Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, intervengo sul provvedimento “Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milosevic; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.
Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di riaprire qualche libro di storia e di riascoltare le versioni ed i racconti di alcuni rappresentanti dell’Associazione nazionale partigiani. Da questo punto di vista è senz’altro utile – lo suggerisco – la lettura dei “Quaderni della Resistenza” pubblicati da parte del Comitato regionale dell’ANPI del Friuli-Venezia Giulia.
La memoria storica va sottratta alla speculazione. Quando parliamo di seconda Guerra mondiale, di fascismo e di Resistenza vi è un’unica storia. Questa storia riguarda tutti gli italiani ma – direi – anche tutti gli europei. È una storia che non può essere né ignorata né oltraggiata. È incontestabile, allora, che la Germania nazista e l’Italia fascista, scatenando la seconda Guerra mondiale, si macchiarono della responsabilità di causare all’umanità oltre 50 milioni di morti, la metà dei quali, circa 25 milioni, civili.
Tra il 1940 e il 1945 si verificò un vero e proprio scontro di civiltà. La libertà e la democrazia alla fine prevalsero, ma il prezzo pagato fu senz’altro immane. Né la “riconciliazione” di cui oggi si parla può comportare il riconoscimento di valori comuni fra chi combatté per restituire il mondo alla libertà e alla democrazia e chi propugnò la cosiddetta civiltà dei cimiteri, dei reticolati e del cono d’ombra dell’Olocausto.
A quasi sessant’anni di distanza, guardiamo con sentimento di cristiana pietà a tutti i morti. Di fronte alla morte, il giudizio si interrompe! La morte rende tutti uguali! Ma fermo e dirimente rimane il giudizio sulle vite consumate. Quelle vite possiamo continuare a giudicare: le vite per la libertà e le vite per il regime. “Tutti uguali davanti alla morte, non davanti alla storia”, scrisse Italo Calvino.
E ancora, possiamo interrogarci non sulle ragioni, ma sulle motivazioni di chi quasi per un soffio o per un impennamento dell’anima, scelse, giovanissimo, di stare dall’altra parte della barricata. Rispondere a queste motivazioni significa trovare una spiegazione storica, non una giustificazione. E comunque nessuna revisione storica potrà mai cancellare gli orrori di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e della Risiera di San Sabba. Nessuna revisione storica potrà mai cancellare i campi di sterminio di Dachau, di Auschwitz e le tante altre stazioni di un’interminabile via crucis di dolore e di vittime innocenti.
La nuova Europa, della quale l’Italia è parte importante e integrante, e che andrà via via comprendendo gran parte dei Paesi dell’Est europeo, nasce dalla Resistenza e dalla liberazione dal nazismo e dal fascismo. Dobbiamo avvertire in modo forte la necessità di ravvivare il ricordo di una storia di cui si rischia di perdere traccia.
Ai giovani andrebbe spiegato che c’è una differenza sostanziale tra dittatura e democrazia e che la forza di una Nazione come la nostra, ma direi la forza dell’intera Europa, sta proprio nella sua memoria storica, non come eredità di un odio e di una vendetta, ma come memoria costitutiva della sua vita civile e politica. L’Europa unita non potrà permettere che rinascano gli orrori del passato.
La nuova Europa ha davanti a sé grosse responsabilità: i problemi enormi di interi popoli che devono riorganizzare il loro futuro sulla democrazia e sulla libertà, affermando il valore universale della pace e della convivenza tra gli uomini come attuale e vitale esigenza, ricostruendo una cultura che sappia ascoltare e che sia in grado di considerare le diversità come una ricchezza.
Nelle zone della frontiera orientale, nelle terre istriane e dalmate, per secoli italiani e slavi hanno vissuto in pace, senza violenza alcuna. L’equilibrio tra le diverse etnie fu mantenuto prima, e per diversi secoli, dalla Repubblica di Venezia, successivamente dalla stessa Austria.
A rompere questo equilibrio è stato il nazionalismo fascista, che introdusse ogni sorta di violenza, compreso un vero e proprio genocidio culturale. Si può dire che la spirale d’odio fu innescata dal discorso di Mussolini a Pola, già nel 1920: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.
Fu così! All’avvento del fascismo seguì una politica di “snazionalizzazione” nei confronti di oltre mezzo milione di slavi incorporati nel Regno d’Italia dopo la prima Guerra mondiale. Il fascismo proibì a queste popolazioni di parlare la loro lingua e di stampare i propri giornali; si chiusero le loro scuole, si sciolsero le loro organizzazioni culturali, sportive e ricreative; si bruciarono le loro sedi.
