I vecchi ergastolani di porto Longone, poi porto Azzurro, il carcere di massima sicurezza dell’isola d’Elba, nel secolo scorso, a chi chiedeva quanto tempo ancora avevano da trascorrere dietro le sbarre rispondevano «oggi, domani e sempre». Per gli ergastolani nazisti la battuta va, invece, rovesciata: «né oggi, né domani e né mai». Ieri mattina è arrivata un’altra sentenza: al carcere a vita è stato condannato Alfred Stork, 90 anni, ex caporale della terza Compagnia del 54° battaglione Cacciatori delle Apli (Gebirgs-Jager). Fu uno degli esecutori dell’orrendo massacro di Cefalonia. Cinque-seimila militari della divisione Acqui trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca. «Traditori, traditori» urlavano mentre facevano partire le raffiche mortali. «Il peggior delitto di tutte le guerre moderne», disse a Norimberga il pubblico accusatore generale Tajlor. Con la condanna di Stork, siamo arrivati ormai a 32 ergastolani di qualità fuori dal comune: la pena gli è stata inflitta, ma loro sono liberi e tranquilli nei loro paesi. La Germania si è liberata dal nazismo o, meglio, è stata liberata dal nazismo, ma protegge i «figli», anche se degeneri. L’Italia su Cefalonia tace. Sembra che istituzioni, governi, associazioni abbiano da nascondere qualcosa. Di sicuro avrebbero preferito che l’«Armadio della vergogna» non fosse stato mai aperto.
Al processo che si è concluso ieri hanno testimoniato alcuni reduci da Cefalonia, gente con un’età da 90 in poi. Ecco, qui di seguito, qualcuno dei loro ricordi.
Bruno Bertoldi, 94 anni, «compiuti» precisa, sergente maggiore del reparto autieri della divisione Acqui, comandata dal generale Gandini, decorato a suo tempo da Hitler con la massima onoreficenza tedesca, che gettò in terra e calpestò prima di essere fucilato. «A Cefalonia fu un massacro, presero la gente e la ammazzavano così, con le mani alzate…». «No, in quei tempi non si poteva parlare con i superiori, allora le nostre parole erano Signorsì, Signorno…». «Arrivò una squadra di Stukas sopra di njoi, erano una trentina…». L’Italia del re e di Badoglio era fuggita e gli Inglesi non intervennero in aiuto della divisione Acqui che Mussolini aveva mandato in guerra senza artiglieria contraerea. “…arrivarono le prime pattuglie tedesche, furono falciati tutti quanti, tutti ammazzati, fucilati… Al capitano Pampaloni (Amos Pampaloni, un grande, non dimenticherà mai i suoi compagni, n.d.r.) spararono alla testa, ma la pallottola uscì senza fargli gran danno, rimase sotto i corpi dei compagni morti… Poi i greci lo aiutarono e lui combattè contro i nazisti. …ero anch’io sulla portaerei Garibaldi quando il presidente Ciampi venne a Cefalonia e chiese a Pampaloni cosa pensava di quel che era accaduto. E lui, ricordo, rispose «mi sento ancora perseguitato». «…come prendevano i prigionieri li fucilavano… avevano massacrato un battaglione del 317°, poi, a Troyanata fucilarono seicento soldati e li gettarono in un pozzo, togliendogli tutto quel che di valore avevano indosso… Erano gli uomini del maggiore Klebe che avevamo battezzato ‘il macellaio’». «Mi presero, erano in tre, il capo squadra mi guardò, era di Bolzano, aveva fatto con me la scuola di sottufficiali, mi dette due calci aggiungendo “porco italiano” e, poi, sottovoce “scappa, scappa”, mentre gli altri due urlavano al compagno “sparagli, sparagli”. Al generale Gherzi gli sfilarono gli stivaloni, dopo averlo ucciso. Un greco mi aiutò, dandomi i suoi vestiti, ma riuscirono a catturarmi. Poi seppi che i carabinieri erano andati dai miei genitori perchè firmassero l’atto di morte, in modo da prendere la pensione di guerra, ma mia madre si oppose sempre sperando che tornassi a casa. Infatti ci tornai due anni dopo, alla fine del ’45». Mario Piscopo, 94 anni, già sottotenente. «Ho assistito all’uccisione dei prigionieri, venivano passati per le armi via via che venivano catturati. Cito un piccolo grande episodio. Ritrovai tra le vittime il mio compagno di plotone, il sottotenente Giuseppe Quattrone… Era stato colpito alla nuca: evidentemente, non appena si era arreso gli avevano sparato… Un’esecuzione vera e propria… Ci portarono su una carretta, passammo davanti alla “Casetta Rossa (lì fu sterminata la maggioranza degli ufficiali, n.d.r.), vidi una cinquantina di corpi. Ed era appena l’inizio. L’ex sottotenente racconta del silenzio che circondò, e circonda, questa vicenda. Si incontrò con Simon Wiesenthal: ci disse, “attivatevi”. Ma che potevamo fare? Mica eravamo in Israele, eravamo in Italia, abbiamo fatto il possibile, monumenti ai nostri caduti, ma la televisione ha sempre poco curato i nostri interventi pubblici… Mi sentii dire “Ma che cosa possiamo fare, ormai siamo alleati della Germania”».
