Tina Merlin

Tina e il marito Aldo Sirena (“Nerone”) ad un raduno partigiano in Cansiglio

“Non so come, fra altri trent’anni, si racconterà la storia dell’olocausto del Vajont, ma so che se qualcuno lo farà, sarà anche grazie a Tina Merlin. Le storie non esistono se non c’è qualcuno che le racconta”. (Marco Paolini)

Il 22  dicembre 1991 moriva a Belluno Tina Merlin. Era nata a Trichiana (BL) il 19 agosto del 1926. Era sorella del partigiano Toni Merlin, organizzatore e comandante del battaglione “Manara”,  successivamente assorbito dalla brigata partigiana “7° Alpini”. Partecipò alla resistenza come staffetta partigiana nella stessa brigata e, dopo la guerra diventò giornalista collaborando con l’ “Unità”, diventandone la corrispondente da Belluno. Nel 1951 pubblicò “Menica“, una raccolta di storie sulla guerra  partigiana. In quel periodo iniziò a interessarsi alla diga del Vaiont e, per i suoi articolo di denuncia pubblicati sull'”Unità” che descrivevano la situazione pericolosa che si era andata manifestando con la costruzione della diga,  venne processata e assolta dal tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La sentenza porta la data del 30 novembre 1960 e anticipa di quasi tre anni la strage annunciata del Vaiont.

“..Inizia l’ultimo giorno. Il 9 ottobre 1963 è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli stavoli più cose possibili.   Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i beni malgrado l’avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richieste provenienti dal cantiere…
Viene la sera, e la gente, adesso, è tutta nei bar a vedere la televisione. Sono ancora pochissimi i televisori privati, e in eurovisione c’è la partita di calcio Real Madrid-Rangers di Glasgow. Due squadre molto forti, una partita da non perdere.   E infatti molta gente è scesa dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra vincente. Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua.   Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra.
A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime…”

Così Tina descrisse la strage nel suo libro più famoso “Sulla pelle viva – come si costruisce una catastrofe“, un libro che nessuno voleva pubblicare e vide la luce solo nel 1983 per le edizioni “La Pietra” di Milano. Tanti giornalisti, molto più famosi di lei, scrissero articoli ignobili in cui la la strage (“la tragedia”) rimaneva relegata in un’ottica di fatale e naturale disgrazia rimanendo ammirati per la solidità della diga. Così descrisse l’evento Dino Buzzati  in articolo apparso sul Corriere della Sera, venerdì 11 ottobre 1963: “Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico.”  E così Giorgio Bocca in un articolo pubblicato su “Il Giorno” dell’11 ottobre 1963: “Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!… Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muovere guerra…”. Il giornalista Indro Montanelli scrisse inoltre un articolo sul periodico “La Domenica del Corriere” (novembre 1963) nel quale accusava i comunisti di speculare su una così grave tragedia: “nella vita delle nazioni – sosteneva Montanelli – ci sono sempre state tragedie di ogni genere, carestie, pestilenze, terremoti, che vanno affrontate con coraggio e senza creare odi interni”.

Ma Tina non era della stessa pasta, era una che non mollava e continuò a pubblicare e a fare inchieste, sempre dalla parte degli ultimi, degli indifesi, di chi non era tutelato da nessun potere. In uno degli ultimi suoi articoli sul giornale “Patria” scrisse ancora del Vaiont inquadrando il problema in un ottica storica lucida ed estremamente attuale anche ai nostri giorni. Grazie Tina.

“I giorni dopo il Vajont la gente era convinta che la tragedia dovesse essere un punto di partenza per una riflessione collettiva dalla quale partire per cambiare, per mettere in discussione rapporti e metodi. C’erano duemila morti ammazzati, dei quali tutti i poteri portavano una responsabilità diretta o indiretta. La Costituzione era stata messa sotto i piedi e si era rivelata incapace di garantire perfino la vita dei cittadini. Da più parti si proclamava, e si prometteva, che occorreva cambiare rotta. Invece, da allora, le compromissioni del potere politico con quello economico sono state infinite e scandalose. Si sono affinate nella degenerazione di ogni diritto, talchè la democrazia non ha più senso e reale consistenza in questo nostro paese governato da gruppi di potere palesi e occulti, dove uomini della politica e uomini dell’economia vanno sottobraccio a quelli della mafia, del terrorismo, della P2, per sostenersi a vicenda…..”

8 pensieri riguardo “Tina Merlin”

  1. Ho visto che l’articolo citava la compianta Tina Merlin. Senz’altro indegnamente, ho avuto l’onore di conoscerla tanti anni fa. Era il 1969 e mi trovavo a Valdagno in “visita” alla fabbrica occupata di Marzotto. Portavo la mia testimonianza, un volantino di solidarietà di alcuni studenti dell’istituto magistrale di Vicenza dove avevo organizzato uno sciopero riuscendo a tener fuori un paio di classi (in particolare la mia, la 3° E).
    Credo in quella occasione di aver avuto un alterco con il futuro sindaco Variati che era, mi pare, in 2° (e forse già seguace di Rumor) che voleva entrare. A Valdagno lasciai il volantino agli operai “di guardia” (non era l’occupazione delle fabbriche del 1921, ma insomma era già qualcosa) e ritornai a Vicenza in autostop. A darmi un passaggio fu proprio Tina Merlin (giornalista dell’Unità) che mi aveva intravisto parlare con gli operai. Ovviamente consegnai anche a lei copia del volantino (che poi inserì nel suo libro “Avanguardia di classe e politica delle alleanze” Editori Riuniti, 1969). Le lotte della classe operaia di Valdagno erano diventate di rilevanza nazionale con la rivolta del 19 aprile 1968 (evento a cui, non del tutto casualmente, avevo partecipato, almeno come spettatore -ricordo che all’epoca avevo sedici anni).
    Del viaggio ricordo soprattutto un suo auspicio: “Voi giovani vedrete realizzarsi i nostri sogni, quelli del vostri genitori…un mondo meno ingiusto..” (cito a memoria). Sembrava convinta e non posso fare a meno di pensare a quanto ne sarebbe delusa, vedendo il disastro, non solo ambientale, compiutosi in questi anni…
    In ogni caso la sua testimonianza rimane salda, a futura memoria (come quella di un’altra donna dall’analogo destino, aver previsto e anticipato i drammi dell’inquinamento e venir per questo derisa e umiliata: Rachel Carson, autrice di “Silent Spring”, del 1962).
    Scusate per l’intervento a carattere memorialistico (e forse troppo personale) ma invecchiando sto diventando sentimentale, ciao
    Gianni Sartori