Si volle, in questo modo, italianizzare e fascistizzare tutta la Venezia Giulia, eliminando ogni espressione politica e culturale slava. Si italianizzarono persino i cognomi. Si trattò di una sistematica opera di colonizzazione dei territori slavi della Venezia Giulia; molti contadini slavi furono cacciati e le loro terre affidate a contadini italiani. Il tribunale speciale emanò sentenze di condanna a morte anche nei confronti degli sloveni, colpevoli – si dice – di cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni italiane.
Il 5 aprile 1941 l’Italia dichiarò guerra al Regno di Iugoslavia. Fu un’aggressione, come si sa, assolutamente immotivata. La Iugoslavia soccombette alle 56 divisioni italiane, tedesche, ungheresi e bulgare. Fu l’inizio di una violenza inaudita, di massacri di civili, di fucilazioni di partigiani. Lo Stato iugoslavo fu smembrato e diviso tra la Germania e l’Italia. In Croazia il Governo fu affidato ad un fascista croato, Ante Pavelic, e agli ustascia. Vennero armati cetnici e ustascia, che iniziarono una lunga lotta intestina che causò quasi 800.000 morti.
Iniziarono anche le deportazioni di massa: decine di migliaia di civili, vecchi, donne e bambini, vennero rinchiusi in tanti lager gestiti da italiani, come quello di Arbe, l’attuale Rab. È questa un’altra pagina vergognosa dell’occupazione italiana della Slovenia che contribuì ad allargare la spirale d’odio.
Dopo l’8 settembre il Friuli e la Venezia Giulia escono dalla sovranità italiana per essere affidati a un commissario nazista. Con ordinanza di Hitler si costituì la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana; territori destinati a diventare una marca del Terzo Reich tedesco, qualora la Germania avesse vinto la guerra.
Le formazioni fasciste della Repubblica Sociale vennero usate per l’attività poliziesca, delatoria e antipartigiana sotto il comando delle SS. Questo fu il vero ruolo dei fascisti, del Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” e dei battaglioni della X MAS, tanto cari all’onorevole Menia da citarli – come dicevo – nella relazione al provvedimento in esame!
La resistenza iugoslava agli aggressori fascisti e nazisti iniziò già nel luglio del 1941; come si sa, fu guidata dai comunisti di Tito unitamente alle diverse espressioni del nazionalismo iugoslavo. Si fece valere l’equazione “italiano uguale fascista”, equazione che le migliaia di italiani che morirono combattendo al fianco delle formazioni partigiane slave riuscirono solo in parte a mettere in discussione. Del resto, tale equazione era stata introdotta e diffusa proprio da Mussolini.
Qui va ricercata la ragione per cui le foibe del 1943 in Istria furono la tomba anche di qualche innocente che aveva il torto di essere italiano.
Dopo l’8 settembre molte regioni iugoslave insorsero contro gli invasori perpetrando persecuzioni particolarmente violente. Le vittime furono, a volte, semplici impiegati comunali, simbolo del potere dominante italiano, commercianti e piccoli gerarchi locali, sacrificate sull’altare di vendette personali che poco c’entravano con la politica e la guerra.
Tristemente esemplare – lo voglio ricordare – è l’uccisione della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole unicamente di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. L’allora rettore dell’università di Padova, il grande antifascista professor Concetto Marchesi, volle apporre una targa in ricordo della studentessa presso la sua università.
È indubbio che tra gli insorti vi fu anche la presenza di autentici criminali. La vicenda delle foibe è stata, sicuramente, una grande tragedia. È comunque da rifiutarsi, perché aberrante, un accostamento tra foibe da una parte e Shoah dall’altra che, con la Risiera di San Sabba, visse sul confine orientale una pagina particolarmente drammatica. Quest’ultima fu il frutto razionale e scientifico dell’ideologia nazista, la stessa che produsse Auschwitz, Mathausen e Dachau.
I partigiani slavi e italiani non hanno mai avuto tra le loro finalità la purezza della razza, così come risulta fra l’altro dalla relazione finale della commissione mista italo-slovena che recentemente ha concluso i propri lavori.
Diversamente i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati inferiori: ebrei, slavi, zingari. Stessa sorte era ovviamente riservata agli oppositori politici. Il metodo adottato dai nazisti era il ricorso agli eccidi di massa, alle stragi, alle rappresaglie contro ostaggi innocenti. Ecco allora che usare le foibe come contraltare dell’Olocausto per dimostrare che tutti sono stati ugualmente colpevoli e operare, così, una indiretta rivalutazione del fascismo è un esercizio da evitarsi.