Il teste dà notizia di una lettera inviata il 12 maggio 2004 al presidente della Commissione parlamentare sulle cause dell’occultamento delle stragi nazifasciste: «Chiedo che venga accertata – è scritto – la responsabilità di coloro che nascosero quei fascicoli, consentendo l’impunità ai responsabili di esecuzioni di massa da parte di militari tedeschi che premeditatamente uccisero militari inermi». Come si sa, questa risposta, e sono passati quasi 70 anni dai fatti, nessuno l’ha ancora data.
Giuseppe Benincasa, 91 anni, musicante della banda della divisione Acqui. Esordisce il pubblico ministero militare, Marco De Paolis: «Signor Benincasa, allora…». «Non sento, sono sordo, mi posso avvicinare?» Interviene il presidente Antonio Lepore: «Rimanga pure lì, sarà il pm ad avvicinarsi a lei». «Veramente io non ho mai sparato, mi è sempre piaciuta solo la musica e le donne. Suonavo la tromba; ero la prima tromba solista… Abbiamo fatto una specie di referendum, come alle elezioni. Abbiamo votato sì e no e la maggioranza ha votato che dovevamo combattere… Allora mi hanno dato un fucile mitragliatore, ma io ci dissi che non so sparare. Allora mi dettero uno zaino pieno di bombe a mano che dovevo portare in prima linea. Però mi hanno preso e ci levavano tutto, portafogli, anelli. Mi presero pure una piastrina indorata con la Madonna, agganciata conilo filo di ferro… In quella zona quattrocento sono stati fucilati, fra i quali pure gente della Croce Rossa, con la fascia della Croce Rossa, fucilati pure loro. Poi sono riuscito a darmela a gambe, i greci mi hanno aiutato, sono diventato greco, mi hanno fatto la fotografia, sono andato al Comune, il sindaco ci ha messo il bollo e mi hanno dato il nome di Jorgo Jannapulo. Mi hanno portato da Jannapulo padre e gli hanno detto: “questo è tuo figlio”. Però lui ha risposto, “va bene che è mio figlio però non gli posso dare da mangiare perchè non ce l’ho neanche per me».
Arriva la sentenza, ovviamente in contumacia e probabilmente Stork non ne subirà le conseguenze, come i suoi 31 compatrioti. Lui ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, che gli dispiace aver dovuto sparare agli uffuciali italiani, ma poi si è saputo che i componenti dei plotoni di esecuzione erano volontari. Assai più netto fu il sottotenente Otmar Muhlauser, che comandò uno dei plotoni: «Era giusto che si fosse fatto così perchè gli italiani erano dei traditori». Della sua esistenza in vita si seppe nel 2002, ma il procuratore di allora, Antonio Intelisano, poi promosso Procuratore generale, attese che tirasse le cuoia, nel 2009, proprio duurante l’udienza preliminare. Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e parte civile, inviò insieme a chi scrive questo articolo una lettera aperta al Capo dello Stato, pubblicata proprio sul manifesto. Ma non ci fu alcuna risposta. (di Franco Giustolisi da “Il Manifesto”)
Autore: Roberto
Cefalonia, ergastolo per Alfred Stork l’ex nazista che sparò agli ufficiali italiani
Ergastolo per Alfred Stork, l’ex nazista novantenne che a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943. La condanna è del Tribunale militare di Roma, seconda sezione presieduta da Antonio Lepore, dove si è concluso il processo all’ex caporale che vive in Germania a Kippenheim.
