Nella seconda decade del novembre 1944 dodici antifascisti scledensi dellla Btg Fratelli Bandiera caddero nella trappola delle delazioni e finirono nel campo di concentramento di Mauthausen. Solo uno fece ritorno nell’estate del ’45, William Pierdicchi. Fu lui a testimoniare l’orrore dei campi di sterminio e a scatenare in città la reazione di una popolazione ignara. L’eccidio del 7 luglio (54 morti, di cui 14 donne) nelle carceri mandamentali ne fu la più tragica conseguenza.
A 70 anni da quei drammatici avvenimenti, lo studioso della Resistenza Ugo De Grandis, li ricostruirà in una serata aperta al pubblico e voluta dal centro studi Igino Piva “Romero”, venerdì 28 novembre alle 20.45 a palazzo Toaldi Capra a Schio.
Dall’archivio della Corte d’Assise Straordinaria di Vicenza sono emersi documenti che indicherebbero le responsabilità della retata del novembre 1944.
A FINE NOVEMBRE. Fu una vasta operazione di polizia voluta dal fascismo scledense per riscattare la propria immagine nei confronti del Comando tedesco, dopo gli insuccessi collezionati nei mesi precedenti nel mantenimento dell’ ordne pubblico e nella repressione della guerriglia.
Come si rileva dalle testimonianze dei sopravvissuti e dalle denunce dei familiari delle vittime, l’operazione, condotta dal 18 al 30 novembre, condusse al fermo di una trentina di partigiani e collaboratori. Dopo la consegna ai tedeschi del primo antifascista tratto in arresto, Bruno Zordan, da parte del commissario prefettizio Giulio Vescovi, gli altri furono catturati in casa dagli agenti della Polizia ausiliaria passati al servizio della Feldgendarmerie delle scuole Marconi, Anselmo Dal Zotto, Cirillo Zalunardo, Ivo Contaldi, Firmino Gasparini e Ferdinando Sartori.
LO SCIOPERO. A seguito del ritrovamento all’interno del Lanificio Rossi, di un volantino incitante allo sciopero, il primo a cadere in sospetto fu Bruno Zordan, invalido di guerra, che aveva già subito un processo per offese al capo dell’Ufficio Politico Investigativo di Schio, Savino Bassi. Riuscito in un primo tempo a sottrarsi all’arresto, Bruno fu poi indotto da Vescovi a ripresentarsi a lui, che lo accompagnò personalmente al Comando tedesco di via Maraschin. La stessa sera del 19 novembre furono arrestati Pierfranco Pozzer, 19 anni, residente in via Pasini, e Italo Galvan, 39 anni, che aveva casa e bottega di calzolaio in via don Francesco Faccin. Più tardi si scopri che a denunciare i due, secondo i documenti recuperati da De Grandis, era stato Anselmo Dal Zotto, amico d’infanzia di Pozzer, che l’estate precedente aveva fatto da tramite tra i due per il passaggio di una pistola e di alcuni caricatori.
In autunno Dal Zotto si era arruolato nella Polizia ausiliaria di Vicenza e, dietro la promessa di un aumento di stipendio. aveva accettato di tornare a Schio per collaborare alle indagini.
LE TORTURE. Bruno Zordan e Pierfranco Pozzer furono sottoposti a lunghe e pesanti torture alle scuole “Marconi” e alle carceri mandamentali di via Baratto, così pesanti che il giovanissimo Pierfranco tentò il suicidio; sopraffatti dalle violenze, ai due sfuggirono alcuni nomi degli altri componenti il battaglione, ma fortunatamente Elisabetta Spiller, moglie del capocarceriere Pezzin, udì la confessione attraverso i muri e, tramite una conoscente che sapeva in contatto con la Resistenza, riuscì a dare l’allarme. Molti antifascisti riuscirono a portarsi in salvo, ma altri, non avvisati o forse ritenendosi al sicuro, caddero nei giorni successivi nelle mani dei tedeschi della Feldgendarmerie.
Agli inizi di dicembre alcuni antifascisti meno compromessi furono rilasciati: Vincenzo Bonato, Carlo Mazzon, Pietro Tradigo, Oreste Garuzzi e i familiari di Pierfranco Pozzer, ma nelle mani dei fascisti rimaneva ancora una quindicina di partigiani, tra i quali Antonio Canova “Tuoni” che, in qualita di comandante del Btg. “F.lli Bandiera”, era a conoscenza dell’intera struttura organizzativa. Se “Tuoni” avesse ceduto alle violenze, con la sua confessione avrebbe potuto compromettere poco meno di duecento collaboratori: era un rischio che non si poteva correre.
