Bologna 30 agosto 1944: 12 partigiani fucilati al poligono di tiro

Monumento a tutti i 270 fucilati al poligono di tiro di Bologna

Al Poligono di Tiro di Bologna vengono fucilati 12 partigiani come rappresaglia per l’uccisione del colonnello Zambonelli della Guardia Nazionale Repubblicana. L’annuncio della avvenuta fucilazione appare il giorno 31 sul Resto del Carlino
Antefatto
… qualche settimana dopo, una nostra squadra in perlustrazione sulla Persicetana, in pieno giorno, avvistò la macchina del colonnello Zambonelli, uno dei più pericolosi comandanti fascisti. I nostri riuscirono a bloccarla e fecero prigioniero lo stesso colonnello, con il proposito di scambiarlo con dieci compagni detenuti nelle carceri fasciste. II comando della brigata nera, anziché aderire alla nostra richiesta, due giorni dopo a Bologna fucilò i partigiani di cui si chiedeva il rilascio. Tale rappresaglia, che rappresentava anche un’aperta sfida, esigeva una nostra immediata risposta e fu così che poco tempo dopo, sullo stesso luogo, venne ad opera nostra giustiziato il colonnello Zambonelli.
Testimonianza di Vito Giatti

Le vittime della rappresaglia al Poligono di tiro:

Atti Floriano, «Nome di battaglia Gianni», nato il 16/9/1922 a Bentivoglio. Prestò servizio militare negli autieri dal febbraio 1942 all’ʼ8/9/43. Militò nel Veneto nella div Belluno e successivamente nella 7a brg GAP Gianni Garibaldi e nella 1a brg Irma Bandiera Garibaldi a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro.

Bentivogli Renato, «Nome di battaglia Renè», nato il 14/6/1912 a Malalbergo. Militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi ed operò a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. Al suo nome a Bologna è stato intestato un giardino.

Bracci Luciano, «Nome di battaglia Toro», nato l’11/2/1926 a Bologna. Militò nella 62a brg Camicie rosse Garibaldi. Cadde prigioniero dei tedeschi mentre tentava di portare in salvo un compagno ferito. Fu rinchiuso nel carcere di San Giovanni in Monte e sottoposto a torture e sevizie. Venne fucilato al Poligono di tiro di Bologna

Bussolari Gaetano, «Nome di battaglia Maronino», nato il 19/9/1883 a S. Giovanni in Persiceto. Discendente da antica famiglia persicetana, partecipò vivamente fin dalla giovinezza alla vita politica della sua città, della quale studiò per tutta la vita la storia passata in tutti i suoi aspetti (aveva in animo di elaborare unʼamplissima «enciclopedia persicetana»). Fu uno spirito ribelle, originale, polemico, libero: ciò spiega anche il passaggio da posizioni socialistiche ed anarchiche ad una temporanea, breve militanza fascista. Ben presto passò allʼantifascismo che manifestò senza cautela tanto da attirarsi l’odio dei gerarchi locali, dei quali denunciò il malgoverno e le sopraffazioni, specialmente nell’amministrazione del consorzio dei partecipanti. Fu confinato e carcerato. Durante la lotta di liberazione venne arrestato e prelevato dal carcere per essere fucilato al poligono di tiro di Bologna

Garagnani Arturo, nato il 3/5/1907 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Garagnani Celestino, nato il 18/10/1913 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Musi Giocondo, nato il 16/10/1914 a Bologna. Prestò servizio militare in fanteria a Bologna. A seguito di una vasta azione di propaganda svolta dal PCI e dalla gioventù comunista a Bologna e nei comuni della provincia, venne arrestato alla fine del 1930. Deferito al Tribunale speciale, con sentenza del 28/9/31, venne condannato (assieme ad altri dodici compagni) a 1 anno di carcere, per costituzione del PCI, appartenenza allo stesso e propaganda. Durante la lotta di liberazione militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di comandante di btg. Il 19/8/44, mentre si accingeva a far saltare il ponte ferroviario in località Due Torrette, fu arrestato ed incarcerato nel carcere di S. Giovanni in Monte (Bologna). venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. E’ stata dedicata una strada di Bologna a lui e a suo fratello.