    PS il volantino si trova a pag. 225 del libro citato (“Gli studenti del “Fogazzaro” in sciopero, Vicenza 8 febbraio 1969). Lo avevo scritto nella sede del PSIUP di Vicenza insieme all’allora compagno, poi democristiano, Alfredo Zaniolo (con la supervisione, in parte censoria, di Domenico Buffarini).
    Riporto la conclusione:

    “Operai!
    Gli studenti non vi esprimono solo la loro solidarietà, ma vi portano il contributo cosciente della loro lotta contro il comune nemico, il capitalismo!
    Uniti, studenti e operai possono costruire un mondo nuovo!
    Uniti, studenti e operai possono diventare padroni del loro destino!
    A Valdagno, a Vicenza, nel Veneto, in tutta Italia studenti ed operai uniti nella lotta”.

    La lotta continua? Forse…
    ciao
    Gianni Sartori

  2. CHI HA COMPAGNI NON MORIRA’:
    IN MEMORIA DI GUIDO BERTACCO

    (Gianni Sartori – 2015)

    Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento AnarchicoVicentino) prendesse l’iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli….E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
    Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati…
    Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all’esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell’aprile del 1969 gli studenti occupavano l’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l’ex albergo ora denominato “Casa dello Studente e del Lavoratore” subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all’alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c’è l’immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini; in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale Guido sarebbe partito da Vicenza ancora m-l per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima dell’epoca.

    Di tutto l’impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d’opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, ardito del popolo di Schio) e un pacco di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante” (di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia), almeno”Morire di classe” (sempre dei coniugi Basaglia, con un servizio fotografico, realizzato da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, per denunciare la condizione manicomiale). Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.
    Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara
    (da non confondere con l’omonimo gruppo anarchico -e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nella colonna anarchica affiliata alla FAI-CNT delle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l’unico con la patente e l’auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto Mario cavejo per evidenti motivi) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l’occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell’auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l’ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l’USI…
    Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c’era posto per due), io e Stefano all’addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio, credo.
    Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da “confine del mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzareti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l’arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.
    Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un’immagine di Rosa Luxemburg.
    Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su CHE Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza testimoni di geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo stato si era premunito di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente detto, a Padova per ragioni di studio (all’epoca alternavo periodi di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari). Gentile da parte sua, lo stato intendo.
    Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor mio sperai ardentemente che quel giorno i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita). Ma se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all’uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.
    Ci mancherà.

    Gianni Sartori

  3. “Toute la vie des sociétès dans lesquelles régnent les conditions modernes de production s’annonce comme une immense accumulation de spectacles.
    Tout ce qui ètait directement vécu s’est èloignè dans une reprèsentation.
    (Guy Debord)*

    LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO MERCIFICA E BANALIZZA TUTTO (O ALMENO CI PROVA), MA CON LE DONNE CURDE NON SEMBRA TANTO FACILE…

    (Gianni Sartori)

    Chi avesse incautamente seguito la trasmissione “Alle falde del Kilimangiaro” (e qui verrebbe spontaneo un bel “paraponziponzipò…”, alla Vianello) del 6 marzo 2016 avrebbe potuto assistere ad una incredibile messa in scena, un’opera di mistificazione, un concentrato di banalità e luoghi comuni degni del peggior monoblocco mentale (definizione popolare del “pensiero unico”) mai concepito dalla Società dello Spettacolo.
    Debordianamente, quella in cui “il vero è un momento del falso”.

    La conduttrice Camilla Raznovich presentava il libro dell’economista Loretta Napoleoni sulle donne nell’Isis. Maldestramente però associava questo argomento a foto e immagini dell’attività’ di difesa, di territori e popolazioni, da parte delle donne curde combattenti in Rojava proprio contro le milizie del Daesh.
    Confondendo temi e contenuti (e anche, in un certo senso, vittime e carnefici) e disinformando in merito al reale svolgimento delle azioni perseguite da più di due anni dalle combattenti curde dell’ Ypj (unita’ di difesa delle donne) in Rojava.