IL COMMANDO. Dopo il secondo interrogatorio, durante il quale era stato bastonato e torturato con un ferro da stiro rovente, “Tuoni” fu ricoverato privo di sensi all’ospedale Baratto e guardato a vista da due militi della Brigata Nera, in attesa di riprendere le torture. La sera del 6 dicembre 1944 un commando di una quindicina di partigiani, guidati da Valerio Caroti “Giulio”, comandante della Brigata “Martiri della Val Leogra”, con un’azione ardita e incruenta liberò Antonio Canova.
La ritorsione partì nei confronti dei partigiani ancora trattenuti, che, la mattina dell’11 dicembre, furono tradotti al carcere di San Biagio e consegnati ai tedeschi accompagnati da gravissime accuse. Dieci giorni più tardi, il 21 dicembre, un camion scoperto e un torpedone partirono dal capoluogo e, dopo una breve sosta per panne al ponte della Gogna, portarono una settantina di prigionieri al lager di Bolzano.
I NOMI. Tra i prigionieri vi erano quindici scledensi: tre donne catturate nel corso di un’operazione di polizia a Magrè (Caterina Baron, Fosca Lovato e Irene Rossato) e dodici antifascisti arrestati nella retata di novembre: Giovanni Bortoloso (32 anni), titolare dell’omonima cartolibreria in piazza Rossi; Andrea Bozzo (48 anni), che gestiva una tipografia in via Baratto; Livio Cracco (33 anni), commesso di drogheria, residente in via Pilastro 2; Anselmo Thiella (37 anni), operaio da Bozzo, abitante a Magrè in via Riolo; Vittorio Tradigo (27 anni) contabile presso la Banca Nazionale del Lavoro e residente in via Maraschin; Giuseppe Vidale (49 anni), capo elettricista al Lanificio Rossi, residente in via Pasubio; Andrea Zanon (46 anni), che aveva un officina di calderaio in via Castello; William Pierdicchi (23 anni), studente, residente in via Porta di Sotto, e infine Roberto Calearo (19 anni), di Vicenza, che in quei giorni si trovava a Schio ospite di Pierfranco Pozzer, suo compagno di studi.
IL BLOCCO E. Durante la sosta ai Lager di Bolzano, nell’attesa che fosse formato il convoglio ferroviario per la deportazione fu scoperto un tentativo di fuga dal Blocco E, quello dei “pericolosi”, dove erano segregati gh antifascisti scledensi e ciò aggravò ulteriormente la loro situazione. L’8 gennaio 1945 un gruppo di quasi 500 prigionieri, tra i quali i dodici scledensi, fu condotto a Mauthausen che, assieme al suo sottocampo principale, Gusen, era l’unico classificato nel “Grado III”, ossia per “detenuti con gravi pendenze penali, non rieducabili.
LE MORTI. Le durissime condizioni di vita cui furono sottoposti i detenuti nell’inverno 1944-45 causarono, nell’arco di tempo di poche settimane, la morte di quasi tutti gli antifascisti scledensi: Giuseppe Vidale, Pierfranco Pozzer, Roberto Calearo, Livio Cracco, Andrea Bozzo, Italo Galvan, Anselmo Thiella, Andrea Zanon.
Il 22 aprile, sotto l’incalzare dell’avanzata angloamericana a Mauthausen avvenne una gassazione di massa per eliminare i prigionieri che versavano in peggiori condizioni e, tra i molti, furono assassinati anche Bruno Zordan e Giovanni Bortoloso. Alla liberazione del campo, avvenuta il 5 maggio ad opera degli americani. risultavano ancora in vita William Pierdicchi e Vittorio Tradigo: quest’ultimo, tuttavia spirò nell’ospedale da campo americano cinque giorni più tardi.
IL SOPRAVVISSUTO. L’unico degli antifascisti scledensi che riuscì a rientrare in città, il pomeriggio del 27 giugno 1945, fu William Pierdicchi ridotto a 38 kg di peso, nonostante fosse stato un giovane robusto.
Dopo una breve sosta a Schio, necessaria per riprendere le forze, William si trasferì per completare la convalescenza dai suoi parenti a Jesi. Fu l’unico a sopravvivere, peso che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita, conclusasi a Vicenza il 20 luglio 2004.
Mauro Sartori, Il Giornale di Vicenza