Firenze: i fascisti buttati fuori dall’università

Questa mattina, al Polo universitario di Novoli, i neofascisti di Casaggì, avevano allestito un banchetto per la campagna elettorale in vista delle elezioni universitarie. Contestati e allontanati dagli studenti dei collettivi. Arriva la Digos.. e identifica gli antifascisti.
Qui di seguito il comunicato degli studenti del polo universitario di Novoli:

Come sempre il teatrino elettorale universitario attira gli animali più bizzarri della città. Casaggì, centro sociale di destra, approfittando della candidatura di alcuni suoi militanti nella lista Centrodestra per l’università (quindi con Studenti per le libertà e Azione universitaria), si è presentata questa mattina al polo delle scienze sociali con volantini di propaganda fascista. Novoli però ha dimostrato ancora una volta di essere antifascista. Decine di studenti e studentesse hanno letteralmente cacciato fuori dalla facoltà i provocatori neri. Di questo infatti si è trattato, di una risposta alla provocazione di alcuni soggetti esterni all’università. Questi sono stati invitati ad andarsene ma hanno assunto un atteggiamento strafottente e rissoso (attrezzandosi anche con tirapugni). A questo punto studenti dei collettivi e altri studenti antifascisti li hanno costretti ad interrompere il volantinaggio.
Li abbiamo buttati fuori, ma non si è trattato di una guerra tra bande né di un atto antidemocratico. Non possiamo accettare la provocazione di un gruppo dichiaratamente e orgogliosamente FASCISTA, che si nutre della nostalgia del ventennio, che fomenta l’odio, che ospita nella propria sede ex terroristi neri di Terza posizione e dei Nar (vedi Adinolfi e Merlino, coinvolti rispettivamente nelle stragi di Bologna e Piazza Fontana) e che imbratta la città con croci celtiche, orrendi manifesti e inutili adesivi. Ci ripugnano le loro commemorazione dei franchi tiratori, cecchini che sparavano sui civili per coprire la ritirata nazifascista durante la liberazione, dei macellai della repubblica di salò e i loro insulti ai partigiani. Tutto questo in una città medaglia d’oro per la resistenza come Firenze è inaccettabile. Ogni giorno sentiamo di aggressioni squadriste in molte città italiane contro migranti, attivisti dei movimenti sociali e studenteschi, o durante le assemblee di istituto nelle scuole (la stessa Firenze è stata recentemente teatro dell’ omicidio di due ragazzi senegalesi in Piazza Dalmazia ad opera di un militante di Casapound). Aggressioni che ormai si verificano anche sui posti di lavoro contro i picchetti dei lavoratori in sciopero (vedi Modena, Basiano, ecc).
Per questi motivi riteniamo giusto, legittimo e anche necessario negare ogni spazio di agibilità politica in facoltà come in città a chi fomenta la guerra tra poveri e predica l’odio e la violenza. Questa idea non è portata avanti solo dai militanti dei collettivi ma da un fronte ben più ampio.. e i fatti di oggi lo hanno dimostrato!
Novoli è antifascista!
ORA E SEMPRE RESISTENZA!

Student* antifascist*

Fonte: contropiano.org

Questi sono i fascisti di casaggì: http://casaggi.blogspot.it/2013/04/un-altro-25-aprile-dai-caduti-della-rsi.html