Nanni Luciano, nato l’8/2/1923 a Bologna. Militò nel 1° btg Busi della 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di ispettore organizzativo di compagnia e operò a Bologna. Già rinchiuso in carcere dal 20/8/44, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Pietrobuoni Agostino, nato il 24/7/1894 a S. Agata Bolognese. Capolega dei braccianti dal 1915, al termine della grande lotta agraria nel Bolognese fu arrestato il 31/10/20 in seguito all’uccisione di Gaetano Guizzardi. Fu processato e condannato nel 1923. Dimesso dal carcere, espatriò a Domont (Francia), dove lavorò e svolse attività antifascista. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu internato nel campo di concentramento di Vernet dʼAriège. Tradotto in Italia, il 29/9/41 la Commissione provinciale lo condannò al confino per 5 anni a causa dellʼattività antifascista svolta allʼestero. Venne liberato il 18/8/43; lasciò Ventotene e fece ritorno al paese natio. Dopo 1’8/9/43 fu animatore della lotta di liberazione a S. Agata Bolognese, assieme ai fratelli Quinto e Ottavio. Partecipò all’attività del btg Marzocchi della 63ª brg Bolero Garibaldi con funzione di commissario politico con grande intensità nonostante stesse perdendo la vista. Fu arrestato a seguito di una delazione il 27/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e trasferito a Bologna. Venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Sghinolfi Alfonso, nato il 10/3/1907 a Monteveglio. Prestò servizio militare in artiglieria a Bologna dal 1942 all’ʼ8/9/43. Militò ad Anzola Emilia nel btg Tarzan della 7a brg GAP Gianni Garibaldi. Catturato il 15/8/44, venne fucilato al poligono di tiro.

Sordi Renato, nato il 14/1/1924 ad Ancona. Già rinchiuso in carcere venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Zanasi Cesare, «Nome di battaglia Cesarino», nato il 15/9/1923 a Bentivoglio. Militò nella 7ª brg GAP Gianni Garibaldi, con funzione di vice comandante di compagnia, ed operò a Bologna. Arrestato il 25/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Siria, agosto 2013

Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio: e l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Salvatore Quasimodo

24 agosto 1944: Strage di Vinca

La lapide con i nomi dei 174 uccisi

La mattina del 24 agosto 1944 olte cinquanta automezzi carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salgono verso il paese di Vinca, toccando Equi Terme, Monzone e altri paesi.
Gli uomini del maggiore Reder e la Brigata Nera “Mai Morti” arrivano al paese di Vinca nella prima mattinata portandosi dietro anche un cannone salendo dal paese di Monzone, mentre altre colonne di nazifascisti accerchiano la zona salendo dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara.
Il paese e i campi circostanti vengono battuti palmo a palmo per tutta la giornata, di quelli che all’inizio del rastrellamento si trovavano dentro il cerchio solo due si salveranno. Il paese viene occupato da uno dei plotoni fascisti, devastato e poi incendiato. Alla sera i nazifascisti rientrano a valle.
Ma l’esperienza maturata in queste cose suggerisce di riprendere la mattina dopo: difatti gli scampati erano tornati a raccogliere i familiari uccisi e per salvare dalle fiamme quello che potevano. In questo modo riescono ad uccidere altre persone.
173 vittime come era già successo a Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo – Bardine e a Valla i cadaveri spesso sono rinvenuti nudi, decapitati, impalati o comunque in condizioni che permettono di misurare l’accanimento dei loro assassini.

Uno storico lunigianese, il prof. Fabio Baroni, punta i riflettori sulle responsabilità avute nell’efferata strage da parte di alcuni cittadini di Carrara. «Ci sono questioni che non si possono archiviare, purtroppo – scrive Baroni – una di queste è il carattere italiano della strage di Vinca. Ho tralasciato, lo scorso anno (2011), di tornare sull’argomento, che mi aveva prodotto offese e denigrazioni, affidando la dimostrazione della partecipazione massiccia di italiani, e in gran parte carrarini, alla strage ad uno scritto scientifico dal titolo significativo: “La strage di Vinca. Un olocausto che attende verità”, pubblicato sull’ultimo numero di Cronaca e Storia di Val di Magra. Da quello scritto si evince ancor di più la responsabilità dei fascisti carrarini, inviati da una importante autorità, allora, a Carrara, non solo nella strage ma negli atti più efferati di quella strage».

