27 gennaio 1945: Yakov Vincenko alla testa della divisione di fanteria 322 dell’Armata Rossa entra nel campo di Monowitz (Auschwitz)

Immagine2“Nell’ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati. Tacemmo: da lontano ci investiva l’eco smorzata degli scoppi. Tra i due, solo io sapevo che erano i colpi dell’artiglieria tedesca in fuga. Pensai ad uno spettro, mi assalì il dubbio di essere stato colpito, magari ucciso. Non sognavo, ero di fronte ad un morto vivente. Dietro a lui, oltre la nebbia scura, intuii decine di altri fantasmi. Ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata. L’aria era irrespirabile, un misto di carne bruciata ed escrementi. Ci sorprese la paura di un contagio, la tentazione di scappare. Non sapevo dove fossi sbucato. Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz. Abbiamo proseguito, senza una parola”.

Yakov Vincenko ha 79 anni ed è uno degli ultimi liberatori sopravvissuti dell’Armata Rossa sovietica. Raggiunse il campo di sterminio con la divisione di fanteria numero 322, fronte ucraino. Aveva 19 anni. Venti mesi prima era stato ferito nella battaglia di Kursk, quasi due milioni di soldati russi uccisi dai nazisti.

“Ho passato il primo filo spinato alle 5 di mattina: era buio, sabato 27 gennaio 1945. Non era gelido, solo tracce di neve marcia. La sera prima, nella notte, il combattimento aveva preteso molte vite. Temevo i cecchini lasciati di guardia. Al riparo di un bidone ho visto il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo d’assalto della centesima divisione, spalancare un grande cancello. Dall’altra parte un gruppo di vecchi minuti, ma erano bambini, ci ha sorriso. Solo dopo anni ho appreso di aver assistito allo schiudersi dell’ingresso dell’inferno, sotto la scritta “Arbeit macht frei”. Mi sono alzato per avanzare. Ho guardato nel bidone: era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che erano resti di chi era stato là dentro”.

Yakov Vincenko, sessant’anni dopo, è seduto ad un tavolo nella sede del comitato dei veterani di guerra, nel centro di Mosca. Sopra di lui i ritratti di Marx, Lenin, Stalin e del generale Zhukov.

“Un tipo con cui era meglio non discutere. Stalin gli aveva ordinato di non risparmiare soldati. Lui ha onorato l’impegno”.

È ancora un uomo asciutto, rigido ed eretto sopra stivaletti con un certo tacco: quando cammina è costretto a procedere spedito. Veste come un povero, gli abiti lisi sembrano non appartenergli. Tra pochi giorni sarà a Cracovia e tornerà alla polacca Oswiecim. Alla commemorazione della liberazione del campo di sterminio, assieme a 48 capi di Stato e ad una folla di anonimi, andrà con gli ultimi due compagni d’armi: uno vive a San Pietroburgo, l’altro a Minsk, in Bielorussia. Non è la storia dalla parte dei liberatori: l’orrore piuttosto, osservato con gli occhi stanchi e spaventati di soldati che non poterono riconoscere la sua dimensione.

“Mi hanno chiesto di ricordare ancora ma invecchio e il mio passato si confonde. Scopro sui libri attimi che ho vissuto e mi sorprendo. L’emozione però non accetta di liberarmi. È la seconda volta che riesco a tornare nel campo, non è un viaggio che si esaurisce in una visita. Un’ex internata ebrea mi ha scritto di lasciare un sasso per lei: non ha mai trovato la forza di rivedere la baracca e il forno crematorio che hanno inghiottito la sua famiglia”.

Il vecchio soldato, una pensione di guerra da 60 euro al mese, sul fronte occidentale russo ci finì per caso e
quasi bambino. Sorte e adolescenza rubata, incoscienza, hanno condotto i suoi passi nel labirinto dell’Olocausto,
ancora ignorato.

“Era l’estate del 1941 e vivevo a Mosca. Finita la scuola, fui mandato dai genitori a Vinnitza, in Ucraina, il nostro villaggio natale. Avrei dovuto aiutare il nonno in campagna. Due settimane dopo, per non lasciare ai tedeschi nemmeno i ragazzi, mi precettò l’Armata Rossa. Giochi, sogni, progetti, sono crollati in un giorno: a 15 anni mi sono ritrovato soldato, una baionetta del 1891 in spalla e le granate che ci stavano nelle tasche. Ero fortunato: l’esercito sovietico era così sguarnito che solo uno su quindici aveva il fucile. Per questo, mi sono salvato”.