«COMODAMENTE A CASA» – L’ex caporale maggiore Stork «non ha avuto il coraggio di mantenere ferma la sua ammissione di colpa, restando comodamente nella sua casa in Germania», aveva detto il procuratore militare Marco De Paolis, che aveva poi elencato le numerose testimonianze che hanno indicato Stork come uno di quelli «che fucilò l’intero stato maggiore della Acqui», nel settembre 1943. La sentenza del Tribunale militare è la prima sentenza emessa in Italia sulla strage di Cefalonia, finora infatti i precedenti giudizi si erano conclusi in archiviazioni o per morte dell’imputato come nel caso del Maresciallo Otmar Muhlhauser.
L’AMMISSIONE – Alfred Stork ex caporale dei Cacciatori di montagna (Gebirsgjager), ascoltato otto anni fa dai magistrati tedeschi, aveva comunque ammesso di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione attivi nei pressi della cosiddetta Casetta Rossa, il 24 settembre. «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori», disse. Alla Casetta Rossa gli ufficiali giustiziati furono 129 (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da parte di due plotoni.
73 UFFICIALI – Quello di Stork, sparò dall’alba al pomeriggio lasciando sul terreno 73 ufficiali, come afferma lo stesso imputato. In quella testimonianza resa in Germania Stork aveva anche aggiunto particolari agghiaccianti: «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l’altro… prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini».
CORPI ANCORA INSANGUINATI – Dure le parole di Marcella De Negri, figlia del caduto Francesco, parte civile nel processo: «Questo frugare nei corpi ancora sanguinanti, nelle tasche di divise dalla giacca slacciata (a cui erano stati tolti i bottoni che avrebbero potuto deviare i colpi dei fucili) per portar via gli oggetti di valore e tenere fra le mani quelle fotografie di bambini, “belli”, e donne che mai più avrebbero rivisto i loro cari massacrati, mi ha convinto alla costituzione di parte civile».
PRIMA SENTENZA STORICA – Soddisfazione per l’avvocato dello stato Luca Ventrelli: «E’ andata come doveva andare, questa è la prima sentenza su Cefalonia di qualsiasi tribunale». Il procuratore De Polis aggiunge: «E’ di fatto, dopo Norimberga, la prima in Europa su Cefalonia». De Paolis ha altri fascicoli su cui sta lavorando e riguardano le stragi naziste in Grecia, a Kos e a Leros, ma anche in Albania. Un fascicolo è aperto anche su ex militari italiani, riguarda la strage di Domenikon, un villaggio della Grecia interna. (da http://storiedimenticate.wordpress.com)
Costituzione, Rodotà: “Ecco perché dobbiamo continuare a batterci”
Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest’accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
(intervista a Stefano Rodotà di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2013)
Moretto, l’ebreo ribelle
Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006. (di Maurizio Molinari “La Stampa”)
12 ottobre 2013: Costituzione, la Via Maestra
Tutte le foto all’indirizzo: http://imgur.com/a/rnvSG
Commemorazione della battaglia del Parauro
La ‘Battaglia del Parauro’, tra le formazioni Partigiane e le milizie fasciste, è stata una delle più violente e sanguinarie; avvenuta l’11 ottobre del 1944 nelle campagne tra Briana (Noale) e San Dono (Trebaseleghe).
Le ‘brigate nere’, provenienti da Padova, Treviso e Venezia, convogliarono in massa, alla volta del Parauro, con l’intenzione di annientare i gruppi partigiani presenti in quell’area.
