Carlo Smuraglia sulla riforma del Senato

anpiLa riforma del Senato: il Comitato nazionale dell’ANPI, unanime, ha espresso la sua contrarietà ad un progetto (quello del Governo) che, unendosi ad una legge elettorale come quella che è stata approvata alla Camera ed al proposito di irrobustire i poteri del Presidente del Consiglio e del Governo, si risolverebbe ( oltre tutto ) in una ulteriore e grave riduzione dei margini di democrazia, che subiscono da tempo una lenta ma progressiva erosione e che, invece, noi consideriamo intangibili, alla luce dei princìpi e dei valori costituzionali.
Non siamo, lo abbiamo già detto, per conservare l’esistente a tutti i costi. In un apposito documento indicheremo nei prossimi giorni le possibili alternative,utili per risolvere l’unico vero problema su cui concordiamo: quello di due Camere che fanno la stessa attività ( il bicameralismo “ perfetto “); un problema che può essere risolto in molti modi, scegliendo fra i tanti modelli esistenti, ma rispettando la linea costituzionale di valorizzazione, prima di tutto, del Parlamento, in quanto rappresentante diretto della volontà popolare.
Su questo tema, il Comitato nazionale ha deciso, sempre all’unanimità, di organizzare una importante manifestazione pubblica fra il 25 e il 30 aprile,in una sede che nei prossimi giorni sarà definita dalla Segreteria. Non mancheremo di invitare alla manifestazione, oltre ai nostri organismi periferici, tutte le associazioni che da sempre si battono per questa Costituzione. E speriamo davvero in una partecipazione diffusa e unitaria.

L’arroganza non ha limiti, in questo Paese. Ma quando ad essa si unisce anche la mancanza di una cultura politico-istituzionale ( ed anche questo non è raro ), il problema diventa serio Una riforma importante, come quella del Senato, non può essere fatta in fretta e con scadenze precise, perché ci sono le elezioni europee. Ed è davvero sorprendente che si emanino, al riguardo, dei veri e propri diktat, senza ascoltare nessun richiamo all’attenzione, alla ragionevolezza,all’esigenza di rispetto delle linee fondanti della Costituzione. Ancora più grave il fatto che due esponenti di rilievo del PD richiamino ( nientemeno ) il Presidente del Senato ad una disciplina di partito, ignorando che la seconda carica dello Stato deve rappresentare una garanzia ( anche di imparzialità ) per tutti. Ugualmente grave il fatto che si ironizzi sui “ professori” e se ne parli con sufficienza; posizioni come queste non evocano
soltanto la mancanza di cultura istituzionale, ma rappresentano tout court un deficit culturale, particolarmente evidente in un Paese che dovrebbe essere la patria della cultura, dell’arte, dei saperi.

11 aprile 2014: L’Agnese va a morire

AGNESEVenerdì 11 aprile alle ore 20.45 in sala conferenze di Villa Errera a Mirano, ci sarà la proiezione del film “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo libro di Renata Viganò. L’autrice con il marito, Antonio Meluschi, e il figlio, partecipò alla lotta partigiana (“la cosa più importante nelle azioni della mia vita”, com’ebbe a dire) nelle valli di Comacchio e in Romagna, facendo, sino alla Liberazione, di volta in volta l’infermiera, la staffetta garibaldina e la collaboratrice della stampa clandestina. Da queste sue esperienze pubblicò nel 1949, da Einaudi, “L’Agnese va a morire” da cui nel 1976 Giuliano Montaldo ne trasse il film che proiettiamo venerdì sera.