Quattro anni tragici, tra disperazione, fame e attesa della fine. L’armata nazista avanzava verso il cuore dell’Urss. L’assedio a Leningrado, il massacro alle porte di Mosca: e Hitler che fino alla disfatta di Stalingrado, sembrava inarrestabile. Yakov Vincenko sparò il suo primo colpo a Voronezh nel 1942, agli ordini del generale Vatutin.

“Nessuno mi aveva spiegato come comportarmi. Il Fronte ucraino era un’armata di bambini, spinta avanti per localizzare i nemici e consumare le munizioni dei tedeschi. Dopo otto mesi di resistenza nel sud della Russia, siamo avanzati verso l’Ucraina. Dai tre ai venti chilometri al giorno: a Kursk, a Kiev nel 1943, in Galizia e infine a Sandomir in Polonia. Nell’autunno del 1944 ormai il morale era cambiato, i nazisti erano in rotta. Quando abbiamo conquistato Cracovia, ai primi di gennaio del 1945, i generali ci dissero che se riuscivamo a sopravvivere ancora pochi mesi, saremmo tornati a casa”.

Non finì così. L’Unione Sovietica aveva perduto tra i 25 e i 30 milioni di persone, l’esercito era decimato.
Vincenko, ormai un uomo ferito quattro volte, il 9 maggio apprese di essere un vincitore a Praga: ma a casa è tornato sette anni dopo, non trovando più qualcuno ad aspettarlo.

“Quel giorno ad Auschwitz — dice — è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo visto, ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così, ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi nega l’Olocausto dico: credete a me, che quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero”.

Le truppe di Stalin non sapevano cosa fosse un campo di sterminio. Solo gli alti comandi, a Cracovia, erano stati informati di trovarsi sulla strada del Lager di Auschwitz-Birkenau. Il 18 gennaio, alla vigilia dell’offensiva, gli ufficiali sovietici appresero che dal campo era stata fatta partire una colonna di 80mila prigionieri, scortata dai nazisti verso la Germania. Da dicembre, Himmler aveva ordinato di cessare le esecuzioni e di demolire le camere a gas.

“Tra noi e le baracche si frapponeva una tripla linea di difesa tedesca. Dovevamo superare la Vistola e il fiume Sola, i ponti e i campi erano minati. Il 25 gennaio il generale Fiodor Kravasin fece avanzare fucilieri e carristi, rinforzati da un gruppo d’artiglieria. Sono morti a centinaia, costruendo ponti di legno nella corrente. Una resistenza tanto accanita, da parte dei nazisti in ritirata, ci sembrava insensata”.

I vertici delle “SS” avevano dato ordine di distruggere le prove del genocidio, di sterminare gli ultimi testimoni della “Soluzione Finale”.

“Sapemmo poi che la notte prima dell’assalto un ufficiale tedesco, dopo la cattura, aveva confessato ai nostri che il forno crematorio di Birkenau era pronto per saltare in aria. Il maggiore Malenko, con due artificieri, due elettricisti e una pattuglia di esploratori, evitò che esplosioni e fiamme cancellassero forni, camere a gas, baracche e fosse comuni”.

Non è stata invece eroica la liberazione di Auschwitz del soldato semplice Yakov Vincenko.

“Dopo la mezzanotte del 27 gennaio fui svegliato e buttato avanti. Camminavo alla cieca, spinto da sonno e paura: non mi sono nemmeno accorto di essere entrato nei 40 chilometri quadrati occupati dai 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio del complesso di Auschwitz, Birkenau e Monowitz”.

L’ordine ufficiale era di non fermarsi, di inseguire i tedeschi per farli arretrare.

“Il comandante della prima compagnia, Maksim Ciaikin  fu centrato da una raffica esplosa da una torre di avvistamento. Seguì un sanguinoso fuoco a corta distanza. Poi il silenzio, quasi fossimo penetrati nel vuoto. Per mezz’ora, passati i reticolati e fino al cancello, ho camminato da solo e nel fango. Non era giorno quando ho in­contrato il primo morto vivente ed è stato meglio così”.

