“Il 14 giugno 1944 ottantatre minatori, fra i quali venticinque miei compaesani per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo in Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Sento che devo essere degno di loro, che la mia cultura non mi deve staccare da loro, che anzi accresce le mie responsabilità di solidarietà con il mondo.” Padre Ernesto Balducci
Niccioleta nel 1944, era abitata da 150 famiglie di minatori che provenivano da Massa Marittima, Santa Fiora, Castell’Azzara, Abbadia San Salvatore, Selvena e che lavoravano in una miniera di pirite di ferro. La miniera era gestita dalla ditta Montecatini e aveva come responsabile il direttore Ubaldino Mori, coadiuvato dal vice direttore ing. Boekling, dal segretario dott. Lavato e dall’addetto alle ricerche geofisiche ing. Ferrari: essi erano ritenuti filotedeschi. Il direttore, infatti era un fervente fascista, che dopo il 25 luglio aveva cambiato l’atteggiamento e dall’8 settembre era in contatto col movimento partigiano. Tra gli operai di Niccioleta, vi erano sedici famiglie di fascisti, che non avevano rapporti con gli altri minatori e che sembravano inoffensivi, invece covavano un pensiero fisso, quello di vendicarsi. Vendicarsi, ma di che cosa?? Questi operai, si recavano spesso al comando tedesco, dicendo che il paese era quasi tutto antifascista e che la popolazione stava cercando di attuare un piano per ribellarsi all’oppressione tedesca. In realtà tutto ciò non accadeva, perchè le preoccupazioni della gente di Niccioleta erano quelle di tutelare esclusivamente il posto di lavoro e non avevano nessuna velleità nè nei confronti di chi era al comando, nè contro questi compaesani fascisti. Infatti, quando il paese il 25 luglio festeggiò la caduta del fascismo, nessuno torse loro un capello.
La prima avvisaglia, però di ciò che sarebbe accaduto, si ebbe il 5 giugno quando dei soldati tedeschi, si recarono alla direzione della miniera dicendo che alcuni operai si manifestavano antifascisti e che aiutavano i partigiani. I militari, allora, tirarono fuori una lista con alcuni nomi di persone sospette, che a loro avviso dovevano essere ìnterrogate. Solo tre operai appartenenti a quell’elenco, furono condotti dal comandante tedesco che disse loro di cambiare atteggiamento altrimenti sarebbero intervenuti con maniere forti. Dal 9 al 12 giugno, un gruppo di partigiani entrò in paese e disarmò la guardia repubblicana; perquisirono le case dei fascisti ma non compirono atti di violenza nei loro confronti. Fecero anche sventolare una bandiera bianca per non far bombardare Niccioleta dagli aerei alleati. I partigiani, dopo qualche giorno andarono via consigliando agli operai di stilare una lista di nomi per cominciare a fare dei turni di guardia alla miniera, temendo che i tedeschi ormai allo sbando sabotasscro gli impianti. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, dei reparti di SS. e fascisti, arrivarono silenziosamente ai piedi del paese. Le sentinelle della miniera, tra le quali c’era anche il figlio del direttore, si diedero alla fuga non potendo avvertire nessuno. I membri del comitato dei minatori, fecero appena in tempo a nascondere nel rifugio antiaereo alcuni fucili da caccia, assieme al famoso elenco con i nomi delle persone addette a fare la guardia. Fu forse questo l’errore che causò poi la tragedia.