Rimane la gravità degli infoibamenti anche come conseguenza dello scoppio di odi e rancori collettivi a lungo repressi.
Alle foibe del 1943 seguirono le foibe dell’aprile-maggio 1945. Anche in questo caso vi furono coinvolti non solo fascisti e nazisti, ma altresì persone che con il fascismo non c’entravano: è ragionevole pensare, allora, che qualcuno c’entrasse in quanto italiano. Fu sicuramente la conseguenza dell’odio che permeava il confine orientale; fu la conseguenza dell’imbarbarimento dei costumi, dello stravolgimento dei valori, degli odi nazionali.
Nelle foibe finirono anche esponenti del CLN che si opponevano all’annessione dei territori italiani di confine da parte di Tito, il quale, sul finire del conflitto, assunse l’antico comportamento di tutti i vincitori di guerra: annettere parti, anche consistenti, del territorio degli sconfitti, proprio nella logica del nazionalismo espansionistico.
E, infine, è possibile collegare le foibe con l’esodo, è possibile, cioè, considerare l’esodo come la conseguenza della paura delle foibe?
Un illustre istriano, il professor Diego de Castro, autore di due pubblicazioni (“La questione di Trieste” e “Memorie di un novantenne”) lo esclude. Se si fosse trattato di pulizia etnica i morti sarebbero dovuti ammontare a centinaia di migliaia. Le motivazioni erano, piuttosto, politiche e non etniche.
Si può dire, in riferimento all’esodo, che solo le persone fuggite nel maggio 1945 lo fecero per paura dell’infoibamento: si trattava di persone compromesse con i fascisti e con i nazisti. Sicuramente i grandi esodi, da Fiume nel 1946 e da Pola nel 1947, non sono ascrivibili a questa paura.
Non è certamente ascrivibile alla paura delle foibe l’ultimo esodo, quello del 1955, conseguente all’Intesa di Londra dell’ottobre 1954 che definì la spartizione del territorio libero: Trieste all’Italia e la zona B, comprendente fra le altre le cittadine di Pirano, Umago, Porto Rose, Isola e Capodistria alla Iugoslavia. L’esodo fu la conseguenza di una precisa scelta di libertà: vivere sotto il regime comunista di Tito, con un confine chiuso e una frontiera invalicabile, o, invece, scegliere l’Italia.
Si trattava di optare per la cittadinanza italiana o per quella iugoslava. Per la grande maggioranza degli istriani era impensabile vivere separati da Trieste, considerata la vera capitale dell’Istria.
Questa è stata la vera tragedia dell’Istria, assieme, ovviamente, a quella degli infoibati, che vanno ricordati con pietà e ai familiari dei quali è doveroso conferire una medaglia in ricordo, escludendo coloro i quali hanno compiuto efferati delitti contro la persona e hanno giurato fedeltà e volontaria sudditanza al supremo commissario del Terzo Reich.
L’esodo è stato un’immane tragedia umana. Una ferita che, così come è stato scritto, inciderà fino alla morte nell’animo di tutti coloro i quali abbandonarono la propria terra. Per questo l’abbandono non rappresentò l’ultimo momento del dolore, ma soltanto il suo inizio.
Una tragedia, dicevo, immane che, come sostiene Mario Bonifacio, istriano, classe 1928, antifascista, andatosene con la famiglia da Pirano nel 1955 e che oggi vive a Venezia ed è attivo nell’Istituto storico della Resistenza di quella città, determinò la scomparsa dei cosiddetti istro-veneti, la popolazione veramente autoctona dell’Istria, almeno da 2.500 anni. Si tratta dei discendenti degli Istri, affini ai Venetici e, al pari degli altri veneti, culturalmente latinizzati da Aquileia.
Questa è storia! Io voterò questo provvedimento! Lo farò perché ritengo giusto ricordare chi è morto in modo orrendo nelle profondità delle foibe carsiche. Lo farò perché ritengo sia inderogabile ricordare il dramma dell’esodo istriano-dalmata; vorrò farlo, però, nella chiarezza più assoluta.
Delle nefandezze e delle violenze perpetrate anche dall’esercito italiano in Iugoslavia mi ha parlato a lungo un artigliere, mio padre. La sua divisione, nel Sud della Iugoslavia, dopo l’8 settembre 1943, si riscattò combattendo non contro, ma assieme alle partigiane e ai partigiani di Tito; non facendosi prendere dai tedeschi, ma facendo prigioniera un’intera divisione tedesca. Poi, gli artiglieri italiani si imbarcarono per Bari e da lì, assieme agli Alleati, parteciparono alla liberazione totale dell’Italia. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).