15 maggio 1916: nasce Paride “Bruno” Brunetti

Nato a Gubbio il 15 maggio 1916, conseguì a Vicenza la maturità classica al liceo “Antonio Pigafetta” militando in quel periodo nell’Azione Cattolica. Nel 1937 entrò all’Accademia Militare e col grado di sottotenente passò alla Scuola di Applicazione d’Artiglieria di Torino, terminandola nel 1941 con la nomina a tenente. Nel 1942 partì da Padova alla volta dell’Unione Sovietica con la spedizione ARMIR. Ritorna a Padova nell’aprile del ’43, dopo una lunga marcia. Di quel periodo la “conversione” che gli avvenimenti e le esperienze trascorse avevano fatto maturare. A Padova entrò in contatto con Concetto Marchesi, famoso latinista poi rettore dell’Università locale, e con Egidio Meneghetti; insieme formarono già da allora un primo nucleo organizzato di antifascisti. Il 10 settembre del ’43 (due giorni dopo l’armistizio) “Bruno” allestì, in collegamento con il C.L.N., le prime formazioni armate proprio a Padova, poi venne chiamato a organizzare vari nuclei partigiani dal Piave al Grappa, per andare in seguito a costituire nel feltrino la brigata “Gramsci” e diventa comandante del “Boscarin”, il primo reparto armato dei partigiani costituitosi sopra Lentiai e poi nella valle del Mis: ne tenne il comando fino al maggio 1945 quando ritornò nella “Zona Piave” quale vicecomandante per poi infine essere nominato responsabile della Piazza di Belluno.
Assieme a Raffaele Cadorna, comandante del C.V.L, e a Ferruccio Parri, fu insignito a Milano dal generale Clark (5° Armata) della Bronze Medal Star, prestigiosa onorificenza americana.
Nel giugno 1944 porta a termine quello che fu il più importante atto di sabotaggio a livello europeo compiuto dalla Resistenza italiana facendo saltare in aria un tratto della galleria ferroviaria della Valsugana presso il forte Tombion di Cismon del Grappa. Seguì poi la distruzione della cabina elettrica dello stabilimento della “Metallurgica” di Feltre che produceva pezzi per aerei militari. Per quei fatti fu insignito nel 1947 della Medaglia d’argento al Valor Militare dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri on. Alcide Degasperi. In seguito Feltre gli concesse la Cittadinanza Onoraria, come pure Vittorio Veneto.
Finita la guerra, “Bruno” proseguì nella carriera militare fino al 1958 quando l’allora ministro della Difesa gli nega la promozione a tenente colonnello per le sue idee politiche. Tornato alla vita civile terminò gli esami universitari e laureatosi in Ingegneria entrò alla Montedison. In seguito ricoprì la carica di consigliere comunale nelle liste del P.C.I. a Saronno, sua città di adozione dove è morto il 9 gennaio 2011 all’età di 94 anni.

Il sabotaggio di Forte Tombion

Un’intervista al comandante “Bruno”

Oggi è anche il compleanno di Umberto “Eros” Lorenzoni , presidente dell’Anpi di Treviso: tanti auguri a Umberto da tutta l’Anpi di Mirano!

Lettera di Alessandra Kersevan sul caso Moranino

Ecco la lettera inviata oggi (13/5/13) da Alessandra Kersevan a Il Fatto sulle ripetute vergognose affermazioni di Travaglio:

Scrivo a proposito della replica di Marco Travaglio alla famiglia Moranino.
Travaglio dice che Moranino non fu condannato da un tribunale fascista ma «dalla magistratura della Repubblica italiana per sette efferatissimi delitti avvenuti nel novembre del 1944 e non coperti neppure dall’amplissima amnistia varata dal compagno Togliatti nel 1946, perché con la lotta partigiana non c’entravano nulla».
Riguardo alla prima parte di questa affermazione, se bastasse che una sentenza sia fatta dalla magistratura della Repubblica italiana per essere “giusta”, la gran parte degli articoli su cui il giornalista MarcoTravaglio si è fatto in questi anni la sua carriera professionale sarebbe inutile e da rigettare, dal momento che lui esiste in quanto giornalista proprio perché la magistratura della Repubblica purtroppo in questi decenni ha sbagliato un mucchio di sentenze, anche nei confronti del suo principale obiettivo giornalistico Berlusconi. Per non parlare poi di tutte le stragi non punite, e di tutti gli scandali di questo dopoguerra, in cui sono stati coinvolti proprio dei magistrati in casi di corruzione. Travaglio dovrebbe sapere inoltre che nei primi anni della Repubblica la magistratura continuò ad essere costituita da magistrati che si erano formati nel fascismo, addirittura un presidente della Corte Costituzionale degli anni cinquanta, Gaetano Azzariti, era stato durante il fascismo presidente del Tribunale della Razza.
Per quanto riguarda la seconda parte della sua affermazione, dovrebbe leggersi un po’ di libri sull’argomento e scoprirebbe che l’amnistia Togliatti che era stata pensata come atto di clemenza nei confronti dei fascisti meno responsabili, venne applicata in maniera molto “larga”, da una parte della magistratura, per assolvere, invece, i maggiori responsabili: famoso è il caso del criminale di guerra Junio Valerio Borghese che riuscì con la complicità del presidente della corte d’assise che lo giudicava, il giudice Caccavale, ad essere praticamente scarcerato dopo un paio d’anni di galera, storia raccontata non da uno storico comunista, ma da Giorgio Bocca. Contemporaneamente, gli stessi magistrati, iniziarono una vera e propria persecuzione nei confronti dei partigiani. Era successo qualcosa in Italia e nel mondo nel frattempo, che possiamo riassumere nel termine “guerra fredda”, che in Italia significò “guerra ai comunisti”. Moranino, comandante partigiano amato e rispettato dalla gente della sua terra che lo elesse con tantissime preferenze al parlamento, fu vittima di questa guerra, condotta in tutti i modi dalla democrazia cristiana e dai serivizi segreti. Posto che Moranino non avrebbe neppure dovuto essere inquisito, tuttavia l’amnistia Togliatti per Moranino non fu applicata perché si aggiunse alle imputazioni l’accusa di furto, che come reato comune non rientrava nell’amnistia. Ma era un’accusa completamente inventata. Se Travaglio leggesse gli atti processuali, o anche solo il libro di Recchioni che li analizza, capirebbe.