Caro nemico ti scrivo

Akihiro Takahashi prima del bombardamento di Hiroshima

La lettera dall’altra sponda della fine del mondo impiegò trentacinque anni per essere scritta. Fu il tempo necessario perché un ragazzo quattordicenne con la pelle penzolante dal braccio come una fodera strappata trovasse il coraggio di diventare vecchio e di non odiare più.
Akihiro Takahashi stava andando verso il suo ginnasio, alle 8 e 15 del 6 agosto 1944, quando un uomo di cui ignorava l’esistenza, ai comandi di un aereo che nessuno a Hiroshima aveva mai visto, fece volare da nove mila metri di altezza la prima bomba atomica usata in guerra sopra la sua testa, e sopra quella di altri duecentocinquantamila esseri umani.
Quando finalmente, ormai vicino ai cinquant’anni, le mani sfigurate dalle orrende cicatrici da radiazioni — i cheloidi — le orecchie dissolte nella città altoforno, gli organi interni consumati dal tenace lavoro dell’atomo, Akihiro poté finalmente guardare negli occhi colui che credeva fosse un demonio, il pilota dell’Enola Gay Paul Tibbets, vedette spuntare qualche lacrima. E pensò che fosse un uomo anche lui, al quale poter scrivere, con il quale parlare. Fu da quell’incontro diretto nel 1980, a Washington, che il ragazzo di Hiroshima e il cavaliere dell’Apocalisse cominciarono a scriversi.
Quel carteggio è improvvisamente affiorato dall’immenso serbatoio di rottami, di pezzi di vite umane, di cose e di dolore che ancora giace sotto la crosta della nuova Hiroshima. Fu il giapponese, che sarebbe divenuto direttore del Museo della Pace, costruito a pochi passi dal ponte a «T» che il bombardieredell’EnolaGayusòcome bersaglio, a impugnare il pennino buono, quello per la grafia elegante del kanji, degli ideogrammi, e a scrivere per primo.
Akihiro e Paul si erano conosciuti a Washington, nel giardino dietro al Russell Building, uno dei palazzi per gli uffici dei parlamentari, dove nel giugno del 1980 era stata organizzata una mostra sul bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki. La tv di Hiroshima, la RCC, aveva pagato il viaggio ad Akihiro, uno degli hibakusha, i superstiti, e aveva chiesto al colonnello pilota del B-29 Enola Gay di incontrare il giapponese. Tibbets aveva accettato, molto a fatica, e sei mesi dopo, in novembre, Akihiro Takahashi trova il coraggio di spedire la sua prima lettera. Comincia, con esemplare timidezza ed educata evasività nipponica a parlare del tempo. «È quasi inverno e qui comincia a fare freddo». Ma non è del clima che vuol parlare al bombardiere. In quel novembre, l’America ha eletto Ronald Reagan presidente e la fama, ingiusta, di “cowboy nucleare” terrorizza Akihiro. «Si ricorda che cosa ci dicemmo mentre lei stringeva le mia mani e sentiva con le dita le mie cicatrici? Ci dicemmo che quando la guerra comincia, va avanti secondo i piani e le dinamiche della guerra e per questo non bisogna mai cominciarla. Io le dissi che non provavo più odio verso l’America neppure mentre ogni giorno devo combattere con le sofferenze fisiche lasciate da quel giorno e certamente non verso di lei, che eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere… soprattutto ora che ho visto le lacrime di un cuore umano scivolarle dagli occhi». Ma, e qui viene al punto, «sono profondamente preoccupato per la politica estera del presidente Reagan… temo che si possa ancora intensificare la corsa agli armamenti nucleari. Spero che lei voglia sentire il cuore di Hiroshima e unirsi a noi nel cercare di impedire che quello che avvenne nel 1945 possa ripetersi. Dobbiamo, lei e io, tornare esseri umani, tornare al punto di partenza, dimenticare quello sfortunato evento».
Il colonnello Tibbets, divenuto nel frattempo generale e poi presidente di una società di aviazione civile impiegherà ben otto mesi per rispondergli. Scriverà a macchina, sulla carta intestata della società Aviation Jet, prendendo subito le distanze. «Chiedo scusa per il ritardo, ma molte cose sono accadute. Ho visto un bel documentario della BBC sulla mia missione e mi ha fatto piacere che abbiano rispettato i fatti, senza interpretazioni». Come per dire quello che Tibbets dirà fino alla morte, che lui aveva semplicemente eseguito, e alla perfezione, la mission, il trasporto e lo sganciamento di Little Boy, la Bomba A. Ma non fa passare la tirata su Reagan, anzi. «Sono contento che il signor Reagan sia succeduto al signor Carter. Penso che sarà un leader migliore per il mio Paese. Stia bene e in buono spirito».