    Sia il montaggio fotografico che il contenuto dell’intervista evidenziano una totale impreparazione (escludiamo pure la malafede) nel trattare l’argomento. Confondere il terrorismo con la difesa delle popolazioni da parte delle donne curde Ypj (arrivando a dire: “la donna combattente rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia del terrorismo” mentre contemporaneamente andavano in sovrimpressione le fotografie delle donne combattenti curde) costituisce un esempio di disinformazione assoluta e una mancanza di rispetto, oltre che per le donne curde, per gli utenti del servizio pubblico.
    Parlare di “sciattezza intellettuale ed errata informazione” è stato, da parte di UIKI Onlus (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), solamente un educato e moderato eufemismo. Si sarebbe potuto dire molto, ma molto, di peggio.
    Come se non bastasse, si rasentava l’infamia evocando il “ratto delle sabine” (presentate come donne sedotte e non vittime di stupro) per parlare delle donne rapite, violentate, in molti casi ammazzate, dai fascisti di Daesh.
    Un velo pietoso poi sulla congenita abitudine eurocentrica di trattare i popoli del resto del mondo come “arretrati” e parlare di emancipazione femminile e lotta per l’uguaglianza come prerogativa dell’Occidente, cancellando di colpo la democrazia paritaria e l’uguaglianza di genere in atto da oltre un decennio tra i curdi (sia in Rojava che nel sud-est della Turchia)

    Daria Bignardi (direzione di RAI3) si è già scusata pubblicamente, a nome del programma, con i rappresentanti curdi e avrebbe richiesto una “relazione approfondita” sull’autogol televisivo, ma l’episodio rimane comunque un fatto gravissimo e va stigmatizzato.
    Gianni Sartori

    * “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”
    (Guy Debord)

  4. Per le resistenze di ieri e di oggi, celebriamo il 25 aprile!

    Quest’anno celebreremo insieme ai compagni e alle compagne italiane il 25 aprile, festa della Liberazione dal nazi-fascismo e della resistenza.

    Proprio come i partigiani e le partigiane di allora, oggi i curdi si difendono dagli attacchi fascisti di Daesh in Siria e Iraq, dalla distruzione delle loro città in Turchia, dove con la scusa della lotta al terrorismo lo stato turco negli ultimi mesi ha massacrato in modo atroce centinaia di civili e raso al suolo intere città. Ma i curdi si difendono anche dalla repressione del dissenso, meno visibile ma altrettanto, dura in Iran, dove si procede a colpi di condanne a morte contro curdi e oppositori.

    In questi mesi state create unità di difesa popolari nelle città curde e non più solo nelle montagne. Queste unità hanno molto in comune con i gruppi di azione partigiana che operavano in molte città italiane verso la fine della seconda guerra mondiale. Il popolo le sostiene queste unità e si sente protetto da loro, anche se purtroppo sta pagando un caro prezzo per via della pesante repressione del governo turco.

    Il nemico di ieri in Italia e in Europa si chiamava fascismo e nazismo; ma anche quella parte di popolazione che ha sostenuto questi governi totalitari e ne ha condiviso obiettivi e atrocità. Anche oggi da noi, in Medio Oriente, e specialmente in Turchia, l’esercito non è l’unico nemico del popolo curdo: si è di fronte a una società – quella turca – sottoposta a continue spinte verso l’intolleranza contro le minoranze, per affermare che in Turchia c’è “un solo stato, un solo popolo (quello turco), una sola lingua, una solo bandiera”.

    Il progetto dei criminali del Daesh è simile: nessuna tolleranza verso chi non è come loro, disprezzo della diversità e pratica del genocidio. Quindi è ancora fascismo e nazismo.

    Oggi come ieri è necessaria l’autodifesa. Serve una grande mobilitazione antifascista e a sostegno degli altri popoli nei confronti dei popoli oppressi. Occorre una partecipazione popolare che vada oltre gli interessi cinici degli stati e che sappia agire concretamente ogni giorno per liberare spazi e sottrarli al fascismo, in Italia come in Kurdistan. Siamo tutti parte della stessa lotta e siamo dalla parte giusta. Siamo quindi con tutti i popolo resistenti che amano la libertà e lottano contro fascismo di ogni suo genere.

    Viva la resistenza!

    Viva il 25 aprile!

    Viva l’antifascismo e viva il Kurdistan!

    Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia -UIKI onlus

  5. LA TURCHIA VERSO IL FASCISMO? PER ORA ERDOGAN E L’OLIGARCHIA TURCA STANNO ANCORA MUOVENDO I PRIMI PASSI, MA LA DIREZIONE E’ QUELLA…
    (Gianni Sartori, 22 maggio 2016)

    Mentre l’oligarchia turca, colonialista e fascista, prosegue nella sua politica di distruzione e saccheggio in Kurdistan, lo Stato turco e il Presidente Erdogan si stanno indirizzando verso un modello sempre più autoritario .
    La nuova guerra contro i curdi era cominciata nel luglio del 2015, dopo la sospensione del processo di pace e con l’isolamento completo imposto al dirigente curdo Abdullah Ocalan.

    Poi erano cominciate le azioni suicide contro i civili, quelle che UIKI aveva stigmatizzato come “un’operazione congiunta AKP-ISIS”. Cinque persone erano rimaste uccise a Diyarbakir, 33 a Suruc e un centinaio ad Ankara. Negli stessi attacchi oltre 900 persone erano rimaste ferite.