Alessandra Kersevan
Udine, 13 maggio 2013

http://anpimirano.it/2013/travaglio-e-criminali-della-guerra-partigiana/

9 maggio 1978: Giuseppe “Peppino” Impastato

Daniele Biacchessi ha scritto questo pezzo (“Quel giorno a Cinisi”) per ricordare l’uccisione di Peppino Impastato:

Ha braccia forti e un corpo allungato, come il suo volto.
Capelli mai pettinati, e baffi, e barba. E uno sguardo che osserva lontano.
Al di là delle persone e dei fatti, al di là della sua stessa terra.
È un uomo curioso, Giuseppe Impastato detto Peppino.
A Cinisi c’è nato e cresciuto.
Cinque gennaio 1948.
Il padre, Luigi Impastato, è un commerciante, amico di mafiosi.
Lo zio, Cesare Manzella, è un capomafia, verrà ucciso nel 1963 nel corso di una guerra tra clan.
È giovane Peppino.
Lui ha fatto un giuramento.
«Così, come mio padre, non ci diventerò mai.»
Fonda il circolo Musica e Cultura.
Molti dicono che è matto, ma altri giovani del paese si uniscono a lui. Siamo nel 1976. Insieme a un gruppo di amici mette su una radio libera. La chiama Radio Aut.
Piccola emittente che denuncia le illegalità, i progetti criminali, gli affari della mafia.
Nel 1978 Peppino Impastato decide di candidarsi come indipendente nelle liste di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali.
Ma all’appuntamento non arriverà mai.
9 maggio 1978.
Sono le ore 1,40.
Il macchinista del treno Trapani-Palermo, Gaetano Sdegno, è un onesto lavoratore.
Quella tratta di ferrovia siciliana che sfila tra le campagne e i coltivi la conosce bene.
Località “Feudo”, territorio di Cinisi.
Il macchinista avverte uno scossone, ferma la locomotiva e osserva il binario:é tranciato.
Così avverte il dirigente della stazione ferroviaria che, alle 3,45 chiama al telefono i carabinieri.
Arrivano sul posto.
Compiono il primo sopralluogo.
Il binario è divelto per un tratto di circa 40 centimetri e nel raggio di 300 metri sono sparsi resti di una persona.
E’ Giuseppe Peppino Impastato.
Sul posto accorrono decine di paesani curiosi.
I compagni di Impastato vengono tenuti a distanza.
Ciò che rimane del corpo di Peppino viene raccolto in un sacco di plastica e portato via.
Lo stesso 9 maggio il procuratore aggiunto Gaetano Martorana invia un fonogramma al procuratore generale in cui parla di “attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda”.
Undici aprile 2002, ventiquattro anni dopo.
Le 17.15. A Palermo esce la Corte.
Ergastolo a don Tano Badalamenti. È il mandante dell’assassinio.
Leggo un passo dalle conclusioni della sentenza.
“….Grazie alle dichiarazioni dei collaboratori, non solo si è potuto restringere il cerchio della responsabilità alla cosca di Cinisi, ma anche è rimasto accertato che Badalamenti Gaetano, avvalendosi delle prerogative di capo di detta famiglia, decise l’omicidio e la sua esecuzione con quelle particolari modalità, essendo il maggiore interessato sia all’eliminazione del Giuseppe Impastato, che alla successiva messa in scena dell’attentato; cosicché il composito quadro indiziario, per la sua gravità, precisione ed univocità, impedisce ogni altra lettura alternativa”.
Scrive la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giuseppe Impastato:
“E’ ancora tutto da scrivere il capitolo del rapporto tra mafiosi e forze dell’ordine. E quando finalmente lo si scriverà si potrà vedere che è popolato da noti capimafia che con i carabinieri trattano, si accordano, fanno dei patti. Un doppio gioco, ma alla luce del sole”.

