Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Si è gettato dal balcone di casa, al terzo piano di via dei Gracchi intorno alle 15. Aveva 91 anni. In questo brano il regista racconta la sua adesione al Partito Comunista e alla Resistenza nella Roma occupata del 1943. Il testo è tratto da “Guida alla Roma ribelle”.
Era il 7 novembre del 1943. Roma stata appena occupata dai tedeschi, eravamo dopo l’8 settembre. Io e altri due compagni, Renato Mordenti e Marcello Bollero, avevamo deciso con altri gruppi di antifascisti di fare delle scritte per inneggiare all’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, che cadeva appunto in quel giorno. La lotta armata ancora non era nata a Roma. C’erano le prime formazioni dei Gap ma non erano attive. Ci dividemmo per quartieri. A noi tre toccò la zona del centro. Decidemmo di scrivere, a vernice rossa, oltre che “Viva il 7 novembre” anche “Viva Rosa Luxemburg” e “Viva Karl Liebknecht”. Era una mia idea, pensavo che quelli che avevano occupato Roma erano soldati tedeschi, che il nazismo c’era da appena dieci anni, dal 1933, e che magari quei nomi gli avrebbero ricordato i comunisti tedeschi e la tentata rivoluzione nel loro paese. Erano due nomi piuttosto complicati e soprattutto un po’ lunghi da scrivere. A Roma cominciava il coprifuoco e la luce era sempre più scarsa anche perché si faceva economia sull’energia elettrica. Facemmo parecchie scritte, risalendo fino a via Nazionale, più o meno all’altezza di via delle Quattro Fontane. Lì una pattuglia tedesca ci fermò e vide le nostre mani sporche di rosso. Si accorsero anche dei pennelli. Non sapevamo ancora delle deportazioni, ma sapevamo di rischiare di essere arrestati e torturati, e la nostra paura più grande era di non riuscire a resistere e coinvolgere altri compagni. Col coraggio della disperazione facemmo un gesto assurdo: avevamo tre mitra puntati sul petto – ricordo ancora la sensazione del metallo appoggiato qui, subito sotto la gola – e a mani nude li alzammo con forza, quasi sbattendoli in faccia ai tedeschi. Loro rimasero allibiti e guadagnammo quei pochi secondi che ci permisero di scappare correndo in quattro direzioni diverse. Ci spararono ad altezza d’uomo, tanto che giorni dopo andai a curiosare e vidi le scalfitture delle pallottole lungo il percorso fatto. Ma ce la cavammo. Il segno di Roma ribelle restò a lungo: le scritte vennero cancellate ma continuarono a vedersi anche dopo, come i graffi delle pallottole sui muri. Quella sera per prudenza nessuno tornò alle proprie case. Il giorno dopo seppi che neanche i miei due amici erano stati catturati.
Ero responsabile di un gruppo del mio quartiere, Prati, che comprendeva altri cinque-sei giovani. Abitavo su Lungotevere de’ Mellini, al numero 7. Il contatto con il Partito Comunista era avvenuto attraverso Giuseppe De Santis e Antonello Trombadori. Mi fissarono un appuntamento a San Lorenzo, quartiere operaio, dunque speravo che questa volta non avrei incontrato uno studente come me o un intellettuale, ma finalmente un lavoratore. Avrei trovato una persona con “Il Messaggero” davanti agli occhi, seduta in un bar, questo era l’accordo per riconoscerlo. Quando abbassò il giornale, vidi un ragazzo come me, pure lui con gli occhiali: ecco un altro intellettuale!
Ci disse di reclutare altri militanti nella mia zona, per lanci di manifestini e azioni più politiche e di propaganda che propriamente armate. Proposi il mio appartamento per il supporto logistico: era al pianoterra, e in caso di perquisizioni o irruzioni di tedeschi o polizia si poteva fuggire dal retro. Questa sistemazione venne vista con favore: i dirigenti continuarono a chiedermi di tenere le riunioni a casa mia, insospettendo molto mio padre, soprattutto per il viavai di uomini più “anziani” di noi universitari. Un giorno, prima del 25 luglio e della caduta del fascismo, si presentò Giorgio Amendola, allora quasi quarantenne, e dovetti dire a mio padre che si trattava di un produttore cinematografico che stava leggendo un soggetto che gli avevo sottoposto. In seguito venne anche Luigi Longo, che doveva dare disposizioni in vista dell’armistizio. Prima della battaglia di Porta San Paolo si presentarono diverse persone a casa mia, tra questi Vasco Pratolini, per chiedermi “le armi”. Gli dissi che non c’erano armi in casa, era la verità, e in seguito abbandonai l’appartamento. Non bisogna dimenticare che in tutti i movimenti clandestini ci sono spie, doppiogiochisti, persone che non resistono alla tortura o che magari non vogliono mettere in pericolo i propri familiari.