La controrisposta arriva a stretto giro, appena tre settimane dopo, il 23 giugno 1982. Akihiro non molla: «Capisco che abbiamo opinioni diverse, ma mi permetta, dopo avere espresso la mia ammirazione per gli Stati Uniti, di dirle che la pace che a Hiroshima e Nagasaki sogniamo non può essere una pace costruita sulla potenza militare e sulla forza…». E qui, sempre con puntiglioso pudore giapponese, annota: «Ora devo andare tutti i giorni all’ospedale, per problemi al fegato, effetto della bomba atomica». Non lo dice, ma non ce n’è bisogno: quella bomba che tu,
Paul Tibbets, mi hai sganciato sulla testa, mentre andavo a scuola una mattina di agosto. Tibbets, il comandante di quell’aereo battezzato col nome della madre, Enola (che è lo spelling alla rovescia di Alone, sola, tratto da romanzo) non abbocca. È ancora più secco. «Le auguro che il suo nuovo incarico di direttore del Museo della Pace le dia grandi soddisfazioni e contribuisca a raggiungere quel traguardo al quale lei aspira».
Ci vuol altro per scoraggiare un uomo che camminò per ore verso il fiume sul quale galleggiavano cadaveri e dove si buttavano zombie in cerca di un impossibile refrigerio allo strazio delle ustioni. Il 5 ottobre 1982 gli scrive sei fogli fitti di ideogrammi, più disordinati, meno calligrafici, per invitare Tibbets ad apparire con lui in uno speciale della NHK, la autorevolissima tv pubblica giapponese. Gli illustra le bellezze della antiche città imperiali, Kyoto e Nara, cerca di convincerlo a vedere quella nazione nella quale Tibbets non mise mai piede dopo aver visto il fungo alzarsi fino a dodicimila
metri. Appena cinque righe: «Dopo lunga riflessione, purtroppo non posso accettare».
Paul Tibbets non risponderà mai più ad Akihiro Takahashi, che gli riscriverà quattro anni dopo, il 7 settembre del 1987, con un pretesto, una richiesta di dettagli tecnici sulla preparazione della bomba e la missione, tutte cose già notissime. È un modo per cercare di riattaccare discorso. Non funziona. Sedici anni passeranno ancora perché il ragazzo di Hiroshima, ormai ultrasettantenne riprenda calamaio, pennino e carta, nel 2003. «Sono passati vent’anni da quando ci stringemmo le mani e fui pieno di felicità e di speranza… ho lasciato il mio lavoro per il Comune di Hiroshima e mi dedico a raccontare ai bambini che cosa accadde e che cosa fare perché non accada più. Ormai ho 72 anni e non credo vivrò ancora molto. Mi farebbe felice sapere che anche lei, che deve averne ormai 90, dedicasse i suoi ultimi anni a costruire la pace». Silenzio.
L’ultima lettera di Akihiro Takahashi è del 28 agosto 2003, un altro agosto. Gli ha mosso la mano, una notizia che l’ha sconvolto. Dopo anni di abbandono, l’Enola Gay era stato recuperato, restaurato, esibito, in un hangar-museo in Virginia. La vista di quel gigante di alluminio, tornato lucido e nuovo come brillava nel sole del 6 agosto 1945, trafigge il cuore del superstite. «Fummo usati come cavie, noi abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Quell’aereo è la testimonianza di quello che un pastore americano venuto a trovarmi a Hiroshima chiamò il “peccato mortale” degli Stati Uniti, chiedendomi di perdonare. Lei avrebbe il coraggio di dirmi la stessa cosa? Restaurare ed esibire l’Enola Gay è soltanto ostentazione, glielo ripeto, la
scongiuro, quell’aereo va distrutto». Silenzio.
Paul Tibbets morirà quattro anni dopo avere ricevuto l’ultima lettera, il primo novembre 2007. Akihiro Takahashi era stato pessimista: avrebbe vissuto ancora a lungo, dopo l’ultima lettera, perché il destino che aveva fatto di lui uno dei soli quindici sopravvissuti su settanta compagni di scuola lo avrebbe tenuto vivo fino agli ottant’anni. Morì nel 2011, il primo di novembre. Come Tibbets.

VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica Domenica 18 Agosto 2013

La Dichiarazione di Pace di Nagasaki

19 agosto 1944: strage di Bardine di S. Terenzio (Fraz. di Fivizzano – Massa)

Il 12 agosto 1944, lo stesso giorno della strage di Sant’Anna di Stazzema, cinquantatré tra uomini, donne e bambini (28 dai 2 ai 17 anni) erano stati rastrellati in Versilia dai soldati del maggiore Reder.
Una settimana dopo, il 19, vengono portati a bordo di camion sulla strada che da Bardine porta a San Terenzio. Vengono fatti scendere dove una lunga rete metallica sostenuta da pali divide due poderi presso i quali alcuni giorni prima i partigiani avevano attaccato con successo un convoglio tedesco.
Tutti vengono legati con filo spinato alle mani e attaccati con lo stesso mezzo ai pali della recinzione in modo che, appesi per il collo, possano a malapena sorreggersi per non soffocare.
Alcuni vengono seviziati, tutti vengono gambizzati con raffiche di mitragliatrice e lasciati morire impiccati o finiti con un colpo di rivoltella.
http://storiedimenticate.wordpress.com/2012/08/19/bardine-di-s-terenzio-fraz-di-fivizzano-massa-19-agosto-1944/

12 agosto 1944: Ricordiamo quella notte in cui morì l’umanità intera

Le vittime con meno di 16 anni della strage di Sant'Anna di Stazzema

Sono trascorsi 69 anni da quella terribile mattina del 12 agosto del 1944 quando in un piccolo borgo arroccato sulle Alpi Apuane la furia nazista uccise 560 civili di cui 130 bambini. Le atrocità commesse dalle SS furono sconvolgenti. Giunsero a far partorire una donna, Evelina, e prima di ucciderla, dinanzi ai suoi occhi, spararono alla tempia del figlioletto. Furono trovati ancora uniti dal cordone ombelicale. Quella mattina di 69 anni le SS, guidate da alcuni fascisti locali, a Sant’Anna portarono l’inferno in un luogo che si riteneva fosse lontano dai venti di guerra. Ma quel giorno oltre all’eccidio delle 560 vittime, avvenne un crimine ancora maggiore che è la morte dell’uomo, della sua umanità. Un crimine, o meglio un suicidio, che la storia ci ricorda troppe volte accadere, basti pensare ai campi di concentramento, alle tante guerre che incendiano il mondo.
L’atrocità di certi atti è difficile da elaborare e così si commette l’errore di non ricordarla, è come se si innescasse nella mente un meccanismo di difesa. Freud sosteneva: “La mente allontanerà sempre, ancorché inconsciamente, la realtà dolorosa”. La realtà è che troppo doloroso concludere che in potenza ognuno di noi, se inserito in ideologie malvagie, se cresciuto in sistemi di violenza , può trasformarsi in un mostro. Ma la storia dovrebbe servire proprio a indicarci delle linee da seguire per evitare certe deviazioni. Purtroppo questo non sempre accade e l’uomo necessita di rivivere certe brutalità, spesso, invece di proporre dei modelli diversi alle violenze che si è subito, le vittime diventano carnefici.
Quello che sta patendo il popolo palestinese ne è un’aberrante prova. Per le recenti guerre che ci hanno visti anche direttamente coinvolti come in Iraq e Afghanistan, addirittura ci si erige a paladini della libertà e con questo vessillo si bombardano Paesi, si spolpano di ricchezze territori uccidendo migliaia di civili. Per non parlare poi dell’ipocrisia, anche violando l’articolo 11 della Costituzione, allorquando si parla di missioni di pace. L’ultima, in ordine di tempo, uccisione di un soldato italiano raccoglie questa incongruenza in una foto di Repubblica in cui una frase di un conoscente del caduto affermava in virgolettato che quest’ultimo era un portatore di pace, che amava la pace e in basso c’era la foto di un nostro militare armato fino ai denti pronto all’assalto.
Su questo occorre essere chiari: la pace, quella vera, la si conquista con il paziente dialogo, seminando il bene e non con le armi!
È fondamentale, specie per i più giovani, tenere viva la memoria. Ma ancora più importante è insegnare ad attualizzare ciò che è successo 69 anni fa, capire oggi dove, in che forme e per quali motivi si eserciti il male della guerra. Occorre capire insieme ai giovani il perché siamo così succubi dei potentati militari tanto che, nel nostro Paese, investiamo quotidianamente 70 milioni di dollari in armamenti e dobbiamo acquistare dei cacciabombardieri difettosi per i quali ogni singolo casco costa due milioni di dollari.
Occorre capire perché questo Sistema mondiale investa ogni anno 1.753 miliardi di dollari in armamenti quando ne basterebbero circa 40 per porre fine alla fame nel mondo.
Alla nuova generazione deve essere chiaro che le armi come deterrente e la guerra per accaparrarsi sempre crescenti risorse, per questo sistema neoliberista, sono linfa vitale. Questo Sistema della crescita infinita in un mondo finito è portatore sano di ineguaglianze come mai si sono avute in passato (ogni anno muoiono circa 50 milioni di persone per fame). Se non si cambia questo sistema le ricorrenze per ricordare il male di ieri saranno solo sterili cerimonie per ripulirsi l’anima dei crimini di oggi.