    In una seconda fase dell’operazione, erano entrati in azione esercito e polizia turchi.
    Da mesi in molte città del Kurdistan è stato dichiarato il coprifuoco.
    Cizre, Silopi e Sur sono stata quasi completamente distrutte e solo a Cizre 120 civili sono stati bruciati vivi in una cantina. Un massacro documentato anche da ONU, HRW e Amnesty International.
    Nusaybin, Yuksekova e Sirnak stanno ora vivendo tragedie analoghe e ormai tutte le città curde sono quotidianamente sotto attacco. Oltre 800 civili, in maggioranza donne e bambini, sono stati uccisi dall’esercito turco.
    Chiunque abbia osato esprimere critiche alla guerra voluta da Erdogan è stato pesantemente minacciato, compresi i 1028 accademici che avevano firmato l’appello: “non vi seguiremo in questo crimine” (molti di loro sono già stati licenziati). Messi a tacere anche i media con la minaccia di azioni legali. Centinaia di giornalisti restano in prigione e chiunque abbia il coraggio di opporsi al delirio di onnipotenza di Erdogan viene etichettato come “terrorista”.
    Presumibilmente lo scopo di Erdogan con la sua annunciata “riforma
    dello stato in senso presidenziale” (bonapartismo?) è quello di svuotare il sistema parlamentare. Un importante passo in direzione di questo obiettivo è stato compiuto revocando l’immunità parlamentare dei deputati dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli, all’opposizione) accusati di fiancheggiamento al PKK per aver sostenuto il processo di pace.
    Complici dell’AKP (il partito di governo, privato recentemente del presidente
    e primo ministro Davutoğlu), il MHP (i “lupi grigi”, fascisti) e il CHP (Partito Repubblicano del Popolo, kemalista e soidisant “socialdemocratico”). Confermando ancora una volta che l’unica cosa che accomuna quei partiti che rappresentano il nazionalismo di Stato (AKP, MHP e CHP) è l’ostilità nei confronti del popolo curdo,

    L’UE, gli USA e la NATO si sono limitati a qualche blanda dichiarazione (del tipo: “la democrazia è in pericolo”; o anche: “la qualità della democrazia sta scadendo”) minimizzando la gravità di quanto sta accadendo e rendendosi di fatto corresponsabili di questo atto dittatoriale compiuto da un loro alleato strategico. Mentre il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, osava parlare di “colpo alla democrazia turca e alla libertà politica”, la cancelliera Angela Merkel (che si era spesa per firmare l’accordo con la Turchia per bloccare i profughi) ha dichiarato che in futuro “solleverà il problema”. Un comportamento sicuramente gradito da Erdogan che così non deve preoccuparsi di interferenze esterne.
    Ma dal punto di vista dei curdi: “La democrazia in Turchia è finita!”.

    Se davvero (per ipotesi, puramente accademica) volessero salvaguardare la democrazia e la stabilità nella regione, le potenze occidentali (invece di collaborare con uno Stato che, mentre sostiene l’ISIS, fa la guerra al popolo curdo) dovrebbero applicare sanzioni economiche, militari e politiche nei confronti di Ankara.
    Quanto all’obiezione che in fondo Erdogan è stato eletto, basti ricordare che lo era stato anche Hitler.
    E’ cosa nota che quando un regime vuole togliersi di torno le opposizioni in Parlamento, non deve far altro che privarle dell’immunità (per poi magari incarcerare qualche deputato). E queste sembrano essere le intenzioni di Erdogan. Nel frattempo prosegue l’opera di eliminazione fisica dei semplici militanti nelle strade, nelle prigioni e sulle montagne.
    Gianni Sartori

  6. IN MEMORIA DI DUE ANTIFASCISTI
    (Gianni Sartori, 2016)

    Quindici anni fa, quasi nello stesso giorno (rispettivamente 9 e 11 febbraio 2001), se ne andavano due tra i maggiori esponenti dell’antifascismo militante nel Vicentino.
    Il Tar, Ferruccio Manea, a 86 anni; Ferrer Visentini a 90 anni.
    Quella della morte quasi sincronica non è stata l’unica coincidenza. Le loro vite in qualche modo si erano già incrociate.
    Nato a Trieste, Ferrer Visentini (il nome gli era stato in memoria del pedagogista libertario fucilato a Barcellona nel 1909) mi aveva raccontato con partecipazione, direi anche con orgoglio, di aver conosciuto il fratello maggiore del Tar, Ismene Manea, destinato a perire tragicamente nel 1944 per mano dei nazisti. Avevano combattuto fianco a fianco come volontari internazionali in difesa della Repubblica contro i franchisti (fronte di Caspe e battaglia dell’Ebro).
    Sia Ferruccio che Ferrer parteciparono attivamente alla Resistenza, ma in seguito i loro destini personali erano stati diversi: il Tar quasi emarginato per il suo “estremismo” (tacciato a volte di “anarchismo”), Visentini rispettato militante del PCI e consigliere comunale dal 1956 al 1970.
    Il saluto al Tar lo avevano dato gli antifascisti dell’Alto Vicentino al Circolo Operaio di Magrè di Schio mentre Ferrer Visentini era stato ricordato nella storica Loggia del Capitanio, in piazza dei Signori. Le note dell’Internazionale e di Bella ciao avevano accompagnato l’ultimo viaggio di entrambi.

