al Quadraro, noto “covo” di ribelli della Resistenza. E rastrellano circa 2.000 uomini tra i 16 e i 55 anni. Alcuni riescono a fuggire, grazie all’aiuto di un prete. 947 vengono deportati nei campi di concentramento. Solo la metà di loro tornerà a casa. Nel 2004 il quartiere è stato insignito della medaglia d’oro al merito civile.
17 aprile 1944. Le 4 del mattino: il Quadraro è ancora addormentato. Nel giro di pochi minuti, si scatena l’inferno. Gli uomini del comandante nazista Herbert Kappler circondano il quartiere, bloccando ogni via d’accesso. Ha inizio il rastrellamento del Quadraro. Nome in codice: Unternehmen Walfisch, Operazione Balena. 2.000 uomini tra i 16 e i 55 anni vengono trascinati via a forza dalle loro case. E portati al cinema Quadraro per la schedatura. Dopo ore di attesa, ammassati e trattati come bestie, vengono caricati su dei camion e portati a Cinecittà. Alcuni riescono a fuggire, aiutati dal parroco di Santa Maria del Buonconsiglio, don Gioacchino Rey. Molti arrestati. 947 uomini restano nelle mani della Gestapo e delle SS e finiscono deportati nel campo di concentramento di Fossoli (Carpi). Solo l’inizio di una lunga agonia. Il 24 giugno del ’44, i rastrellati del Quadraro vengono arruolati come “operai italiani volontari per la Germania”. E deportati nei campi in Germania e in Polonia. Molti di loro non sopravvissero all’arrivo degli ameticani. Dei 947 deportati solo la metà tornò, viva, al Quadraro.
IL CONTESTO STORICO – Nella primavera del 1944 Roma è una “città aperta”. L’occupazione tedesca è scandita da terrore ed eccidi, come quello delle Fosse Ardeatine (24 marzo). La popolazione civile è inerme, affamata. Gli alleati sono ancora a 80 chilometri dalla capitale. Il Quadraro, per i nazisti, è un “nido di vespe”, l’inizio del “fronte”. Il luogo dove trovano rifugio tutti coloro che, partigiani, comunisti o informatori, non trovano accoglienza nei conventi o presso il Vaticano. Il 31 marzo il comando tedesco decide di intervenire: per indebolire i ribelli, disseminati nella periferia sud-est, stabilisce di anticipare l’ora del coprifuoco alle 16:00. Il provvedimento colpisce gli abitanti dei quartieri Quadraro, Torpignattara, Centocelle e Quarticciolo. La Resistenza continua.
L’ANTEFATTO – La goccia che fa traboccare il vaso si verifica il pomeriggio del 10 aprile, un lunedì di Pasqua. Giuseppe Albani, detto “il gobbo del Quarticciolo”, assale con la sua banda un gruppo di soldati tedeschi alla trattoria “da Gigietto”, in via Calpurnio Fiamma, a Cinecittà. Uccidendone tre. L’affronto è troppo grande. Il comandante Kappler decide di dare un’altra “lezione” al popolo di Roma, dopo quella delle Fosse Ardeatine. “Andiamo a scacciare quel nido di vespe”, dice ai suoi uomini.
MEDAGLIA D’ORO AL MERITO CIVILE – Fu tutto inutile. Come racconta Carla Guidi nel libro “Operazione balena” (Edizioni Associate), dopo il rastrellamento del 17 aprile, la guerriglia contro i nazisti riprese con la stessa forza. In pochi mesi e in uno spazio limitato, qui ci fu la più alta concentrazione di azioni partigiane di tutta la resistenza italiana. Anche grazie all’atroce sacrificio di quel giorno, nell’aprile del 2004 il Quadraro è stato insignito, unico quartiere romano, della medaglia d’oro al merito civile dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
di Ambra Murè (Da “Paese Sera)
Avendo fatto della mia vita una missione, laica e civile, dimettermi dalla missione significherebbe dare le dimissioni dalla vita. Un suicidio. Ci sono esistenze più spendibili di altre, e la mia è una di queste. Tutto sta nel spenderle per qualcosa d’impagabile, come la lotta per la giustizia, la libertà.
Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011, veniva assassinato a Gaza Vittorio Arrigoni. In Palestina arrivò la prima volta nel 2002. Proprio quell’anno avvenne la sua iniziazione come scudo umano davanti a una scuola piena di bambini assediata dai carri armati israeliani. Da quel momento Vittorio affrontò molti rischi per aiutare la gente del posto e raccontare ciò che vedeva: i bombardamenti, la morte di ragazzini inermi, il dolore negli ospedali, le abitazioni distrutte. Fu anche malmenato e poi espulso dalle autorità israeliane, rimandato in Italia in camicia e ciabatte. “Tieni forza e coraggio. Opera per la pace, anche se ti e ci vien voglia di rispondere occhio per occhio alle offese. Ma, come diceva il Mahatma Gandhi, a furia di dire occhio per occhio, resteremo tutti ciechi”, gli scrisse sua madre Egidia il 20 aprile del 2004.