Video “Munnizza”

9 Maggio Giorno della Vittoria (день Победы)

Il 9 maggio è il Giorno della Vittoria in memoria della capitolazione della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale.
La resa fu firmata nella tarda sera dell’8 maggio 1945 (già il 9 maggio a Mosca), in seguito alla capitolazione concordata in precedenza con le forze alleate sul fronte occidentale. Il governo sovietico annunciò la vittoria la mattina del 9 maggio, dopo la cerimonia di firma avvenuta a Berlino. In Italia questa ricorrenza è meno sentita che nel resto dell’Europa, specialmente in quella orientale, perchè da noi la fine della Seconda Guerra Mondiale è segnata dall’insurrezione generale proclamata dal Comitato di Liberazione Nazionale il 25 aprile 1945. In poche ore i partigiani liberarono tutto il nord Italia ancora sotto occupazione nazifascista. Nel resto del continente si continuò a combattere per un altro paio di settimane, e visto che per i tedeschi si trattava del combattimento finale, le battaglie furono cruente.
La bandiera rossa sopra il Reichstag sventolò solo il 2 maggio 1945, data della fine della battaglia di Berlino (due anni e tre mesi dopo la fine della battaglia di Stalingrado, datata 2 febbraio 1943), ma Praga sarà conquistata solo una settimana più tardi.
Il 9 maggio, nelle prime ore del mattino, la radio a Mosca annunciò alla popolazione la resa incondizionata della Germania Nazista.
La popolazione si riversò immediatamente per le strade della città, commossa e provata per la fine di un grande incubo, per una vittoria pagata a carissimo prezzo (28 milioni di morti). Tra bandiere rosse e ritratti di Stalin la gioia, pur in un periodo di enormi e collettivi lutti, fu incontenibile.
Per tutti il 9 maggio è da allora ricordato come il Giorno della Vittoria (in russo: день Победы DenPobedy), celebrato ogni anno con una grande parata militare in Piazza Rossa a Mosca.
Molte nazioni d’Europa celebrano il giorno della vittoria con 24 ore di anticipo rispetto all’Unione Sovietica, poichè l’ultima firma tedesca avvenne nella tarda sera dell’8 maggio 1945, quando però a Mosca era già passata la mezzanotte.

 Galleria fotografica sui festeggiamenti nella ex-Unione Sovietica

Bloccare qualsiasi sfregio alla Costituzione

La “contro-convenzione” di Rodotà per la sinistra: nuovo fronte d’opposizione dalla Fiom ai dissidenti del Pd per bloccare qualsiasi tipo di sfregio alla Costituzione.
di Giampiero Calapà (“Il Fatto” 3 maggio 2013)