    FERRUCCIO MANEA, nome di battaglia “TAR”

    Del comandante della “Brigata Ismene” (citato ripetutamente dal compaesano Luigi Meneghello, sia in “Libera nos a Malo” che in “ I Piccoli Maestri”*) conservo una serie di ricordi personali, un collage di incontri e conversazioni, a volte casuali, altre più approfonditi. E tante immagini fugaci di iniziative a cui entrambi abbiamo partecipato. Sia le manifestazioni organizzate a Schio da Lotta Continua (in particolare quelle contro il golpe cileno) che le riunioni nella sede del Gruppo anarchico operaio (GAO) di Marano Vicentino tra il 1973 e il 1974.
    Nel 1974 toccò al Tar tenere l’orazione funebre per il “Borela”, un vecchio antifascista che egli considerava suo maestro. Personalmente avevo potuto incontrare questo anarchico scledense soltanto pochi mesi prima, all’ospizio di Schio dove regolarmente i giovani anarchici dell’Alto Vicentino si recavano a visitarlo. Ricordo che anche l’ultima volta, ormai costretto a letto, si preoccupava di devolvere una parte cospicua della sua esigua pensione a qualche prigioniero politico (in particolare a Giovanni Marini) e a sostegno di Umanità nova, giornale anarchico fondato da Errico Malatesta nel 1920.
    Arrivai appena in tempo per raccogliere qualche testimonianza, poi ampliata dallo stesso Tar, sui precedenti libertari in zona: la visita di Pietro Gori (l’autore di”Addio Lugano Bella”) per l’inaugurazione della prima Camera del lavoro nel vicentino di ispirazione anarcosindacalista; le barricate sulla strada che collega Vicenza con Schio per sbarrare il passo ai fascisti messi poi in fuga a pistolettate da un gruppo di Arditi del Popolo (tra cui il Borela); la partenza forzata per l’Australia di una decina di famiglie di noti militanti anarchici dopo che per loro era ormai diventato impossibile trovare lavoro negli stabilimenti della zona.
    Il corteo che accompagnò, a piedi, il Borela dalla camera ardente dell’ospizio verso il cimitero era composto, oltre che dai familiari, da una cinquantina di compagni: partigiani delle Brigate Garemi, esponenti dell’ANPI, anarchici da tutta la provincia, qualche militante di Lotta Continua e di lotta comunista. Numerose le bandiere nere (con l’A cerchiata rossa) e quelle rosse e nere (tipo CNT e USI). Sventolava anche una in odor d’eresia: rossa con l’A cerchiata nera. Ferma nella memoria l’espressione intensa del Tar, col volto tirato, direi livido. Conclusa l’orazione funebre per il Borela, nel silenzio totale pronunciava quasi un ordine: “Saluto, compagni!”. E decine di pugni chiusi si alzarono, ecumenicamente, senza distinzioni ideologiche, mentre la bara del vecchio Ardito del popolo scendeva nella terra.
    Un altro ricordo, risalente al marzo 1985: il Tar al corteo di Padova indetto per protestare contro l’uccisione a Trieste di un esponente dell’Autonomia padovana (“Pedro” a cui venne poi intitolato uno dei più noti Centri sociali del nord-est). In seguito lo incontrai a Bassano (dove avevo portato una mostra contro l’apartheid, mi pare nel 1987) in occasione dell’incontro-dibattito con un responsabile in esilio del Pan African Congress (PAC, organizzazione dei Neri del Sudafrica, seconda solo a quella di Mandela, l’African National Congress, ANC). Da qualche parte dovrei conservare ancora i negativi delle foto che immortalavano il vecchio combattente antifascista insieme a due esponenti della lotta (anche armata) contro il razzismo istituzionalizzato di Pretoria, non a caso denominato “Quarto Reich”. Una continuità e un passaggio del testimone non soltanto ideali. Lo rividi ancora, sempre nel 1987, ai funerali del partigiano Alberto Sartori “Carlo”. Una scena che non avrebbe sfigurato nella Piazza Rossa, tra decine di bandiere rosse mentre cadeva la neve imbiancando sia la bara che il colbacco del Tar.
    In seguito mi ero ripromesso di tornare a intervistarlo, di telefonargli, ma come spesso accade, rinviai la cosa di mese in mese, di anno in anno e non lo rividi più.
    Invece nei primi anni settanta capitavo spesso a casa sua (e solitamente senza preavviso, forse anche in modo inopportuno, ma mai che mi abbia mandato a quel paese). Prima a Malo, poi nella casa colonica in aperta campagna dove si era trasferito. Passavo in bici, talvolta in moto, magari dopo un’arrampicata in Pasubio o un’escursione in Val d’Astico, Rio Freddo, Posina. Sempre ospitale, davanti a un bicchiere di rosso, se interpellato il Tar riandava volentieri alle sue avventure partigiane tra gli stessi monti. Del Pasubio mi resta la intensa descrizione di un cruento scontro a fuoco tra il Palon e il Dente austriaco. Ma soprattutto il fatto che Ferruccio, a guerra finita, fosse ritornato decine di volte tra quelle pietraie sfregiate dalle trincee per ritrovare e recuperare i corpi dei compagni caduti.
    Altre volte ci avvinceva descrivendo in dettaglio i mille espedienti messi in atto per sopravvivere durante le gelide notti, soprattutto quelle passate in gran parte all’addiaccio durante il primo inverno. Con una tecnica che ricordava il film “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (Jeremy Johnson) mettevano grosse pietre a riscaldare sul fuoco e poi le seppellivano ricoprendole con uno strato di terra. Si stendevano quindi a dormire e, se il lavoro era stato ben eseguito, potevano sperare di dormire fino al mattino successivo mentre le pietre rilasciavano lentamente il calore accumulato. Accadeva talora che lo strato di terra fosse troppo sottile e in questo caso rischiavano bruciature, ustioni o un principio di combustione degli abiti. Se invece lo strato era troppo spesso, il calore finiva rapidamente e ci si risvegliava indolenziti e tremanti per il freddo nel cuore della notte.