Nello scontro persero la vita i partigiani ‘Garibaldini’ e di ‘Giustizia e Libertà’: Aiello Cosimo, Bordoni Amleto, De Cesaro Silvio e Zucca Antonio, mentre, dai racconti dei testimoni, tra le fila fasciste i morti sarebbero stati oltre la ventina, con moltissimi feriti.
Ai partigiani caduti va l’onore degli Eroi per il loro sacrificio in nome della liberazione dal nazi-fascismo!
Costituzione, la via maestra
L’Anpi di Mirano sarà alla manifestazione di Roma del 12 ottobre: concentramento riconoscibile da bandiere e foulard ANPI, intorno alle 13.30 in Piazza della Repubblica angolo via Luigi Einaudi (lato est della piazza). Saremo in tanti in quella piazza con le nostre bandiere in difesa della Costituzione nata dalla Resistenza. In una cella di Via Tasso c’era scritto: “SIATE DEGNI DELLE NOSTRE SOFFERENZE E DELLE NOSTRE MORTI”.
Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma
Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Si è gettato dal balcone di casa, al terzo piano di via dei Gracchi intorno alle 15. Aveva 91 anni. In questo brano il regista racconta la sua adesione al Partito Comunista e alla Resistenza nella Roma occupata del 1943. Il testo è tratto da “Guida alla Roma ribelle”.
Era il 7 novembre del 1943. Roma stata appena occupata dai tedeschi, eravamo dopo l’8 settembre. Io e altri due compagni, Renato Mordenti e Marcello Bollero, avevamo deciso con altri gruppi di antifascisti di fare delle scritte per inneggiare all’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, che cadeva appunto in quel giorno. La lotta armata ancora non era nata a Roma. C’erano le prime formazioni dei Gap ma non erano attive. Ci dividemmo per quartieri. A noi tre toccò la zona del centro. Decidemmo di scrivere, a vernice rossa, oltre che “Viva il 7 novembre” anche “Viva Rosa Luxemburg” e “Viva Karl Liebknecht”. Era una mia idea, pensavo che quelli che avevano occupato Roma erano soldati tedeschi, che il nazismo c’era da appena dieci anni, dal 1933, e che magari quei nomi gli avrebbero ricordato i comunisti tedeschi e la tentata rivoluzione nel loro paese. Erano due nomi piuttosto complicati e soprattutto un po’ lunghi da scrivere. A Roma cominciava il coprifuoco e la luce era sempre più scarsa anche perché si faceva economia sull’energia elettrica. Facemmo parecchie scritte, risalendo fino a via Nazionale, più o meno all’altezza di via delle Quattro Fontane. Lì una pattuglia tedesca ci fermò e vide le nostre mani sporche di rosso. Si accorsero anche dei pennelli. Non sapevamo ancora delle deportazioni, ma sapevamo di rischiare di essere arrestati e torturati, e la nostra paura più grande era di non riuscire a resistere e coinvolgere altri compagni. Col coraggio della disperazione facemmo un gesto assurdo: avevamo tre mitra puntati sul petto – ricordo ancora la sensazione del metallo appoggiato qui, subito sotto la gola – e a mani nude li alzammo con forza, quasi sbattendoli in faccia ai tedeschi. Loro rimasero allibiti e guadagnammo quei pochi secondi che ci permisero di scappare correndo in quattro direzioni diverse. Ci spararono ad altezza d’uomo, tanto che giorni dopo andai a curiosare e vidi le scalfitture delle pallottole lungo il percorso fatto. Ma ce la cavammo. Il segno di Roma ribelle restò a lungo: le scritte vennero cancellate ma continuarono a vedersi anche dopo, come i graffi delle pallottole sui muri. Quella sera per prudenza nessuno tornò alle proprie case. Il giorno dopo seppi che neanche i miei due amici erano stati catturati.