Ora cita a memoria i numeri dell’Olocausto di Auschwitz, avvertendo della sua incertezza: 1 milione e 300 mila morti, o 3 milioni, o 6 milioni, ancora non sa. Nove su dieci erano ebrei: gli altri zingari, omosessuali, prostitute. Fino a 5 mila vittime al giorno, con i forni a pieno regime. I 600 evasi in quattro anni, 400 dei qua­li ripresi, impiccati davanti ai compagni dopo essere stati costretti a marciare a ritmo di musica sotto il cancello principale. Al collo un cartello: “Evviva, sono tornato”.

“Ma io ho incontrato solo spettri. Quando siamo entrati, nel campo restavano 17 mila prigionieri. Donne, bambini, malati: erano incapaci di muoversi, per questo erano stati abbandonati nelle baracche. I tedeschi non avevano avuto il tempo di ammazzarli tutti. C’era una puzza asfissiante, l’odore dolciastro e acre della morte che ancora mi pare di sentire. Sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore. Gli ultimi giorni, per fare in fretta, i nazisti li fucilavano a migliaia sul bordo delle fosse comuni. Poi bruciavano tutto. Così sono stati inceneriti anche 29 su 34 depositi di beni sequestrati ai deportati. Ho aperto le porte di quattro baracche: in ognuna 24 persone, polacchi, russi, francesi, tutti ebrei. Erano stesi, moribondi: qualcuno pregava, credevano li ammazzassi. Sulla tuta a righe, esibivano la scritta “Ost”, o la stella di Davide. Uno mi mostrò un numero tatuato sull’osso di un braccio. Le assi erano coperte di stracci ed escrementi, si soffocava. Non posso dire di aver percepito felicità, mentre dicevo loro che erano liberi. Li vedevo sollevati, gli occhi si riaccendevano: ma non avevano la forza di reggere una gioia”.

Fu uno dei mattini più disperati del mondo. Solo la vaghezza contingente della realtà salvò i liberatori dall’abisso della Shoah.

“Non avevamo tempo per sostare, i sopravvissuti erano allo stremo, la maggioranza non parlava russo. Alcuni francesi mi hanno seguito per scappare, un gruppo di ebrei polacchi si è dileguato tra gli alberi, accennando una corsa. Una bambina mi si attaccò ai pantaloni, credo per cercare cibo. Il tenente maggiore Subotin mi avvertì che potevo contrarre qualche virus, ero spaventato. Sapevo che stavano arrivando gli ufficiali medici e le cucine da campo: la lasciai lì, mi vergogno. Ancora la penso, mi chiedo se sia stata salvata, come altri 2.819 detenuti, se sia vissuta e come, se l’esistenza le abbia riservato un risarcimento: e se ricorda il soldato sovietico, poco più grande di lei, che non ha avuto il coraggio di prenderla in braccio”.

Yakov Vincenko si ferma e tace, restando a guardare con un sorriso ambiguo. Dopo una pausa, simile alla ricerca abituale di un’espiazione, aggiunge che però non esistono parole per descrivere, che non l’aveva mai fatto prima. E che l’esultanza, la sicurezza degli eroici liberatori sovietici, la riconoscenza dei sopravvissuti liberati, l’ha scoperta soltanto nei film.

“La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si rese conto di aver varcato un confine da cui non si rientra, e che i prigionieri non seppero raccontare. Era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zylkon B e alla fine dell’umanità”.

Era mezzogiorno quando il comandante Lebedev alzò la bandiera rossa sopra il cancello di Birkenau. Yakov Vincenko era già lontano, sette chilometri più avanti, alle porte della cittadina di Oswiecim per braccare i tedeschi e strappare loro i prigionieri.

“Solo allora un gruppo di bambini sciamò da una baracca che sembrava vuota e osò gridare “libertà, libertà” nel campo semideserto. La sera me lo raccontò un compagno, ucciso poi sull’Oder, al mio fianco. Ma io quelle grida non le ho sentite, ad Auschwitz non ho incontrato vita, o la speranza. E nella notte mi sono lavato la divisa. L’unica volta, da quando mi sono svegliato in guerra”.