    Questo avveniva per esempio in Val d’Assa, destinata a diventare tristemente celebre per l’eccidio di Pedescala e di Forni operato dai nazifascisti nel ’45. Sempre in Val d’Assa (sinistra orografica della Val d’Astico) si svolse un episodio che il Tar ricordava con rabbia. Si trovava in ricognizione con altri due partigiani e si era allontanato da solo per controllare un sentiero quando il silenzio del bosco venne infranto da grida e lamenti. Provenivano dalla radura dove aveva lasciato i compagni. Arrivato sul posto trovò uno dei due agonizzante; rantolando pronunciò le sue ultime parole: “Tar, tradimento!” e indicò la direzione verso cui l’altro (evidentemente una spia, un infiltrato) si era dileguato. Ferruccio si pose all’inseguimento e, ormai allo sbocco della valle, scorse il fuggitivo in lontananza. Forse fu il dolore per il compagno vilmente assassinato, forse il desiderio di vendicarlo (sembra che “Tar”, nome conferitogli da Alberto Sartori, significasse proprio “Vendetta”), fatto sta che nonostante la distanza riuscì a colpire, ma solo con il secondo colpo, l’infame. Dopo questo fatto, temendo di essere stati ormai individuati, il gruppo decise di trasferirsi verso Posina (destra orografica della Val d’Astico). Si accinsero quindi ad attraversare nottetempo la vallata che separa le pendici dell’Altopiano di Asiago da quello di Tonezza, dal Pria forà, dal Summano…Nonostante ogni accorgimento, i loro movimenti non sfuggirono ai numerosi cani presenti nelle contrade tra Cogollo e Arsiero e nella notte si levarono ripetutamente ululati e latrati che avrebbero potuto mettere sull’avviso i fascisti. Riuscirono comunque ad arrivare (“a passo di marcia”) indenni prima dell’alba a Castana e da qui a Posina. Anche se la storiografia non vi ha dedicato molte pagine, si può legittimamente sostenere che in queste valli, per qualche mese, si organizzò una vera e propria Repubblica partigiana, stroncata soltanto dal grande rastrellamento del 1944.
    Proprio sopra Posina e Laghi (separate da un rilievo di modeste dimensioni) si erge il Monte Maggio, da cui è ben riconoscibile Malga Zonta dove un folto gruppo di partigiani (tra cui Bruno Viola, il “marinaio”) venne fucilato dai tedeschi dopo che avevano strenuamente combattuto fino all’esaurimento delle munizioni. A Laghi invece è stato recentemente restaurata la lapide, posta vicino ad un capitello, per il partigiano Vitella morto “in difesa del popolo” durante lo stesso rastrellamento; curiosamente la scritta è sia in italiano che in latino. Tutte queste vittime del nazifascismo erano state compagni di lotta del Tar che, anche a distanza di tanti anni, li ricordava con sincera commozione. Ricordava anche, con gratitudine, il cane che gli era stato vicino in tutte le vicissitudini della Resistenza e a cui, diceva, doveva anche la vita per tutte le volte che lo aveva avvisato anticipatamente di un possibile pericolo.
    La vita non era mai stata tenera con il Tar, un operaio autodidatta che aveva cominciato a lavorare duramente in tenera età. Fu perseguitato dal fascismo e perse il fratello maggiore, Ismene, in circostanze drammatiche. Ismene Manea, muratore comunista emigrato in Francia, aveva combattuto in Spagna con le Brigate Internazionali fin dal 1936, prima nella formazione “Picelli” e poi nella “Garibaldi”. Venne fatto prigioniero dai franchisti nella battaglia dell’Ebro (settembre 1938) e da questi consegnato alla polizia italiana. Inviato al confino a Ventotene, dopo la caduta del fascismo dall’autunno 1943 partecipò attivamente all’organizzazione del movimento partigiano nel Veneto. Il 6 luglio 1944 venne catturato da un gruppo di ucraini al servizio dei tedeschi.
    Torturato in maniera orribile, sarà fucilato il 12 luglio insieme a Giovanni Penazzato. Esistono le immagini, riprese coraggiosamente da un improvvisato operatore nascosto nel palazzo di fronte, del trasferimento dalla Caserma Cella di Schio al luogo dell’esecuzione. Appena saputo della cattura di Ismene, il Tar cercò invano di organizzare una formazione abbastanza numerosa da poter assalire la caserma dove il fratello era rinchiuso. Purtroppo era appena arrivato l’ordine di sganciarsi edi trasferirsi altrove in piccoli gruppi; quindi la maggior parte dei partigiani scledensi si trovava nell’impossibilità di essere allertata. La formazione fu in grado di ricostituirsi soltanto dopo alcuni giorni, troppo tardi per liberare i prigionieri. Successivamente la Brigata del Tar venne denominata “Brigata Ismene”. A questo dolore si aggiunse, proprio nei giorni della Liberazione, la morte prematura del figlio. Un solo rimpianto: non aver preso il mitra per procurarsi, armi alla mano, le indispensabili medicine dove si trovavano in abbondanza, nell’infermeria dell’esercito statunitense a cui si era rivolto invano.**
    Nonostante tutte queste amarezze, negli anni successivi il Tar fu sempre lucidamente a fianco dei movimenti di lotta e contestazione, stimato e amato da varie e successive generazioni di giovani antagonisti.
    Lo ricordano ancora tutti coloro che in momenti e con metodi diversi hanno lottato contro lo “stato di cose presente” (e magari anche futuro): dalla Resistenza al ’68, dalla “breve estate dell’Autonomia” ai Centri sociali…E lo ricordano con le immagini fortunosamente riprese durante la “battaglia di Schio”, mentre corre attraverso una faggeta, piegato in avanti, colbacco ben calcato, pistola nella destra e arma automatica a tracolla…all’assalto del cielo.
    Gianni Sartori