È appena passato l’8 settembre e Agnese, donna grassa e quasi anziana, a seguito di una retata dei tedeschi, si trova senza il marito, portato via dai soldati (che si scoprirà ucciso). Inizia così a maturare nella donna un odio, profondo, viscerale, verso i tedeschi oppressori e i fascisti loro leccapiedi. Ma Agnese è una signora introversa, semplice, una lavandaia che del mondo non sa nulla, attaccata al ricordo del marito che spesso gli appare in sogno. Palita, il marito appunto, è il volto riconoscibile della coscienza di Agnese; rappresenta un desiderio di rassicurazione che contrasta con la glacialità apparente della moglie. Nei sogni, nell’interpretazione ingenua che ne dà Agnese, infatti, ritroviamo la sua semplicità. Eppure la vendetta ha la capacità di smuovere ogni cosa. E Agnese si lascia spingere da un senso muto di rivalsa, senza motivazioni ideologiche, e decide di aiutare i partigiani, compagni di suo marito, cominciando a fare la staffetta tra una campagna e un’altra. Contribuisce, nel suo piccolo, con un’aria asservita che raramente perderà, a vendicare il sopruso subito. Poi, in pagine dense e abbacinanti, la svolta, la rivoluzione interiore. Dopo l’uccisione insensata della sua gatta nera da parte di un tedesco ubriaco, fredda, carica di odio, Agnese, senza pensarci troppo, con rigido e disorientante distacco, uccide il tedesco che le aveva mitragliato la gatta. Scappa dal paese, mentre dietro di lei la casa si infiamma al fuoco appiccato dai tedeschi. La fuga quindi, l’unione con i partigiani, la barca sotto una luna di manzoniana memoria…. Poi la monotonia dell’attesa in un campo nascosto tra le canne; l’estate con i suoi disagi e con le sue contraddittorie seduzioni. Ma la guerra, nonostante brevi parentesi di quiete, non è solo ozio. E presto si ritorna all’azione. Arriva l’inverno, quello freddo del ’45, l’inazione forzata e i tentativi anche tragici di organizzarsi per l’attacco finale. Agnese piano piano lascia spazio al racconto degli uomini, dei partigiani, delle loro difficoltà, del loro modo di resistere, spesso senza riuscirvi, alla morte. Solo verso la fine del romanzo la sua figura ritorna prepotente, drammatica, e si legge, come ci annuncia già il titolo del romanzo, della sua morte.

Villa Opicina: 70° anniversario dell’uccisione di 71 ostaggi

800px-Trieste_-_Monumento_ai_71_ostaggi_fucilati_dai_nazisti_-_cippo_di_pietre_carsiche_e_lapidiDomenica 6 aprile 2014 alle ore 15 al poligono di tiro di Opicina ci sarà la Commemorazione nel 70° anniversario dell’uccisione dei 71 ostaggi. Parleranno Tit Turnšek, presidente della ZB per i valori della Lotta di Liberazione della Slovenia e lo scrittore Veit Heinichen. Partecipa il Coro partigiano triestino P. Tomažič. (ANPI-VZPI, ANED, ANPPIA provinciale di Trieste)

Il 3 aprile 1944 venivano uccise 71 persone (tra cui militanti antifascisti, partigiani italiani, sloveni, croati, rastrellati a Trieste e in altri centri della regione), presso il poligono di tiro di Opicina, vicino a Trieste, in seguito alla rappresaglia ordinata per un attentato avvenuto in un un cinema che causò la morte di 7 soldati tedeschi. Questi 71 cadaveri furono i primi ad essere bruciati nel forno crematorio della risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio esistente in Italia.  Le testimonianze della gente del posto e dell’unico superstite della rappresaglia, il giovane partigiano Stevo Rodic, hanno permesso che venisse ricostruita questa ennesima strage in territorio triestino. Il Monumento dedicato a queste vittime del nazifascismo è in stato di abbandono, relegato in una via laterale, con scarne indicazioni, circondato da un centro di raccolta rifiuti e un poligono di tiro ancora funzionante in cui il 15 dicembre 1941 sono stati fucilati cinque antifascisti sloveni, Viktor Bobek, Ivan Ivancic, Simon Kos, Pinko Tomazic e Ivan Vadnal. Questo è un luogo simbolo della resistenza a Trieste e dovremo tutti domandarci perchè, a otto chilometri da qui, c’è un altro monumento ben curato e pubblicizzato diventato monumento nazionale. Due monumenti che non hanno lo stesso peso e non hanno lo stesso valore. Due monumenti che fanno capire la differenza tra strumentalizzazione  della storia e verità storica.