Ero responsabile di un gruppo del mio quartiere, Prati, che comprendeva altri cinque-sei giovani. Abitavo su Lungotevere de’ Mellini, al numero 7. Il contatto con il Partito Comunista era avvenuto attraverso Giuseppe De Santis e Antonello Trombadori. Mi fissarono un appuntamento a San Lorenzo, quartiere operaio, dunque speravo che questa volta non avrei incontrato uno studente come me o un intellettuale, ma finalmente un lavoratore. Avrei trovato una persona con “Il Messaggero” davanti agli occhi, seduta in un bar, questo era l’accordo per riconoscerlo. Quando abbassò il giornale, vidi un ragazzo come me, pure lui con gli occhiali: ecco un altro intellettuale!
Ci disse di reclutare altri militanti nella mia zona, per lanci di manifestini e azioni più politiche e di propaganda che propriamente armate. Proposi il mio appartamento per il supporto logistico: era al pianoterra, e in caso di perquisizioni o irruzioni di tedeschi o polizia si poteva fuggire dal retro. Questa sistemazione venne vista con favore: i dirigenti continuarono a chiedermi di tenere le riunioni a casa mia, insospettendo molto mio padre, soprattutto per il viavai di uomini più “anziani” di noi universitari. Un giorno, prima del 25 luglio e della caduta del fascismo, si presentò Giorgio Amendola, allora quasi quarantenne, e dovetti dire a mio padre che si trattava di un produttore cinematografico che stava leggendo un soggetto che gli avevo sottoposto. In seguito venne anche Luigi Longo, che doveva dare disposizioni in vista dell’armistizio. Prima della battaglia di Porta San Paolo si presentarono diverse persone a casa mia, tra questi Vasco Pratolini, per chiedermi “le armi”. Gli dissi che non c’erano armi in casa, era la verità, e in seguito abbandonai l’appartamento. Non bisogna dimenticare che in tutti i movimenti clandestini ci sono spie, doppiogiochisti, persone che non resistono alla tortura o che magari non vogliono mettere in pericolo i propri familiari.
Revine: Manifestazione regionale contro il fascismo
La Via Maestra è la Costituzione, nata dalla Resistenza
Il Comitato di Sezione ANPI “68 Martiri” Grugliasco esprime dissenso verso la Segreteria Nazionale ANPI rispetto al comunicato del 25 settembre, con il quale si è decisa la non adesione alla manifestazione nazionale per la Costituzione “La Via Maestra” prevista a Roma il 12 ottobre, in quanto ritiene che tale decisione sia stata assunta venendo meno a quanto sancito nello Statuto Nazionale e al di fuori degli organismi statutari preposti alle decisioni politiche.
Il Comitato di Sezione ANPI “68 Martiri” Grugliasco ribadisce di avere già aderito convintamente alla manifestazione nazionale La Via Maestra, coerentemente con la mobilitazione avviata a livello nazionale, torinese e locale all’interno dei Comitati per la Costituzione, e in quanto l’unico programma politico-programmatico della manifestazione è la Costituzione, come spiegato ampiamente dal prof. Gustavo Zagrebelsky e da DonLuigi Ciotti, promotori torinesi.
La Costituzione, nata dalla Resistenza, può essere modificata solo se i cambiamenti avvengono in linea con lo spirito della Guerra di Liberazione dal nazifascismo, in equilibrio con l’architettura costituzionale e seguendo le regole dell’art. 138.
L’ANPI, Ente Morale dal 1945, difende e praticala Costituzione con la militanza antifascista quotidiana sul territorio di Grugliasco e ritiene che nell’attuale contesto sia necessario rispondere aglia ttacchi contro la Costituzione portati dal Governo e dalla maggioranza che lo sostiene, lottando uniti nella diversità, sull’esempio delle formazioni partigiane, con tutti i partiti, le associazioni, i movimenti, i comitati e i singoli cittadini che riconoscono l’emergenza democratica e costituzionale attualmente in corso.
A Roma il 12 ottobre ci sarà anche la bandiera della Sezione ANPI “68 Martiri” di Grugliasco, per ribadire che la Costituzione è nata dal sangue di tutti i Caduti per la Libertà, inclusi i 68 Martiri catturati, torturati e uccisi a Grugliasco il 29 e 30 aprile 1945.
Il Comitato di Sezione ANPI “68 Martiri” di Grugliasco
29 settembre 2013