    * nota: “…c’è una società da smontare, pensavo, e forse questa è la volta buona…La società non è stata smontata, però: dopo la guerra l’uomo col berretto di pelo tornò in prigione, e io dico che è una bella vergogna.”
    (Luigi Meneghello, I Piccoli Maestri)

    **nota:
    “…ah la liberazione: fu un giorno tremendo.
Non potendo comprare la penicellina mio figlio l’ho visto morire mentre chi aveva il denaro quelli hanno sopravvissuto, mentre mio figlio è venuto a morire, il mio primo figlio, che aveva già sofferto scappando qua e là. Mai potrò perdonare questa infame società…io, ero pieno di miseria tanto, è vero che quando è morto mio figlio alla liberazione non avevo neanche diocan quelle 20 mila lire da prendere la penicellina che veniva venduta al mercato nero, così chi che gavea denaro, i figli dei ricchi oppure anche i vecchi che oramai avevano fatto una esistenza, avevano la possibilità di prendere la peniccellina e hanno protratto, la loro vita ancora per altri mesi o qualche anno, mio figlio invece che era nel fiore della vita perché non avevo una manciata di vile denaro da comprare questa penicellina, mi è morto proprio alla liberazione, subito dopo la liberazione quando tutti inneggiavano alla libertà ed erano tutti felici,
alla vittoria insomma, io purtroppo ho conosciuto una delle più grandi amarezze, per non avere questo denaro per comprare la penicellina. Così voglio dire che non perdonerò mai a questa società diocan ”
    (dai ricordi del Tar registrati da A. Galeotto)

    “Purtroppo solo la somministrazione di penicillina, venduta allora al mercato nero avrebbe potuto strapparlo alla morte…ma noi non disponevamo di tanto denaro. E pensare che appena una decina di giorni prima mio marito, che aveva nomea di “ladro di galline”, alla testa di un reparto della Brigata da lui comandata aveva ritrovato a Longa di Schiavon ciò che molti cercavano in quelle ore: il tesoro della sinagoga di Firenze trafugato dai nazisti in ritirata. Si trattava di una quarantina di casse ricolme di opere d’arte di inestimabile valore, che mio marito avrebbe potuto dichiarare “preda bellica” ma che preferì invece restituire immediatamente alla comunità ebraica”.
    (Alessia Giustina, moglie del Tar)

    FERRER VISENTINI, in Spagna per la Libertà
    (Gianni Sartori)

    Ferrer Visentini era nato a Trieste nel 1910. Il padre Ulderico, un calzolaio prima socialista e poi tra i fondatori del Partito comunista a Trieste, venne assassinato dai fascisti nel 1922. Gli aveva dato questo nome in memoria di Francisco Ferrer i Guardia, famoso pedagogista anarchico catalano fucilato l’anno prima, il 13 ottobre 1909 a Barcellona. Nativo di Trieste si considerava ormai pienamente vicentino avendo vissuto nella nostra città per molti anni in qualità di membro dirigente del P.C.I. prima e del P.D.S. poi.
    In anni ormai lontani lo avevo intravisto nell’antica sede comunista vicentina (anche insieme a Sartori Antonio, altro operaio comunista volontario in Spagna) e poi meglio conosciuto alla presentazione di una sua preziosa pubblicazione sui volontari vicentini nella Guerra civile spagnola (“In Spagna per la libertà” Ed. ANPI Prov. di Vicenza). Fu in quella occasione che parlammo di Ismene Manea la cui foto segnaletica è riprodotta a pagina 48.
    Tra i partecipanti, il poeta Fernando Bandini, autore della prefazione, Eugenio Magri, giovanissimo gappista durante la Resistenza, Gino Morellato che dopo aver combattuto nelle Brigate internazionali partecipò alla Resistenza francese raggiungendo il grado di capitano dei F.T.P. (Francs-tireurs et partisans, il movimento di resistenza interna francese creato ancora nel 1941 dal Parti communiste francais, PCF)
    Lo rincontrai un paio di volte verso la metà degli anni novanta riportandone questa intervista. Troppo breve per riassumere in modo esauriente una vita tanto avventurosa, ma forse in grado di delineare la personalità di un “rivoluzionario di professione” del secolo scorso.

    D. Innanzitutto qualche cenno biografico…
    F.V. Provengo da una famiglia di socialisti, mio padre, un calzolaio con la terza elementare, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Trieste. Mi chiamò Ferrer per un motivo ben preciso, un mio fratello fu chiamato Darwin, un altro Giordano Bruno…Nel 1926 mi iscrissi alla gioventù comunista cominciando molto presto a svolgere attività clandestina. Diffondevo materiale propagandistico in città e nei cantieri navali. Nell’ottobre del 1930 venni chiamato dalla direzione nazionale giovanile a dirigere l’attività clandestina in Lombardia. Per questo sfuggi all’arresto al momento della caduta dell’organizzazione giovanile a Trieste e, sempre nel ’30, venni inserito tra i latitanti ricercati dalla polizia politica. A Milano, con documenti falsi, resistetti pochi mesi. Venni arrestato il 21 gennaio 1931 in seguito a una retata a Sesto San Giovanni.