Mobilitazione antifascista a Venezia

DSCN4840_1Il Consiglio Direttivo della sez. ANPI “Martiri di Mirano” dà il suo pieno e convinto appoggio all’appello e alla raccolta di firme promossi dalla sez. “7 Martiri” dell’ANPI di Venezia, per dire no alla manifestazione di sabato 29 marzo, alle ore 15.00, dalla stazione ferroviaria a campo Manin,  dei forconi e di Forza Nuova. Negli ultimi mesi, ben due sono state le manifestazioni indette in laguna. Non possiamo accettare che le frange più estreme del rinascente nazifascismo populista, xenofobo e violento, che stanno trascinando l’Europa nel baratro della barbarie, trovino accoglienza a Venezia, città martire della Resistenza, presidio di libertà e dei valori antifascisti. Chiediamo, a tutte le forze politiche democratiche, sindacali, del mondo della cultura, dell’associazionismo che ispirano la loro azione ai principi della Costituzione Repubblicana, di mobilitarsi affinché questa giornata sia ricordata per la forza e la vitalità dei valori democratici vissuti da donne e uomini che si oppongono a ogni forma di violenza e intimidazione.

“ Noi – la nostra Associazione – siamo portatori di valori che vengono da lontano e ci parlano di donne e uomini che, per quei valori, hanno lottato e sofferto, non scoraggiandosi mai, ma sempre operando perché essi trionfassero”.

(Carlo Smuraglia, presidente nazionale A.N.P.I)

 ORA E SEMPRE RESISTENZA

Direttivo Anpi, sez. “Martiri di Mirano”

Bruno Maran “Una lunga scia color cenere”

maran2Venerdì 14 marzo alle ore 20.45, presso la sala conferenze di Villa Errera, Bruno Maran presenterà il suo libro “Una lunga scia color cenere – Fatti e misfatti del Regio Esercito ai confini orientali”.

“Una lunga scia color cenere” non vuol essere un libro di storia, né un manuale. Vuol essere un modo semplice di entrare, con l’approccio più accessibile possibile, nei fatti. Con la voglia di uscirne con le idee più chiare e con l’interesse a continuare l’approfondimento, nonostante gli inevitabili errori o imprecisioni che un lavoro propedeutico contiene.
A poco servono i Giorni del Ricordo, monopolio di odi mai sopiti, di gruppi decisi a non voler dimenticare solo per giustificare la loro esistenza, di ricordi usati più per attaccare che per giustificare. Non sono certo le calunnie e le falsità, le pietre su cui fondare il senso del Ricordo, che invece deve basarsi sulla Verità anche se scomoda. Il tempo deve lenire il dolore, non rinfocolare continuamente il passato.

“Sul muro scrostato qualcuno aveva scritto ŠMRT FAŠIZMU
con la vernice rossa.
Li avevano messi in fila lì davanti.
Dalle facce non trapelava niente. Chiuse, assenti.
Come le finestre del villaggio.
Il capitano strillò l’ordine alla compagnia. I militari italiani si schierarono, fucili in spalla. Quasi tutti riservisti.
L’ufficiale era il più giovane, baffi ben curati e bustina di stoffa grigia inclinata sulla fronte.
I condannati alzarono gli occhi per guardare in faccia i carnefici. Essere certi che fossero uomini come loro.
Erano abituati alla morte, anche alla propria, assuefatti da    migliaia di generazioni trascorse.
Dall’altra parte occhi bassi, sensazioni riflesse allo specchio.
Le due fila si fronteggiarono immobili, come statue abbandonate sul prato…”

Bruno Maran – fotoreporter di Stampa Alternativa – Il grande amore per i Balcani, maturato con i reportage da Mostar a Sarajevo, da Srebrenica a Vukovar, a Jasenovac, dal Kosovo, dall’Albania, da Kragujevac sulla Zastava, ora Fiat, lo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei fatti storici,che hanno preceduto gli eventi nella ex-Jugoslavia, con particolare riferimento all’operato degli eserciti italiani durante la Seconda guerra mondiale.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa registrazione dell’incontro:

http://roaming-initiative.com/mediagoblin/u/kiba957/m/bruno-maran/

Oggi viene presentata al Parlamento la nuova legge elettorale

costituzione_italianaLA VERITÀ SULLA LEGGE ELETTORALE

La legge elettorale attualmente all’esame del Parlamento presenta gli stessi caratteri di incostituzionalità sentenziati dalla Corte Costituzionale per il porcellum; deve essere radicalmente modificata oppure respinta:

– La composizione del Parlamento deve rispecchiare le opinioni dei cittadini; invece con il cosiddetto ‘premio di maggioranza’ si distorce la volontà degli elettori assegnando al primo turno la maggioranza assoluta a una lista o una coalizione rappresentativa anche solo del 37% dei voti validi; così il voto non è ‘uguale’ perché occorrono meno voti per eleggere un parlamentare della maggioranza che uno della minoranza;
– Il ricorso a un secondo turno di ‘ballottaggio’ nazionale nel caso in cui nessuno raggiunga la soglia del 37% aumenta ulteriormente la falsificazione della volontà popolare, assegnando comunque la maggioranza assoluta a un partito o una coalizione, indipendentemente dai voti ottenuti al primo turno (per esempio, anche solo il 20%); nemmeno la legge Acerbo voluta da Mussolini c’era arrivata;
– a causa delle soglie di sbarramento stabilite per liste e coalizioni saranno esclusi dal Parlamento milioni di elettori (l’8% minimo necessario per ottenere seggi per i partiti che si presentano da soli corrisponde, sulla base del voto del febbraio 2013, a quasi 3 milioni di elettori)
– con le liste bloccate e l’assegnazione dei seggi su base nazionale si impedisce agli elettori di esprimere la propria fiducia in uno specifico candidato; la legge proposta rende estremamente difficoltoso il rapporto fra elettori ed eletti, che vengono individuati su base nazionale con un procedimento complesso e difficilmente comprensibile; il meccanismo distorsivo può perfino impedire l’elezione di candidati che abbiamo ricevuto nei loro collegi la maggioranza dei voti, ma appartengano a partiti che non raggiungono la soglia minima a livello nazionale, tradendo completamente la volontà degli elettori
– con l’assegnazione della maggioranza assoluta a una coalizione o un partito si annullerà di fatto il potere di designazione del Presidente del Consiglio da parte del Presidente della Repubblica (art. 92 Cost); si trasformerà il Parlamento in un organo di mera ratifica della volontà deil’Esecutivo, ampliando il ricorso alla decretazione d’urgenza; si limiterà o annullerà l’indipendenza degli organismi di garanzia (come la Corte Costituzionale) che saranno omogenei alla maggioranza parlamentare;

Tutto questo non garantisce assolutamente la stabilità dei Governi e non limita il ‘potere di ricatto’ dei partiti minori o delle ‘correnti’, perché un gruppo di parlamentari può comunque sempre votare contro il Governo, causandone la caduta. Serve soltanto a imporre per legge la cancellazione del pluralismo delle idee, ad esempio su come uscire dalla attuale crisi socio-economica e non subire i ricatti della finanza intemazionale.
Pretendiamo il rispetto della Costituzione, facciamo valere la nostra volontà di cittadini, chiediamo una legge elettorale che ci restituisca il potere di scegliere parlamentari onesti e competenti.

RETE PER LA COSTITUZIONE – e-mail: [email protected] – Facebook: Rete per la Costituzione

La legge Acerbo del 1923

Un articolo di Paolo Ferrero su “Il Fatto Quottidiano” (Giacomo Matteotti con questa legge probabilmente non sarebbe mai stato assassinato, per il semplice motivo che non sarebbe stato eletto in Parlamento)

1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia

p.-2-scioperi_grandeLo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì  l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre.
Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece “le lotte operaie assunsero un carattere differente” perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del “triangolo industriale”, si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell’arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell’ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe “una grandissima importanza”:
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell’anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto “a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell’occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato”.
Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali”, fece capire che “ormai il tempo degli scioperi era passato”. La “scena dello scontro” quindi “si trasferì sui monti” e apparve chiaro che “soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo”.  Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di “agganciare”, attraverso la “socializzazione”, i lavoratori.

Torino in sciopero

A Torino lo sciopero scatta il 1° marzo 1944, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, abbia comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche.
Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l’indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che hanno l’obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d’Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti in modo che alcuni dei più importanti complessi industriali della regione vengono paralizzati.
Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decreta la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrae fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decide la ripresa del lavoro.
La lotta, estesasi successivamente in altre regioni del Nord, assume un significato politico: tradurre sul piano della fabbrica la dichiarazione di guerra consegnata dall’antifascismo torinese al regime fascista fin dall’8 settembre 1943. Al termine degli eventi si stringono le maglie della repressione nazifascista attraverso arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento tedeschi: circa 400 operai, 178 alla sola Fiat, sono prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. Pochi di loro riescono a fare ritorno.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.