Nasce la Controconvenzione di Stefano Rodotà per bloccare “eventuali sfregi alla Costituzione”: la sinistra e l’opposizione ripartono da qui, Cinque Stelle compresi (“Hanno voglia di imparare come si fa politica, non possiamo escludere nessuno”). E da “nuovi cantieri”, quello di Sel è già fissato a piazza Santi Apostoli l’11 maggio, per riorganizzare un’area che “con l’implosione del Pd subisce un vuoto pericoloso”.
“Una Convezione bipartisan – denuncia il giurista –, magari presieduta da Silvio Berlusconi per sfregiare la Costituzione, sarebbe un grave errore. Badate che la riforma elettorale non è già più una priorità del governo, quella è la cosa che il parlamento dovrebbe fare subito”. Le parole di Stefano Rodotà, ieri all’Eliseo di Roma, hanno riunito la sinistra, “grande patrimonio storico del Paese”. Lunga la schiera di invitati del nuovo fronte all’iniziativa organizzata dal settimanale Left: da Sergio Cofferati alla Fiom, rappresentata da Francesca Redavid, da Sandra Bonsanti di Libertà e Giustizia all’ex pm Gherardo Colombo ad Antonio Ingroia, dallo storico Adriano Prosperi a Gennaro Migliore di Sel.
Tutti al tavolo del direttore di Left Maurizio Torrealta, davanti ad un teatro pieno di cittadini ed elettori rimasti senza punti di riferimento. Che hanno riservato, Rodotà escluso, l’applauso più lungo e sentito a Pippo Civati, il dissidente Pd che non ha votato la fiducia al governo Letta, uscendo dall’aula. E hanno fischiato Vito Crimi, capogruppo al Senato dei Cinque Stelle, quando ha cercato di spiegare: “Sono felice di essere qui con persone con una forte connotazione di sinistra, nell’accezione migliore del termine. Dico questo ma voglio aggiungere che non condivido gli estremismi, non andrei a braccetto con Casa Pound, ma darei una limata da entrambe le parti: il diritto alle ideologie è sacrosanto, ma a noi interessa la buona amministrazione, diciamo no agli steccati ideologici”. Fischi e malumori, gli applausi Crimi li recupera solo con l’aneddoto dell’incontro con un commosso Rodotà, quando lui e Roberta Lombardi gli hanno riferito della candidatura alla presidenza della Repubblica. Lo stesso Rodotà poco prima aveva parlato proprio delle differenze tra destra e sinistra: “Il vuoto che l’implosione del Partito democratico crea è pericoloso. Io non ho consigli da dare, ma al dirigente politico del Pd che nei giorni scorsi ha sostenuto che un dipendente delle poste di certo non sa chi è Rodotà (Stefano Fassina, ndr), rispondo di non guardare dentro gli uffici postali, ma piuttosto alla società italiana, perché ci sono tanti come me che adesso stanno aprendo dei cantieri a sinistra. Dico questo essendo conscio dell’eccesso della legittimazione nei miei confronti: non ho mai mandato tanti sms come in questi giorni. Quando è morto il capo della polizia Antonio Manganelli qualcuno ha scherzato: per la successione si fanno i nomi di Rodotà e Zagrebelsky”. Entusiasmo e applausi, appunto, anche per Civati: “Abbiamo un governo che non deve durare troppo: deve fare la legge elettorale… perché io, che rappresento il 3 per cento del Pd, non ho capito cosa vogliono fare, secondo me non è il caso di togliere l’Imu ai ricchi per esempio”. Poi Civati dice di voler restare nel partito, per giocarsi la partita del Congresso, che deve essere anticipato. La stessa cosa che chiede da giorni Sergio Cofferati: “L’abbandono silenzioso di iscritti ed elettori è preoccupante, ma dobbiamo lavorare per scongiurare scissioni”. Il vendoliano Migliore annuncia: “Abbiamo proposto di abolire la parata militare del 2 giugno”. E il prossimo appuntamento per questa ritrovata area di sinistra d’opposizione, che invoca cantieri e spera in un nuovo inizio, sarà proprio durante la festa della Repubblica: “Per noi quel giorno è anche la festa della Costituzione, faremo una manifestazione – rilancia Sandra Bonsanti – con Rodotà e Zagrebelsky, perché bisogna ripartire dall’opposizione a riforme sciagurate”. Quindi, parola di Rodotà, “occorre organizzare questa Controconvenzione, nella speranza che quella vera, la Convenzione di Pd e Pdl, alla fine non funzioni”.

Avellino: il presidente provinciale dell’Anpi viene identificato dalla Digos.

Uno strano 25 aprile quello di Avellino. Dove il presidente provinciale dell’Anpi viene identificato dalla Digos.
Curiosità che meriterebbe qualche spiegazione. Anche perchè il racconto di quanto avvenuto è abbastanza inquietante sul tasso democrazia dei dirigenti della polizia locale. Questo è il racconto di Giovanni Sarubbi (http://www.ildialogo.org) sulla giornata del 25 aprile a Avellino:

“Ho partecipato insieme ad una delegazione dell’ANPI Irpina, alla cerimonia ufficiale di commemorazione del 25 aprile. Eravamo in tre, io il presidente dell’ANPI e la figlia di un partigiano che fa parte del direttivo della sezione.
Avevamo una bandiera dell’ANPI ed una bandiera della pace. Io portavo la bandiera della pace, la figlia del partigiano quella dell’ANPI. Qualcuno delle associazioni combattentistiche presenti, che di solito occupano la scena in tali occasioni, ha fatto la faccia storta. C’è stato uno di loro che non voleva che io fossi vicino a lui con la bandiera della pace. Ad un certo punto un ufficiale dell’esercito mi è venuto vicino è mi ha detto: “Non voglio fare polemica ma lei non dovrebbe stare qui”. Gli ho risposto: “Lei sta facendo polemica. Proprio lei, da soldato, dovrebbe dare valore alla bandiera della pace”. Ha girato i tacchi e se ne andato. Abbiamo fatto tutta la manifestazione ma la bandiera della pace proprio non gli è andata giù.
La delegazione dell’ANPI, invitata ufficialmente dalla prefettura di Avellino, era posta proprio all’angolo di via Matteotti ad Avellino, dove si trova il monumento ai caduti e dove si è svolta la cerimonia di deposizione della corona di alloro, con minuto di raccoglimento del prefetto e del commissario del comune di Avellino. Io ero li a pochi passi, con la bandiera della pace in alto e ben visibile vicina a quella dell’ANPI.
Alla fine della manifestazione, a cui abbiamo assistito con il dovuto rispetto, siamo stati avvicinati da due funzionari della DIGOS che hanno chiesto i nostri documenti. E’ stato così identificato il presidente dell’ANPI e la figlia del partigiano membro del direttivo ANPI provinciale. Io non sono stato identificato perché già noto e schedato dalla Digos. A nulla è valso il mostrare al funzionario della Digos che ci identificava, l’invito scritto della Prefettura. “Abbiamo ricevuto un ordine”, ci ha dichiarato. Ci siamo fatti identificare (io ero già noto). Il presidente dell’ANPI ha protestato, sottolineando che era la prima volta che gli capitava una cosa simile in vita sua, e lui di anni ne ha già molti. Io oramai non ci faccio più caso.Da notare, nel discorso celebrativo della commissaria prefettizia di Avellino, la scomparsa di qualsiasi riferimento ai partigiani comunisti, che sono stati invece il nerbo di tutta la Resistenza, e persino di quelli cattolici. Sono stati citati solo gli azionisti, dando così una visione parziale e distorta della storia.
Anche i mezzi di comunicazione di massa dell’Irpinia, per lo meno quelli on-line, hanno accuratamente evitato di parlare dell’ANPI, invitata ufficialmente e presente con la sua bandiera. Anche dalle fotografie della manifestazione siamo stati cancellati, eppure eravamo li a pochi passi dal monumento ai caduti.
Brutto segno quando si censurano l’ANPI, la sua bandiera e la bandiera della pace, in una manifestazione che ricorda la Liberazione dal nazifascismo del nostro paese, quella Liberazione che ha poi dato vita alla nostra Repubblica.
Mi ha fatto impressione, infine, vedere giovanissime ragazze in divisa militare portare pesanti fucili mitragliatori per i saluti militari. Fa impressione vedere le donne, che sono la fonte della vita, imbracciare strumenti di morte e distruzione. E’ questa l’aberrazione, a cui è giunta la violazione costante della nostra Costituzione, da parte dei governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, a cominciare dall’art. 11 e dall’art. 1, quello che fonda sul lavoro la nostra Repubblica, ma poi non sa offrire altro ai nostri giovani che il vecchissimo e orribile mestiere delle armi. Giovani mandati a morire in guerre che la nostra Costituzione proibisce.
Ed è proprio la Costituzione che poi, per un paio d’ore, abbiamo distribuito per il corso principale di Avellino, ricevendo apprezzamenti ma riscontrando anche sfiducia e critiche sulla sua non applicazione con la condanna netta per quanti, nelle istituzioni ai suoi massimi vertici, non la applicano o la tradiscono apertamente”.