    D. Cosa è poi successo? Il carcere, il confino…?
    Il carcere di sicuro. Sono stato processato dal Tribunale speciale e condannato a nove anni di reclusione per ricostituzione del partito Comunista. Fui inviato prima a Lucca, dove rimasi dal ’31 all’estate del ’33 e poi a Civitavecchia, dove vennero concentrati i politici. Venni amnistiato nell’ottobre del ’34 per la nascita del figlio del Re.
    Ritornai a Trieste mesi in libertà vigilata e nel maggio ’35 scappai riprendendo l’attività clandestina. Ma mi andò male, venni ripreso e inviato al confino per due anni, dal ’35 al ’37, a Ponza. Il 24 maggio 1937 espatriai clandestinamente con un passaporto falso fornitomi dal partito e arrivai a Parigi il 27 maggio. Un ricordo direi sconvolgente risale all’ultima domenica di maggio quando partecipai alla grande manifestazione in memoria dei trentamila comunardi trucidati nel maggio 1871. Un milione di persone percorse i boulevards inneggiando alla memoria della Comune e in difesa della Repubblica spagnola. A Parigi collaborai con Ruggero Grieco (segretario del partito comunista) alla redazione di “Lo Stato Operaio”.
    Io avrei voluto andare subito in Spagna dove era già in corso lo scontro armato tra i repubblicani e i franchisti, ma il partito non era d’accordo. Raggiunsi ugualmente la Spagna nel dicembre 1937 con Giuseppe Boretti che avevo conosciuto a Ponza e che era riuscito a fuggire dalla compagnia militare di disciplina di stanza a Ponza, riparando a Parigi. Questo compagno morì durante la battaglia dell’Ebro. Dopo un periodo di addestramento militare che mi fu molto utile poiché non avevo fatto il soldato in Italia, a Quintenar de la Republica, venni assegnato al IV Battaglione della Brigata Garibaldi. Qui svolsi mansioni di responsabilità del partito.

    D. Quel periodo segnò il ripiegamento dei repubblicani…
    F.V. I franchisti, grazie al consistente aiuto di fascisti e nazisti, erano all’offensiva su tutti i fronti. Ruppero il fronte a Caspe e avanzarono fino al mare, tagliando in due parti il territorio della Repubblica. Il nostro comando dispose il trasporto immediato verso la Catalogna di tutti gli organici dei centri di addestramento delle formazioni internazionali che si trovavano nella provincia di Albacete. Ci ricongiungemmo con le rispettive unità militari ed assieme ad altre unità spagnole prendemmo posizione lungo l’Ebro. La situazione era molto grave: l’esercito repubblicano era diviso in due tronconi. Inoltre eravamo nettamente inferiori nell’aviazione, nell’artiglieria pesante e leggera e nei carri armati; potevamo competere solo nell’armamento leggero. Fu una battaglia durissima. Noi della Brigata Garibaldi entrammo in azione il 3 settembre, prendendo posizione sulla Sierra Caballs* dove rimanemmo fino al 24 settembre. Furono 24 giorni di duri e continui combattimenti con gravissime perdite che raggiunsero l’ottanta per cento degli effettivi. Complessivamente la battaglia dell’Ebro durò tre mesi e mezzo, dal 25 luglio al 16 novembre con perdite complessive, calcolando entrambi gli schieramenti, di oltre 250mila tra morti, dispersi e feriti.
    D. E dopo la Spagna, l’Italia?
    F.V. Non subito ovviamente. Nel dicembre del ’38 con Italo Nicoletto rientrai in Francia. A Parigi continuai a lavorare nell’organizzazione dei volontari antifascisti di Spagna e collaborai al quotidiano “Voce degli Italiani”. Ma lo scoppio della guerra e l’invasione del territorio francese da parte dei tedeschi mi costrinsero a rientrare nella clandestinità. Svolsi il mio lavoro politico tra i migranti con il PCF**. Nel giugno del 1941 venni arrestato dalla Gestapo e inviato al campo di sterminio “KZ” delle SS a Compiegna dove rimasi fino all’agosto del ’44. Con l’avanzata alleata. Durante il trasferimento degli internati in Germania, riuscimmo a evadere con l’aiuto dei partigiani francesi. Dei quattromila che eravamo solo trecento erano riusciti a sopravvivere. Rientrai poi in Italia giusto in tempo per partecipare alla fase finale della lotta di liberazione a Torino. In seguito la vita e gli incarichi mi portarono stabilmente a Vicenza
    Gianni Sartori

    * nota: Sierra Caballs e Pandols, una catena collinare, costituirono quel “fronte di Gandesa” ricordato in una versione della famosa canzone repubblicana:

    Si me quieres escribir
    ya sabes mi paradero:
    en el frente de Gandesa,
    primera línea de fuego

    ** nota: da ricerche successive penso di poter affermare che Visentini ebbe modo di collaborare con il MOI (Main-d’oeuvre immigrée, organizzazione sindacale dei lavoratori immigrati della CGTU – Confédération gènéral du travail unitaire) che aveva attivamente sostenuto la Repubblica spagnola (anche con la partecipazione di suoi membri alle Brigate Intenazionali) e forse anche con il primo FTP-MOI (Francs-tireurs et partisans-Main-d’oeuvre immigrée) sorto nel 1941.
    Del FTP-MOI è nota la vicenda dell’Affiche rouge, un manifesto stampato dai nazisti nel 1943 con le foto di 23 membri del FTP-MOI poi fucilati. Il gruppo era quello guidato dal poeta armeno Missak Manouchian. I nazisti cercavano, peraltro invano, di alimentare l’ostilità dei francesi nei confronti della Resistenza mostrando come a questa partecipassero molti stranieri immigrati (italiani, spagnoli, armeni…) e molti ebrei.

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