Testo del volantino clandestino diffuso nelle fabbriche torinesi:

SCIOPERO GENERALE CONTRO LA FAME E CONTRO IL TERRORE

Ancora una volta le masse operaie, strette attorno al COMITATO PROVINCIALE DI AGITAZIONE, scenderanno in lotta per difendere il diritto alla vita e alla libertà di tutto il popolo italiano. Le masse operaie ancora una volta passeranno all’attacco contro i nemici di ogni civiltà, contro i barbari nazifascisti. Le masse operaie scenderanno in lotta contro il terrore e la fame, scenderanno cioè in lotta per difendere la vita di tutti.
L’ora è giunta per dimostrare ai nostri nemici spietati come i torinesi, come i piemontesi formino un solo blocco. Non soltanto gli operai, ma tutti i professionisti, tutti gli impiegati, tutti i cittadini debbono scioperare.

Evviva lo sciopero generale di tutto il grande tenace eroico popolo piemontese.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Questa sera alle ore 20.45 a Schio all’osteria “Due Mori”, Ugo de Grandis e Beppe traversa faranno conoscere una storia poco conosciuta: il 29 febbraio 1944 Schio fu la prima città d’Italia a incrociare le braccia contro il fascismo e la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Uno dei tanti primati della città che la storia ufficiale ignora.

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Politica nuova?

anpiE’ ben difficile parlare di “nuova politica” di fronte al rapidissimo mutamento di situazione che si è verificato nel giro di una settimana, col Governo Letta “indotto” alle dimissioni e il “trionfo” del nuovo Segretario del PD, che si avvia alla conquista di gran carriera del posto di Presidente del Consiglio, sulla base semplicemente delle decisioni adottate dal suo partito.

Intanto, è difficile compiacersi e considerare “buona politica” l’improvviso mutamento nelle parole e nelle decisioni del futuro premier. Non lo faccio io, ma l’ha fatto lo stesso quotidiano del suo partito, l’elenco delle cose che da più di un mese andava dicendo (solo per esemplificare: mai più governi di larghe intese, mai accesso alla guida di Palazzo Chigi senza un voto popolare, mai prendere il posto di Letta prima del compimento del semestre europeo, mai rinnovare i riti della vecchia politica); ed ora nel giro di pochi giorni, addirittura di poche ore, tutto è stato cancellato e smentito.

Si va al Governo con Alfano, si costringe Letta alle dimissioni, si cambia quasi tutto il Governo (ma Alfano resta, a quanto pare) con un metodo a dir poco discutibile (pur di dimostrare una pretesa discontinuità, si mandano a casa anche Ministri, come quelli dell’Istruzione che avevano ben meritato), non si fa un pur rapido passaggio in Parlamento, mentre si continua ad ignorare il vero e reale programma del nuovo esecutivo. Non c’è male, come rinnovamento della politica. E non c’è male anche sotto il profilo strettamente istituzionale; il cambio avviene sulla base di rapide e scontate consultazioni, al Parlamento spetterà un voto complessivo, di avallo di un lavoro già compiuto. Che ci siano dei precedenti in termini (un governo “eletto” senza un passaggio parlamentare, con un premier non eletto da nessuno, ma solo indicato dal suo partito), ne dubito. Comunque, conterebbero ben poco, visto che si afferma che si vuole rinnovare la politica.

E non ci si venga a dire che il passaggio parlamentare  non era utile perché le dimissioni di Letta erano irrevocabili e dunque non c’era la possibilità che cambiasse idea. Serissimi costituzionalisti hanno già dimostrato che non è così, perché il Parlamento deve essere chiamato in causa, non già per prendere atto delle dimissioni oppure decidere di mantenere in vita il vecchio Governo, ma – essenzialmente – perché tutto avvenga alla luce del sole e con un pubblico dibattito dal quale i cittadini apprendano le ragioni per cui il “passaggio” sta avvenendo, con quelle modalità, con un Governo che non ha avuto la sfiducia, con dimissioni non spiegate, se non da una riunione di partito (peraltro assai ambigua, sul punto), con la scelta di un Presidente del Consiglio estraneo al Parlamento, con un programma tutto da conoscere, prima ancora che da verificare.

Questo dibattito non ci sarà, a quanto apprendiamo.