L’arte della guerra

La fiducia arriva dagli Usa
di Manlio Dinucci

Enrico Letta ha ricevuto la fiducia: quella del segretario di stato Usa John Kerry che, ancor prima che la votasse il parlamento italiano, si è congratulato per la nascita del nuovo governo. Fiducia ben meritata. Enrico Letta, garantisce John Kerry, è «un amico buono e fidato degli Stati uniti, che ha dimostrato in tutta la sua carriera un fermo impegno nella nostra partnership transatlantica». Il governo Letta, sottolinea Kerry, assicurerà il proseguimento della «nostra stretta cooperazione su molte pressanti questioni in tutto il mondo».
È quindi il segretario di stato Usa a trattare un tema fondamentale che i partiti italiani hanno cancellato dal dibattito e dai programmi con cui si sono presentati agli elettori: la politica estera e militare dell’Italia.  Il perché è chiaro: Pd, Pdl e Scelta Civica hanno su ciò la stessa posizione.
Possiamo dunque essere sicuri che l’Italia continuerà ad essere base avanzata delle operazioni militari Usa/Nato in Medio Oriente e Africa: dopo la guerra alla Libia, si sta conducendo quella in Siria, mentre si prepara l’attacco all’Iran. E, in barba al Trattato di non-proliferazione,  resteranno sul nostro territorio le bombe nucleari che gli Usa hanno deciso di potenziare. Allo stesso tempo l’Italia continuerà a inviare forze militari all’estero, anche in Afghanistan dove la Nato manterrà propri contingenti dopo il «ritiro» nel 2014. Aumenterà di conseguenza la spesa militare, in cui l’Italia si colloca al decimo posto mondiale con 70 milioni di euro al giorno spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all’estero.
A rafforzare la fiducia di John Kerry che l’Italia resterà alleato fidato sotto comando Usa è la nomina di Emma Bonino a ministro degli esteri. La Bonino, sottolineano a Washington, è una ex allieva del Dipartimento di stato, presso cui ha frequentato un corso di formazione (International Visitor Leadership Program).
Brillante allieva. Ha sostenuto i bombardamenti della Nato sull’ex Jugoslavia; ha sostenuto la guerra in Afghanistan, dichiarando che «non si può parlare di occupazione: qui c’è una forza multinazionale» e che «un’occasione militare può condurre alla democrazia»; ha accusato Gino Strada di «atteggiamento ambiguo, tra l’umanitario e il politico». Ha sostenuto la guerra in Iraq, affermando che «non c’era alternativa per sconvolgere la rete terroristica» dopo l’11 settembre e ha definito «irresponsabili» i manifestanti contro la guerra.  E, in veste di vice-presidente del Senato, è stata tra i più accesi sostenitori della guerra alla Libia, chiedendo nel febbraio 2011 la sospensione del trattato bilaterale perché  «lega le mani all’Italia nel prestare soccorso alla popolazione civile», «soccorso» arrivato subito dopo con i cacciabombardieri.
La Bonino potrà contare sui corsi di «peacekeeping» della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (già diretta da Maria Chiara Carrozza ora ministro dell’istruzione), che vengono tenuti anche in Africa. A quando, dopo quella in Libia, la prossima operazione di «peacekeeping»?

(il manifesto, 30 aprile 2013)

4 maggio 1944: Strage di Sant’Angelo di Arcevia

Con la firma dell’armistizio e la fuga dei vertici politici dello stato italiano, salgono ad Arcevia antifascisti noti e meno noti, giovani e non, che vogliono combattere. Nascono le prime formazioni partigiane, nella maggior parte dei casi guidate da antifascisti e perseguitati politici dell’anconetano. A questi gruppi si uniscono anche degli slavi che, scappati dal campo di concetramento di Arezzo, stanno marciando verso Ancona per imbarcarsi e tornare a casa. Il loro percorso, però, si ferma sugli appennini dove viene detto loro che imbarcarsi ad Ancona è impossibile e pericoloso vista la forte presenza fascista. Così, restano sull’appennino marchigiano e combattono con i partigiani locali per la Liberazione di un paese non loro.
Il 20 gennaio 1944 il comando Monte Sant’Angelo fa il primo attacco ad una caserma fascista, vicina ad Arcevia, per recuperare armi. Da quel giorno le azioni si fanno più frequenti fino ad aprile. Con due azioni ravvicinate e di successo, il 17 e il 27 aprile 1944, il gruppo libera tutta l’area comunale di Arcevia. E, liberate, le persone possono tornare a festeggiare il 1 Maggio.
Il successo dei partigiani allarmò i repubblichini e i tedeschi che prepararono un rastrellamento dalle proporzioni spaventose. Il gruppo aveva previsto la reazione nazista e decise di dividersi in sotto-nuclei per mettersi al salvo in zone diverse e lontane da Arcevia. Solo un gruppo rimase sul Monte Sant’Angelo, insieme ai prigionieri.
La notte tra il 3 e il 4 maggio, 2.000 soldati salirono ad Arcevia e arrivarono fino al Monte Sant’Angelo dove, nella casa della famiglia Mazzarini, stavano passando la notte i partigiani rimasti insieme ai prigionieri fascisti. La rappresaglia nazifascista non risparmiò nessuno, neanche la piccola Palmina che aveva 6 anni.
Poi, proseguirono alla ricerca degli altri partigiani, sparpagliati verso l’Appennino. Furono giustiziati, evirati, torturati.
Sono passati 69 anni, ma questo è un giorno triste per ognuno di noi. In queste stesse ore del 4 maggio 1944, i cittadini di Arcevia erano stati radunati tutti in piazza, senza possibilità di tornare a casa o andare via. Perché la punizione, la paura e la rappresaglia dovevano colpire tutti. Dalla piazza, le persone sentivano i colpi dei fucili, le esplosioni delle bombe a mano e vedevano le camionette salire verso le montagne alla ricerca di altra carne da macellare.
Chi nega il valore della Resistenza, nega tutto questo. Sputa sulle vittime. Io ricordo. Ho il privilegio e il dovere di ricordare. E l’obbligo di contrastare chiunque osi dire oggi che i partigiani siano da mettere sullo stesso piano dei repubblichini di Salò. Non fu così e non sarà mai così.
Goliarda Sapienza ha scritto che “I morti hanno torto se non c’è qualcuno che li difende”. Abbiamo tutti il dovere, in questo momento storico, di difendere senza reticenze coloro che morirono nel giusto, coloro che combatterono nel giusto, coloro che innocenti furono ammazzati dai fascisti e dai nazisti. (da http://aprilemaggio.blogspot.it)
Ecco una canzone dei Gang dedicata al 4 maggio 1944:

Mirano 3 maggio 2013: Ruolo dei media audio-visivi ieri e oggi

Sofia Gobbo
Venerdì 3 maggio 2013 ore 20.45 a Mirano nella sala conferenze di villa Errera si terrà la conferenzaRuolo dei media audio-visivi ieri e oggi” con documenti video elaborati dall’ ANPI di Mirano e con l’intervento della Partigiana  Sofia Gobbo.
Da una intervista di Laura Fiorillo del 23 aprile 2011 su “La Nuova Venezia”:
Sofia Gobbo la Resistenza l’ha fatta e gira per le scuole medie e superiori affinché la sua esperienza sia un monito alle nuove generazioni. Di scuole se ne intende Sofia Gobbo, 90 anni portati in maniera splendida, insegnante, ex preside. Ancora studentessa, dall’aprile de ’44 all’aprile del ’45 con la sua bicicletta ha girato il Veneto facendo la staffetta per la Resistenza. «Dopo l’armistizio – racconta – moltissimi soldati italiani sono scappati dalle caserme. I tedeschi li inseguivano per catturarli e deportarli in Germania. In quel periodo mi recavo da un professore che mi preparava agli esami da privatista al liceo classico, perché col diploma della scuola magistrale non potevo entrare all’università. Un giorno mi ha chiesto se mi fidavo di lui e gli ho detto di sì. Così mi ha confidato di essere il presidente del Cln, il Comitato di liberazione nazionale, di Vittorio Veneto e mi ha offerto di diventare il collegamento tra Vittorio e Cordignano, il Cansiglio, Treviso e Padova. Ogni tanto dovevo passare per certi posti, chiedere di certe persone, lasciare dei pacchi e prenderne altri. A Sarmede, un paesino vicino al Cansiglio, dovevo entrare in un osteria e chiedere di Pietro. A Padova andavo a prendere i giornali clandestini, quelli dei partiti come il comunista o quello d’azione. Quando entravo in questi posti dovevo inserivo sempre nella frase una parola d’ordine. All’epoca c’era chi ospitava in casa i partigiani o gli alleati, chi cucinava, chi cuciva le divise, ma era bene conoscersi il meno possibile. La cosa fondamentale era non sapere mai nulla delle persone con cui si aveva a che fare. Non chiedere mai, non interessarsi. Si trattava solo di fare quello che ti dicevano di fare. Se i fascisti ti avessero arrestato e torturato, non avresti avuto nomi o informazioni da dare».  È stata mai fermata per un controllo? «Per fortuna no, però una volta ho avuto molta paura. Era il ’44, tornavo dal Cansiglio con la mia bicicletta e mi sono trovata in mezzo a un rastrellamento per l’assassinio di un soldato tedesco. Cercavano un partigiano e quando mi hanno vista mi hanno detto di andarmene e che il ponte era chiuso. Così ho guadato il fiume e sull’altra sponda ho trovato una coppia appena scampata alla fucilazione fingendosi morta con le vittime, tra cui un ragazzo di 15 anni».  Che ne pensa della polemica di questi giorni, che sia leggittimo o meno cantare «Bella Ciao» il giorno della Liberazione? «Davvero hanno il coraggio di fare questo? “Bella ciao” era la canzone delle mondine, la cantavano contro il padrone. Io trovo questa polemica una cosa assurda. Credo che, a meno che non si cantino cose oscene, in democrazia ognuno sia libero di cantare quello che vuole. Se invece non gli va, nessuno gli impedisce di stare zitto. Oggi manca totalmente il senso della storia. Quando correvo lungo il Piave con la mia bicicletta mi imbattevo spesso in scritte sui muri come “Razza piave, purissima razza italiana, razza anche e soprattutto fascista”. Oggi vedo che c’è una lista per la provincia di Treviso che si chiama proprio “Razza Piave”. Mi auguro soltanto che non abbiano mai conosciuto quelle scritte…» (Nuova Venezia 23 aprile 2011 Laura Fiorillo )