Ne aveva viste tante Arrigoni, gli era capitato di raccogliere pezzi dei suoi amici e teste di bambini. Del suo ultimo ritorno a casa, nel 2009, la mamma ricorda le urla notturne, l’inquietudine, gli incubi di chi aveva assistito ad atti disumani. “Noi eravamo preoccupati, ma non gli avremmo mai impedito di andare. Era la sua vita. Nonostante avesse visto tanta violenza e tante atrocità, la sua sfrenata passione per i diritti umani lo riportava sempre lì. Si sentiva amato dalla gente, accettato da tutti. Mi disse una volta che se non fosse tornato a Gaza, sarebbe andato altrove a cercare qualcuno da aiutare”.
Arrigoni ripartì per l’ultimo viaggio nel 2010. Passando dall’Egitto riuscì a rientrare a Gaza. Riprese ad aiutare “i fratelli palestinesi”, come lui li chiamava, e a raccontare ciò che vedeva attraverso il suo blog, Guerrilla Radio, e la collaborazione con PeaceReporter. Fino alla notte tra il 14 e il 15 aprile del 2011, quando venne ucciso da una cellula jihadista salafita, a quanto pare fuori controllo, con motivazioni che ancora oggi appaiono poco chiare. “La cosa che mi turba di più è non sapere la vera motivazione della sua morte – ha continuato Egidia – È il pezzo che manca. Non penso che lo conosceremo mai. Mi consola ricevere ancora oggi lettere di stima e di affetto nei confronti di Vittorio. Voglio che lui venga ricordato per quello che ha dato alla gente”. Questo è l’articolo di Alberto Puliafito pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il giorno dopo la morte di Vik:
Non era soltanto un volontario, Vittorio Arrigoni. Era un attivista. Era un pacifista. Era un profondo conoscitore della questione palestinese. Era uno scrittore e un giornalista. Ma soprattutto, era una voce libera, un testimone di una realtà complessa, quella di Gaza, che viveva dall’interno.
Certamente, nessun giornale italiano aveva pronto un “coccodrillo” celebrativo di Vittorio Arrigoni. Non perché non fosse risaputo che vivesse in una situazione rischiosa, ma perché le voci come la sua sono voci scomode. Perché Arrigoni, che ha scritto il bel Restiamo Umani e che raccontava di Gaza su Guerrilla Radio, il suo blog, era un personaggio difficile da trattare, dall’Italia. Non si accontentava di farsi raccontare da casa la realtà: la viveva. Non si accontentava di fornire una rappresentazione binaria della realtà. Non cedeva a slogan e al facile dualismo buoni contro cattivi, ma costruiva, giorno per giorno, un racconto, un affresco di una situazione mai davvero compresa, mai davvero rappresentata.
Leggete, per esempio, come raccontava un attacco da parte delle forze di sicurezza di Hamas a una manifestazione pacifista di palestinesi, e capirete cosa vuol dire avere la capacità di racconto e di analisi, senza cedere all’istinto della banalizzazione.
Vittorio Arrigoni non si preoccupava del fatto che poi, magari, la gente a casa non capisce (uno dei più grandi problemi della comunicazione sistemica); non risparmiava critiche anche a intoccabili: destinò dure parole a Roberto Saviano (nel video qui sotto) quando lo scrittore esaltò la democrazia di Israele. Era una voce scomoda, di quelle che fa tremare i benpensanti, a destra e a sinistra; una di quelle voci che fa saltare le logiche tradizionali di una comunicazione che tende a semplificare la realtà per proporre slogan e messaggi facilmente comprensibili (una comunicazione tradizionale decisamente deleteria, che abbassa il livello del confronto e che, a scapito della presunta immediatezza, non fa che impedire la comprensione dei fatti). Vittorio Arrigoni non faceva l’eroe, raccontava senza personalismi: era un canale per un flusso di comunicazione che si poteva diffondere soltanto in maniera virale, dal basso, eccezion fatta per i suoi reportage per Il Manifesto.
La sua morte mi ha ricordato – fatte salve le specificità e le differenze – quella di Enzo Baldoni (che ricordavo proprio su questo blog).
Per questi motivi, e solo per questi, ho ritenuto di doverne scrivere, senza patetiche commiserazioni. Per fornire al lettore, che non avesse mai incrociato gli scritti di Arrigoni, la possibilità di conoscerlo attraverso le sue parole, che devono essere condivise il più possibile.
E per favore, non cediamo alla facile retorica del se l’è andata a cercare, come già sta accadendo. Sarebbe semplicemente offensivo. Non solo per lui, ma anche per noi.
Perché Vittorio Arrigoni era, più di ogni altra cosa, Umano.
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