Anche questa, a tutto concedere, non è proprio una novità e questo è davvero singolare quando si parla continuamente di innovazione e cambiamenti nello stesso modo di far politica.

Con questo, non intendo affatto “difendere” il Governo Letta, che ha le sue responsabilità e le sue colpe, sempre denunciate da queste colonne. Del resto, che ci sia stato e che ci sia qualcosa che non funziona, lo si deduce da quello che sta avvenendo in Parlamento, dove si sta profilando un pauroso ingorgo di decreti in scadenza (5 a febbraio e 3 a marzo); e quali decreti! Basti ricordare che c’è il cosiddetto “mille proroghe”, già carico di una montagna di emendamenti; c’è il finanziamento pubblico dei partiti e c’è il famosissimo decreto “salvaRoma”; e, ancora, lo “svuotamento carceri”, il “destinazione Italia”; il decreto che proroga le missioni all’estero, e così via. Una massa di provvedimenti urgenti e in scadenza, che ingolosiscono le opposizioni, che faranno di tutto per ostacolarli. Un calendario come questo rappresenta di per sé un giudizio negativo, prima che sul Parlamento, sul Governo, che non è stato capace di procedere oculatamente e nelle forme ordinarie.

Ma, detto questo, “non si uccidono così i cavalli”; insomma, anche per cambiare di passo (e di esecutivo) ci vorrebbe un po’ più di garbo (e non parlo solo di “educazione”, ormai smarrito da tempo, ma soprattutto di garbo istituzionale).

In mezzo a tutto questo, guardo ancora – con malcelata nostalgia – alla mia “agenda” della settimana scorsa e mi accorgo che al mio elenco di priorità politiche e soprattutto sociali, non viene contrapposto, allo stato, praticamente nulla che sia noto e conoscibile; eppure, parlavo di “pianificazione degli interventi “(addio ai decreti-legge), di provvedimenti urgentissimi per risolvere la gravissima emergenza  sociale, della creazione di un piano organico e mirato per reperire le risorse necessarie ad un rilancio delle attività produttive e alla creazione di posti di lavoro “veri”, di riforma della politica, di forte impegno contro la criminalità organizzata e contro la corruzione; e parlavo anche di riforme istituzionali basate sulla conoscenza, sulla riflessione e sul confronto reale attorno ai modelli possibili per realizzare una concreta differenziazione del lavoro delle due Camere.

Un vero libro di sogni: a Roma si sta parlando, al solito, di posti, di nomi, di caselle da occupare e da destinare, ma gli obiettivi restano nel vago: si parla sempre di riforma della legge elettorale; ma se poi la si fa in un modo da molti giudicato pessimo, e se essa finisce in mezzo all’ingorgo dei decreti, anche su questo c’è poco da sperare, soprattutto se si pensa che bisognerebbe ancora approfondire, confrontarsi, riflettere e non improvvisare.

Ma almeno, a prescindere dalla velocità (anzi, dalla fretta) che è realmente e fin troppo innovativa, qualche “novità” c’è? Certo, ce n’é almeno una, a cui non pensavamo più: la soglia del Quirinale, una volta preclusa a chi aveva anche solo un avviso di garanzia, è stata varcata, a quanto pare, da un condannato, provvisoriamente e incredibilmente libero di circolare, solo perché un Tribunale di sorveglianza sta tardando a decidere se assegnarlo agli arresti domiciliari oppure ai servizi sociali. Questa è davvero un’innovazione, la seconda peraltro, dopo lo “storico” incontro al Nazareno tra due leader entrambi estranei al Parlamento, di cui peraltro uno perché non ha ancora avuto modo di farsi eleggere e l’altro perché dal Senato è stato escluso per decadenza.

Ci sarebbe da sorridere, se non ci fosse da piangere. Ma noi, vecchi combattenti, non sorridiamo e non piangiamo: stringiamo i denti, aspettando che si torni davvero ai valori ed alle regole della Costituzione, che prenda il sopravvento la politica “buona”, che insomma qualcosa cambi davvero, nel nostro Paese. Noi non abbiamo mai disperato ed anche di fronte a prove terribili, continuiamo a pensare e sperare che all’Italia arrida un futuro migliore, all’insegna della nuova politica, dell’antifascismo, della democrazia (parole, quest’ultime, che ci piacerebbe sentire, almeno ogni tanto, nei discorsi e ragionamenti politici, ed invece non si sentono praticamente mai).