I fascisti e i tedeschi, che intanto avevano fatto irruzione nel paese, fecero uscire gli uomini in strada e chiusero le donne e i bambini in casa sprangando porte e finestre. Dopo alcune ricerche, furono trovate le armi e con loro la lista; gli operai furono radunati in massa nella piazzetta e inziò così l’interrogatorio; nel frattempo alcuni miliziani controllavano nelle abitazioni sperando di trovare qualcosa di compromettente. Mentre il paese veniva rovistato in lungo e in largo, sei operai tra i quali Ettore Sargentoni con i figli Aldo e Alizzardo e Bruno Barabissi, tutti selvignani, vennero portati nella sala del dopolavoro e qui, tra una domanda e l’altra, furono picchiati selvaggiamente a causa delle risposte evasive che essi davano. Il Barabissi fu visto uscire barcollante e mentre veniva sospinto verso il muro di una casa, implorava pietà. In quel momento uno sparo di mitra gli sfiorò la testa; avevano così voluto intimorirlo. Fu riportato dentro alla sala, assieme agli altri e qui continuarono le percosse. Dopo un pò il Sargentoni con uno dei suoi figli e un altro operaio di nome Antimo Chigi furono trascinati fuori; vennero portati in un cortile dove con alcuni colpi di arma da fuoco vennero massacrati. Toccò poi al Barabissi e a Rinaldo Baffetti, che alla vista dei tre cadaveri cominciarono a gridare, finchè, colpiti dai proiettili caddero a terra in una pozza di sangue. L’ultimo fu Alizzardo, che quando vide quella scena, si gettò sopra il padre ed il fratello abbracciandoli teneramente, ma anche lui non fu risparmiato. Gli altri operai rimasti, prima di partire per Castelnuovo Val di Cecina, dove loro credevano che da lì sarebbero stati deportati in Germania, ebbero l’occasione di rivedere per l’ultima volta i familiari che portarono loro degli effetti personali. Un gruppo di uomini sopra i cinquant’anni fu liberato e rispedito a casa; gli altri, i settantasette rimasti, con un età che oscillava tra i venti e i quarant’anni, alle 21,30 si incamminarono verso Castelnuovo dove arrivarono all’1,OO. Furono portati dentro alla sala cinematografica e vennero sorvegliati a vista, In quel luogo le ore passavano lente, c’era chi non resse alla stanchezza e si addormentò, mentre la maggior parte di essi rimasero svegli aspettando con trepidazione la sorte che sarebbe loro toccata.
Il giorno dopo i minatori restarono dentro alla sala, senza che fosse data loro alcuna notizia, fino al tramonto quando furono portati verso la strada che va a Larderello. Dopo aver percorso un chilometro il corteo fu deviato in una stradina che scendeva verso i soffioni di Castelnuovo. Alle 19,30 arrivarono nel luogo dove sarebbe avvenuto l’eccidio, un posto tetro, vicino a quei soffioni ululanti, che coprivano qualsiasi tipo di rumore, anche le poche parole che quei “disgraziati” cercavano di scambiarsi. I tedeschi li divisero in tre gruppi, il primo dei quali fu fatto incamminare verso un sentiero che costeggiava un burrone e dopo una svolta a destra quegli uomini furono falciati dai colpi delle mitragliatrici ben posizionate e nascoste dalle fascine. Anche il secondo gruppo fece la stessa fine, mentre l’ultimo, composto dai più giovani, fu fatto passare dalla parte opposta della strada. I ragazzi quando videro i loro familiari e gli amici in fondo al burrone coperti di sangue, tentarono la fuga, ma non riuscirono che a fare pochi passi cadendo nel precipizio sopra gli altri. Un contadino che abitava lì vicino, vide tutta la scena e raccontò che alcuni fascisti scesero in fondo al dirupo e dopo aver rubato le misere cose che i minatori avevano addosso, per sicurezza gli spararono ancora un colpo di pistola alla testa. La popolazione di Castelnuovo avvertita dell’eccidio che si era compiuto accorse sul luogo, trovando una scena veramente macraba: 77 operai uccisi barbaramente. Gli stessi abitanti, riuscirono a portare con grande difficoltà quei corpi straziati e già in stato di avanzata decomposizione (dovuta al caldo e al calore dei soffioni), in un luogo vicino al paese e qui li seppellirono. In seguito, quando fu possibile, i corpi furono portati nei luoghi di provenienza, grazie anche allintervento della ditta Montecatini.
Per quell’eccidio solo pochissime persone hanno pagato, si parla di tre fascisti che scontarono una pena di trenta anni; troppo poco per 83 vittime innocenti. (http://selvena.altervista.org)