( da un articolo di Giampaolo Visetti apparso su “Repubblica” il 16 gennaio 2005)

Da un discorso di fine anno del Presidente Pertini

Sandro-Pertini

“Dietro ogni articolo della Carta costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza, quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi.
Ma dobbiamo difenderla anche dalla corruzione. La corruzione è una nemica della Repubblica.
I corrotti devono essere colpiti senza nessuna attenuante, senza nessuna pietà. E dare loro solidarietà, per ragioni di amicizia o di partito, significa diventare complici di questi corrotti. Bisogna essere degni del popolo italiano. Non è degno di questo popolo colui che compie atti di disonestà e deve essere colpito senza alcuna considerazione. Guai se qualcuno, per amicizia o solidarietà di partito, dovesse sostenere questi corrotti e difenderli. In questo caso l’amicizia di partito diventa complicità e omertà. Deve essere dato il bando a questi disonesti e a questi corrotti che offendono il popolo italiano.” (Sandro Pertini, dal messaggio di fine anno 1979)

Buon anno a tutti gli iscritti e le iscritte all’Anpi “Martiri di Mirano”

La trama del film

La trama del film di cui alle ore 21.00 comunicheremo il link:

Quando nel 1989 Imamura Shohei girò questo film di anni ne erano passati parecchi da quel 6 agosto 1945, ore 8,15, a Hiroshima.
Molto era già stato scritto, detto, commemorato e un filone letterario, il genbaku bungaku, la “letteratura sulla bomba atomica”, aveva prodotto fiction, documentari, memoriali.
Imamura diede voce e immagini al romanzo di Masuji Ibuse, uomo di Hiroshima, un ibakusha, (così furono chiamati i sopravvissuti all’esplosione) autore con lunga pratica di scrittura alle spalle, che a quella tragedia dedicò le sue opere più importanti.

Rappresentare l’indicibile é stata impresa che si é più volte riproposta nel secolo scorso, per eventi diversi, anche lontani nello spazio, ma tutti segnati dal denominatore comune della indicibilità.
L’umanità, attonita, smarrisce innanzitutto la voce di fronte all’abisso, non il suono, quello resta, ed é l’urlo cupo, l’ululato animale che ci riporta alle caverne.
La parola era nata per altro, la sua nobile impronta sonora diede forma al pensiero, fu anche polemos, la voce della guerra che la polis generò dal suo ventre, perché può esserci una grandezza anche nello scontro e sono scritte leggi da rispettare.
Ma poi ci fu un andare oltre ogni possibile rappresentabilità, la parola dichiarò la sua sconfitta e divenne “qualche storta sillaba, e secca, come un ramo”.
Smise di comunicare, essere comunione di comites, strumento di comunità.
Disse, indicò, divenne secco e sterile mezzo di trasmissione di bisogni primari.
Finché “un silenzio nudo, e una quiete altissima,” riempirono “lo spazio immenso”.

Restarono la musica e la possibilità di dipingere, su tele, cinematografiche e non.
Munch e Imamura, Mahler e Takemitsu.
Un orologio tondo, a parete.
Segna indifferente l’ora di quel giorno.
La città si muove all’alba, c’è canicola, é tempo di guerra, chi sfolla da parenti in campagna, chi va in città per lavoro, autobus e treni si riempiono.

Lo scoppio é una ventata che viene dalla destra dello schermo, una microfrazione di secondo, e quell’orologio accartocciato con le sue tristi lancette riemergerà solo più tardi dalle acque della baia.
Uno dei profughi in fuga sulla piccola barca lo tira su, poi lo lancia di nuovo nell’acqua nera, inservibile come il tempo che verrà dopo.
Una luce irreale accentua il senso di vuoto, di sottrazione. Gravi tessiture sonore stabiliscono un clima di stanchezza attonita per una delle più straordinarie pitture della morte che gli acuti disperati dei violini accompagnano in un succedersi frantumato di scene.

E’ la prima sequenza del film.
Solo un’altra, più avanti, in un flash back della memoria, tornerà a quei momenti ritratti dal vivo.
Ai lividi lampeggiamenti di tragedia segue il torpore grigio dei giorni, mesi e anni successivi, quelli dell’impossibile ricostruzione dei corpi, del tessuto sociale, di una città in cui abbia un senso vivere.

Bisogna chiedersi, a questo punto, cosa abbia spinto un autore che di strada ne ha già fatta tanta dal suo lontano debutto nel 1958, a tornare su quel tema, a girare in bianco e nero, a rimettere il dito in quella piaga.
Potremmo dire la rabbia.
Perché Imamura non cessa mai di creare con i suoi film una lingua di collisione, di esplorare le viscere del corpo sociale con il bisturi dell’entomologo che pratica sezioni chirurgiche, osserva e formula fusioni inedite fra documentario e astrazione fantastica.
Ciò che guida la sua ricerca, a quasi mezzo secolo da quella che fu la bomba per antonomasia, é la rabbia di essere uomo, parte di una specie capace di produrre l’inimmaginabile e farlo diventare una pagina della sua storia.