Naturalmente, limitarsi a sperare sarebbe troppo poco. Non lo abbiamo mai fatto e non lo faremo neppure adesso, anche se i tempi sono difficili e complessi. Ma noi – la nostra Associazione – siamo portatori di valori che vengono da lontano e ci parlano di donne e uomini che, per quei valori, hanno lottato e sofferto, non scoraggiandosi mai, ma sempre operando perché essi trionfassero. Se avessimo solo “sperato”, non ci sarebbe stata la Resistenza ed avremmo finito per aspettare l’arrivo degli Alleati. Invece, c’è stato un impegno forte e deciso anche quando tutto sembrava perduto, a fronte di una barbarie incalzante e dotata di uomini e mezzi soverchianti. Quell’impegno ha pagato, alla fine, come pagherà anche oggi se non ci arrenderemo allo sconforto, alla delusione, allo smarrimento e cercheremo di fare sentire, con forza, la voce della Costituzione, la voce, mai incrinata, dei tanti che hanno combattuto per la nostra libertà e per il futuro del Paese.

Carlo Smuraglia – Presidente Nazionale ANPI

Roma, 18/02/2014

 

Il nuovo dizionario di Matteo: c’è “Paese” e non “Berlusconi”. Spariscono destra e sinistra (di Filippo Ceccarelli da “Repubblica”)

Le parole, al giorno d’oggi, si misurano e si pesano. Ieri Renzi si è rivolto molto più al grande pubblico che ai senatori, che pure ha cercato di coinvolgere, a tratti anche divertendoli, per il resto sforzandosi di stupirli senza troppo preoccuparsi che alcuni si sarebbero disorientati. La novità comunque c’è. Così parlò Renzi in quelle che un tempo si sarebbero definite «dichiarazioni programmatiche» e ieri lui stesso ha suggestivamente assimilato a una specie di «Truman show».

Io, noi. Pronomi interscambiabili. «Apprezzo », «ci avviciniamo», «non vorrei», «abbiamo svolto». Il protagonismo egocentrato convive con una dimensione collettiva, ma nell’economia generale del discorso non è chiaro il motore e la funzione del loro alternarsi. L’effetto suona talvolta come un singolarissimo
plurale majestatis.

Età, la mia età. Segnale di auto-distinzione anagrafica con prezioso richiamo d’esordio al brano della «pur bravissima» Gigliola Cinquetti, che con Renzi, del resto, condivise ai tempi la militanza nei comitati per l’Ulivo. Su un piano storico-oggettivo il tempo presente è indicato come: passaggio. Ma la tentazione della Generazione Erasmus è sempre in agguato.

Derby. Sta per sfida, scontro, conflitto, ma con un aperto pregiudizio di riprovazione. Vedi il «derby ideologico» sulla giustizia. Lessico calcistico, nei due interventi al Senato ridotto tuttavia al minimo.

Coraggio. Un tempo virtù che si riconosceva esclusivamente ai grandi scomparsi, oggi risorsa comunicativa ad alto impatto rivendicata in tempo reale come inconfondibile segno di leadership. Spessa abbinato, ma per negazione e sottrazione, alla paura, «non abbiamo paura», «mai paura», eccetera.

Urgenza. Così come l’accelerazione risuonata nella replica, è la premessa della velocità, dell’impeto e dell’iper-cinetismo del nuovo presidente comunque necessari ad affrontare, anzi a prestissimo risolvere i problemi sul tappeto.

Faccia, facce. Sostantivi eminentemente visivi, quindi televisivi e come tali tipici del renzismo. Il potere sollecita sguardi,trasmette indizi, addita fenomeni che tutti possono guardare, di norma sugli schermi.

Sogno, sogni. Provenienti dalla pubblicità e resi inevitabili nella retorica della Seconda Repubblica dopo l’inaugurazione, l’uso e l’abuso di Berlusconi, ma anche di altri suoi onirici imitatori. Un indubbio progresso, nel caso odierno, la mancanza della consueta citazione di Martin Luther King, «I have a dream».