(di Gianluca Ferrara da “Il Fatto”)

12 agosto 1976: strage di Tall el Zaatar (تل الزعتر )

In origine Tall El Zaatar (la collina del timo) era una bidonville alla periferia est di Beirut in Libano. giunti i palestinesi, si trasformò a poco a poco: sorsero i palazzi, nacquero le fabbriche. Alla vigilia della guerra, la città aveva 50.000 abitanti. Poi la guerra scoppiò e la parte orientale di Beirut cadde in mano ai cristiani. Tutta, tranne la “collina del timo”.
Il 22 giugno 1976 i cristiani piazzarono intorno alla “città dei palestinesi” cannoni, razzi, mortai e seimila uomini. Cominciò l’assedio. I palestinesi non potevano arrendersi, perchè la resa avrebbe significato morte sicura. Resistettero, ma era una resistenza senza speranza: i siriani vigilavano che nessun aiuto fosse portato ai trentamila assediati, i cristiani avevano provveduto a interrompere le forniture d’acqua.
Dentro Tall El Zaatar la gente prese a morire di sete, di fame e per le ferite. Le ferite si sarebbero potuto curare ma i cristiani non permettevano l’invio di soccorsi. Il 17 luglio due medici e un infermiera svedesi lanciarono un appello alla Croce Rossa perchè fossero evaquati quattromila feriti gravi. Giunsero le ambulanze ma i cristiani le mitragliarono. Il 25 luglio crollò un palazzo e 500 civili restarono sotto le macerie. Morirono tutti soffocati, perchè i cristiani si esercitarono al tiro a segno sui soccorritori. Dal 3 al 6 agosto la Croce Rossa riuscì ad evacuare 407 civili. Ma il 7 l’organizzazione dovette desistere a causa del fuoco ininterrotto degli assedianti. All’alba del 12 agosto 1976, i miliziani fascisti della Falange, delle Tigri del Libano e i kataebisti cristiano-maroniti, penetrati a Tall El Zaatar trucidano senza misericordia gli scampati all’assedio che sono usciti dai rifugi per organizzare il trasporto dei feriti. Nelle stradine di terra c’è una caccia all’uomo feroce, anche con i coltelli. Gli uomini del campo dai 15 ai 40 anni sono tutti eliminati a freddo. Lo stesso destino capita a donne e ai loro bambini. Vengono assassinati 60 infermieri. Più tardi, in due riprese, il convoglio della Croce Rossa raccoglie direttamente dalle mani delle milizie cristiane alcune migliaia di persone. Sono contro il muro, un’immagine di vergogna. Un testimone afferma che l’entrata nord del campo, a Dekuaneh, è una visione terribile, di orrore. Per muoversi tra le stradine, dove regna l’odore del putrido, dove decine e decine di cadaveri giacciono al suolo tanto che è impossibile contarli, bisogna usare la maschera. C’è chi alla resa preferisce la morte combattendo. Chi, fatto prigioniero, è ferocemente torturato prima di essere eliminato. Alla fine i morti saranno circa 3000.
[da “La diaspora palestinese in Libano e i tempi della guerra civile”, di Mariano Mingarelli]

