Energia, armamenti e telecomunicazioni. Nonostante il conflitto in atto e le misure di embargo, il business italiano in Siria esiste. È composto in buona parte da aziende di Stato come Eni e Finmeccanica. Più qualche nome minore che offre apparati di intelligence come Area spa. Le piccole e medie imprese del Made in Italy (dalla moda all’artigianato) che prima del 2011 esistevano in Siria, sono state spazzate via dalla guerra perché di mercato per loro non ce n’è più. Scavare negli affari siriani non è cosa facile: l’Eni, per esempio, non li cita in bilancio. Ma poi il gruppo guidato da Paolo Scaroni, recentemente indagato per la vicenda delle tangenti algerine della controllata Saipem, non può fare a meno di fornire dettagli alla Securities Exchange Commission, l’autorità di vigilanza dei mercati statunitensi.
Nel documento, depositato lo scorso aprile, il cane a sei zampe spiega ciò che in Italia non si dice: “Le nostre operazioni in Siria sono principalmente state limitate a transazioni realizzate nel segmento di raffinazione e marketing con la Syrian Petrol Co., società controllata dal governo siriano per l’acquisto di petrolio grezzo”. Il gruppo precisa poi che nel 2010 e nel 2011 è stato acquistato greggio per un totale di 338 milioni di dollari e ammette poi di aver “acquistato piccoli ammontare di greggio da trader internazionali, che sulla base della documentazione di trasporto fornitaci, ci lascia pensare si riforniscano da compagnie siriane”. Trasporto che per lo più avviene via mare attraverso grandi gruppi leader mondiali del settore come l’olandese Maersk o il gruppo svizzero-partenopeo Msc shipping della famiglia Aponte.
Nomi noti nel panorama internazionale del business delle aree più a rischio come Africa e Medio Oriente. Come del resto lo è quello di Finmeccanica, che, secondo quanto rivelato da file segreti di Wiki-Leaks nel gennaio 2012, ha fornito, attraverso la controllata Selex Elsag, il sistema di comunicazioni Tetra al regime del presidente Bashar Al-Assad impegnato nella repressione. Per il gruppo di viale Monte-grappa l’apparato, venduto nel 2008 “era destinato all’impiego da parte di organizzazioni per le emergenze ed il soccorso” e così “qualsiasi altro utilizzo che ne sia stato fatto è fuori dal controllo della società”. Non la pensano così però alla Procura di Firenze che il 6 marzo scorso ha notificato alla sede fiorentina della Selex Elsag un provvedimento per la richiesta di consegna del server contenente uno specifico software da cui si è appreso “che risultano indagati l’ex presidente, cessato dalla carica in data 31 dicembre 2012, l’ex amministratore delegato dell’allora Selex Elsag, cessato dalla carica in data 30 settembre 2012, e due dipendenti della società” nell’ambito di un procedimento penale per “l’attività svolta dalla suddetta società in Siria con riferimento alla realizzazione della rete di comunicazione tecnologica Tetra”.
Un brutto affare, insomma, come quello legato all’attività della società di Varese, Area spa, che vendeva alla Syrian Telecommunication Establishment prodotti come lo storage del gruppo californiano NetApp per archiviare grandi quantità di email, i software della società francese Qosmos e i dispositivi della tedesca Ultimaco Safeware. Secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, con una partita dal valore di 13 milioni di euro per la sola Area (di cui solo 7,7 poi realmente incassati), i rifornimenti servivano al regime siriano a monitorare tutto il traffico Internet del Paese con controllo puntuale della popolazione. Area ha in più occasioni dichiarato che i contratti siriani avevano data antecedente il blocco commerciale. Ma non si può trascurare che NetApp sia nel mirino delle autorità statunitensi per aver aggirato l’embargo stabilito negli Usa nel 2004 e la francese Qosmos è accusata dai magistrati francesi “di complicità in atti di tortura”.
Sarà difficile anche per i giudici delineare i contorni degli affari siriani che spesso transitano attraverso i confini di Paesi vicini che sostengono, a seconda delle opportunità, il regime o i ribelli. Ma non si può far finta di non vedere che gli affari italiani degli armamenti in Medio Oriente registrino un miglioramento: se si guarda al rapporto del-l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, su “lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” relativo al 2011, di 2,6 miliardi di esportazioni di armi autorizzate dall’Italia, il 15,67 per cento è partito alla volta dell’Africa settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente con un fatturato complessivo da 417 milioni di euro (contro 1,23 miliardi in Europa e 537 milioni in Asia). (di Costanza Iotti da “Il Fatto”)