Fuori. «Fuori di qui», «fuori da quest’aula ». Un modo per sottolineare la propria estraneità alla casta, termine però menzionato ieri appena di sfuggita. «Fuori», senza nemmeno il sottotitolo (Mondadori, 2011), era d’altra parte il titolo di uno dei primi e illuminanti — con il senno di poi — libri di Renzi. Un capitolo dedicato al «complesso di Silvio», l’innominato. E oggi il cognome Berlusconi non è mai risuonato.

La madre di. Fantasioso riciclaggio «giornalese» al linguaggio bellico di Saddam Hussein (1991). «La madre dei nostri problemi», ha detto Renzi, e «la madre di tutte le privatizzazioni». Questa madre non proprio un esempio di premura e bontà.

Papà. «Credo che capire cosa significa incrociare lo sguardo di un papà… « e qui Renzi si è fermato, e ricordandosi di essere fiorentino si è regalato una civetteria lessicale per così dire identitaria: «Per non dire babbo».

I nostri figli. O anche «i nostri ragazzi». La reiterata espressione, di toccante valenza famigliare, ha introdotto e rafforzato argomenti anche ragionevoli, ma «aveva pure il senso di ricercare un accordo trasversale diretto a tutti i senatori-genitori.

Struggente, devastante. Curiosa coppia di aggettivi che due volte sono comparsi nel discorso. Romantico il primo, apocalittico il secondo.

Persone. Sostantivo molto usato e mai a sproposito. Probabilmente rivelatore della cultura cattolica che sta nel background di Renzi. Si sente l’eco di Mounier e si adatta bene al tono discorsivo.

Destra, Sinistra. La prima mai citata. La seconda una sola volta, nella replica.

Slides. Anglismo esorbitante. Si poteva dire: diapositive.

Scuola, insegnanti. La parte più personale. Essendo la signora Agnese una professoressa si sentiva l’eco, e anche la vitalità, di tanti discorsi in famiglia.

Fiatone. Una dei tanti termini del sermo humilis, ovvero parla anche in Parlamento come mangi: «tirar via», «giocatevele», «le bandierine», «una pizza e una birra».

Racconto. La politica renziana persegue la tecnica e un po’ anche la filosofia della narrazione, o story-telling che dir si voglia. La bambina figlia di immigrati, le telefonate ai marò, alla signora sfigurata dal vetriolo, all’amico disoccupato. Un modo per andare alle questioni con lo slancio della prima persona.

Buon lavoro a tutti. La conclusione della replica come un saluto. Un tempo si diceva «Viva l’Italia» o anche «Iddio salvi l’Italia». La speranza che un più semplice augurio funzioni comunque.

 

Il cattivo tedesco e il bravo italiano

coverfocardiPremessa – di Wu Ming 1

Ecco un’occasione da cogliere al volo.

Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…
Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere – l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.
Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.
[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.
Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l’elargizione non si sono costituite parte civile.]
Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.
Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:
– la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;
– l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;
– la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);
– i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;
– l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;
– la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.
E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:http://youtu.be/2IlB7IP4hys

Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).

A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:

«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»

Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.
Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.

(dal sito http://www.wumingfoundation.com)

Venerdì 14 febbraio: Domenico Gallo “Da sudditi a cittadini”

gallo1La Costituzione è – dovrebbe essere – il patto, la regola fondamentale per la convivenza di un popolo. Un insieme di valori, di principi e di norme vincolanti. E invece, sempre più spesso, la si considera una sorta di reliquia. Nella migliore delle ipotesi essa viene considerata un simbolo, come la bandiera o l’inno nazionale, ma non incide sulla vita quotidiana dei cittadini e delle istituzioni. C’è chi la considera un documento storico superato, suscettibile di essere modificato a piacimento. Il libro di Domenico Gallo – magistrato e giurista di grande cultura storica e politica – reagisce a questo atteggiamento e lo fa ricostruendo la storia, i movimenti, gli eventi che hanno portato alla Costituzione; evidenziando chi l’ha voluta e chi l’ha ostacolata; esplicitando la portata dei principi in essa affermati. Tutto questo con l’ausilio di materiali storici, documenti, filmati raccolti in uno specifico CD-Rom allegato. Un libro per tutti, particolarmente prezioso per studenti e insegnanti.

Venerdì 14 febbraio alle ore 20.45 Domenico Gallo sarà presente nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano per presentare il suo libro. Introduzione a cura di Francesco Baicchi, coordinatore nazionale della “Rete per la Costituzione”.

http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/stampa.php?id=132