http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/post/1123650.html

Comunicato del Comune di Mirano

Commemorati i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki

Iniziative per l’abolizione delle armi nucleari

Oggi venerdì 9 agosto 2013 nel Municipio di Mirano è stato commemorato l’anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, dove il 6 e 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche che provocarono decine di migliaia di morti.

Una delegazione dell’ANPI di Mirano, che ha promosso l’iniziativa, è stata è stata ricevuta dalla Sindaca Maria Rosa Pavanello, dagli Assessori Lauro Simeoni e Cristian Zara, dai Consiglieri comunali Fiorenzo Rosteghin ed Erica Brandolino, quest’ultima anche in rappresentanza del Centro Pace comunale.

La Sindaca ha aperto la cerimonia con queste parole: “Oggi siamo qui per commemorare le immani tragedie delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, indelebili macchie di sangue sulla storia e sulla coscienza dell’umanità. E quest’occasione, per onorare al meglio la memoria delle infinite vittime, deve essere anche un grido contro ogni forma di guerra e una presa di posizione salda contro ogni strumento di morte in generale e contro gli armamenti nucleari in particolare. Occorrono dei protocolli internazionali ancor più stringenti sulle armi nucleari, lungo la via che, faticosamente, ha iniziato a mettere freni alle mine antiuomo, alle bombe a grappolo, ecc. Questa non può essere che l’occasione anche per parlare di nucleare “civile”. È ancora vivo nella memoria il recente disastro ambientale di Fukushima, che ha ferito con la radioattività un’altra volta la terra di Hiroshima e Nagasaki. L’incidente alla centrale è un episodio molto diverso, certo. Ma, forse, porta impresso il marchio di quello che è uno dei più grandi difetti del genere umano, la tendenza a dimenticare, a spogliare della sua funzione educativa la storia. Anche per questo, per non dimenticare mai, nulla, per non rischiare il nostro pianeta e le vite che lo popolano, siamo qui oggi”.

Bruno Tonolo, segretario dell’ANPI miranese, ha ricordato i molteplici effetti delle bombe sulla popolazione sottolineando che, sebbene sia finita la guerra fredda, le armi nucleari sono ancora in uso. Quindi, per contribuire all’affermazione della pace tra i popoli, ha proposto alcune iniziative immediate quali l’invio di un telegramma di solidarietà ai Sindaci di Hiroshima e Nagasaki e l’iscrizione alla rete internazionale dei Sindaci per la Pace – Mayor for Peace, un’organizzazione non governativa fondata dalle due città giapponesi con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari entro il 2020.

La Sindaca ha condiviso queste proposte ed ha subito inviato i telegrammi alle due città giapponesi; ha scritto anche ai Sindaci di Palmanova e Busto Arsizio, già aderenti alla rete Mayor for Peace, per associarsi alle loro iniziative.

Infine Erica Brandolino, Consigliera delegata per la promozione di una cultura di pace e dei diritti umani, ha aggiunto che è necessario lavorare contro la guerra, non solo quella nucleare.

L’ufficialità della cerimonia è stata rimarcata dalla presenza della Polizia Locale con il gonfalone.

Erano presenti Renzo Tonolo, vice presidente ANPI Mirano;Giovanni Minto in rappresentanza del circolo PD di Mirano e del coordinamento Genitori Democratici; Giampaolo Coin rappresentanza dell’AUSER di Mirano; il segretario dell’ANPI di Santa Maria di Sala e consigliere comunale della lista civica Insieme Giuseppe Rodighiero e numerosi giovani della Rete degli Studenti Medi di Mirano oltre ad alcuni cittadini.

URP Comune di Mirano

Per approfondire l’argomento riguardante le due esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki c’è un interessante articolo di Vittorio Zucconi del 7 aprile 2008, con le foto scattate subito dopo l’esplosione da un soldato giapponese, morto anche lui dopo averle scattate: http://www.fisicamente.net/DIDATTICA/index-517.htm

10 agosto 1944: Strage di Piazzale Loreto

Il 10 Agosto 1944, su ordine degli occupanti nazisti, la Legione Muti fucilò in Piazzale Loreto a Milano 15 partigiani lasciando i corpi esposti al calore ed alle mosche per l’intera giornata. Nell’Agosto del ’44 Milano è sotto occupazione nazista da ormai quasi un anno. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 Settembre nel quadro dell’occupazione nazista dell’Italia, tesa a rallentare l’avanzata degli Alleati a Sud ed a garantire l’esistenza della Repubblica Sociale Italiana, la città è stata occupata dalla tristemente nota divisione Waffen-SS Leibstandarte SS Adolf Hitler.
Milano era già stata teatro degli scioperi del 1943 e del 1944, che erano costati la deportazione di moltissimi operai e di molte azioni partigiane tra la quali l’assalto all’aeroporto di Taliedo, l’eliminazione del Federale di Milano Aldo Rasega, l’assalto alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni e tante altre. La reazione nazista e fascista fu dura con rastrellamenti e deportazioni di massa. Nel Dicembre del ’43 tra l’Arena ed il Poligono di Milano vennero fucilati 13 partigiani.
Nel Febbraio del 1945 il movimento partigiano riprese forza anche grazie all’arrivo da Torino del Comandante Visone, Giovanni Pesce. A Giugno, in fuga da Roma liberata dagli Alleati, giunsero a Milano i tristemente noti torturatori fascisti della Banda Koch che si insediarono presso la Villa Fossati in Via Paolo Uccello.
Il mesi di Luglio ed Agosto videro una recrudescenza repressiva con diverse fucilazioni di partigiani in città ed in provincia.
Del resto, tra il 21 Luglio e il 25 Settembre 1944 i Tedeschi lamentarono 624 caduti, 993 feriti e 872 dispersi a causa di attacchi della Resistenza che, a propria volta, ebbe nello stesso periodo 9250 caduti. Questo poneva la Resistenza italiana ai primi posti come livello di efficienza solo dietro a quella sovietica ed a quella jugoslava. Il 10 Agosto su ordine del Comando della Sicurezza (SD) tedesca a Milano furono prelevati da San Vittore 15 partigiani. La loro fucilazione avvenne all’alba.
I nazisti, al comando del capitano delle SS Theodor Saevecke, giustificarono la strage come risposta all’attentato contro un camion tedesco avvenuto in Viale Abruzzi l’8 Agosto 1944. Quell’attentato, mai rivendicato, non fece alcuna vittima tra i Tedeschi.
Si trattò quindi di un’operazione di puro terrore poiché il famigerato Bando Kesselring (comandante delle truppe tedesche in Italia) prevedeva la fucilazione di 10 Italiani per ogni soldato tedesco caduto. I corpi, lasciati esposti per l’intera giornata ed insultati dai militi della Muti furono rimossi solo in serata.
Questo feroce episodio aumentò a dismisura l’odio ed il risentimento dei Milanesi contro tedeschi e fascisti.

Questi i nomi dei 15:

Gian Antonio Bravin, 36 anni
Giulio Casiraghi, 44 anni
Renzo del Riccio, 20 anni
Andrea Esposito, 45 anni
Domenico Fiorani, 31 anni
Umberto Fogagnolo, 42 anni
Tullio Galimberti, 21 anni
Vittorio Gasparini, 31 anni
Emidio Mastrodomenico, 21 anni
Angelo Poletti, 32 anni
Salvatore Principato, 51 anni
Andrea Ragni, 22 anni
Eraldo Soncini, 43 anni
Libero Temolo, 37 anni
Vitale Vertemati, 26 anni

Questo è un brano dell’ultima lettera di Umberto Fogagnolo alla moglie:

“Ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene tu sia al corrente di tutto. Qui ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto. Tu Nadina mi perdonerai se oggi gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso ed amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere ed abbandonare le parole”