Fra i ritratti di donna che popolano i suoi film, figure simbolo di una società che dietro la facciata di riserbo, autocontrollo, gentile urbanità di modi, cova inquietudini profonde e gravi contraddizioni, quello di Yasuko, nipote orfana che i due zii hanno adottato alla morte della madre, é uno dei più belli e struggenti per l’aderenza totale ad una realtà storicamente verificabile, insuperata nella sua tragicità ancora operante a settanta anni dagli eventi.
La storia della giovane ragazza dallo sguardo triste che sul camioncino traballante apre il film mentre va dagli zii con le sue povere cose, sarà quella di tutti i disperati che non finirono carbonizzati, a pezzi, liquefatti nell’immediato dell’esplosione.
Ma furono contaminati.
La “pioggia nera” che improvvisa sgocciola densa su Yasuko, sulla sua pelle bianca, purissima, il suo sguardo incredulo, spaventato, incapace di rendersi conto di essere al centro della fine del mondo: la tragedia di Hiroshima e Nagasaki non ha bisogno di essere rappresentata con altre scene.

A quei sopravvissuti la vita assegnò un destino beffardo di morti viventi.
Emarginazione sociale, mancanza di lavoro, impossibiità di matrimonio, pazzia e ossessioni.
Diventare hibakusha volle dire essere come appestati, sentirsi colpevoli pur essendo vittime.
Di questo si occupa Imamura, Kuroi ame non é un reportage sul primo bombardamento atomico della storia:il terzetto famigliare é il modello base, intorno ruotano personaggi a vario titolo rappresentativi di una storia rimossa in nome di una normalizzazione necessaria ma anche spietata.
Genbaku-burabura-byo (sindrome dello scansafatiche che va a zonzo dopo la bomba atomica) fu una locuzione nata allora, un modo di definire le persone incapaci di lavorare a causa della stanchezza cronica indotta dalle radiazioni.
Essere figli di hibakusha é tuttora un problema che, se possibile, si tende a nascondere.

Alla radio i nostri protagonisti ascoltano la vocina lontana di Hirohito, il Sole tramontato, che dichiara la resa del Giappone.
Lo zio recita il sutra dei morti sulla riva mentre bruciano le pire.
E’ la scena finale del film.

Fra la prima e l’ultima scena Imamura Shohei ha composto il trentacinquesimo canto dell’Inferno, la musica di Takemitsu Toru ha intonato il suo canto funebre. (http://www.filmtv.it)

 

Il libro da cui è tratto il film: https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMVGxhdVJabzUtZGM/view?usp=sharing

Ordine del giorno per il riconoscimento del diritto alla Pace

anpi

Ordine del giorno per il riconoscimento del diritto alla Pace

L’Anpi di Mirano, in merito al punto 9 dell’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Mirano del 23 dicembre 2014 inerente al riconoscimento del diritto internazionale alla Pace,

  • affinché questo ordine del giorno non resti astrattamente nell’ambito di una comunicazione istituzionale fredda e distante dai problemi tragici posti da tutte le guerre comprese quelle in corso attualmente;

  • affinché si possa rendere ogni cittadino consapevole del pericolo che tutta l’umanità sta correndo nell’era nucleare con la riproposizione e l’accentuazione della guerra fredda;

  • affinché questa comunicazione del Consiglio Comunale possa nascere e vivere nell’ambito dell’interazione sociale dei partecipanti e dei cittadini;

  • affinché la parola così arricchita di SIGNIFICATI EXTRAVERBALI, anche se in modo tragico, delle esperienze storiche dell’umanità, possa realizzare un “bilancio valutativo” che tenda a modificare le coscienze e indichi un piano per un futuro di pace

propone agli iscritti e simpatizzanti ANPI

ai cittadini di Mirano

lunedì 22 dicembre 2014 la visione di un film quasi inedito nel nostro paese sulla tragedia di Hiroshima, per vederlo sarà sufficiente entrare nel sito www.anpimirano.it, collegarsi al link del film che verrà fornito alle ore 21.00 unico obbligo etico-morale, alla fine o durante la visione del film, sarà inserire un commento sul sito stesso.

PARTECIPATE A QUESTO NUOVO

CONSAPERE CINEMATOGRAFICO

IN MODO CHE VENGA INSERITO SULL’ORDINE

DEL GIORNO QUESTA DICITURA

…“richiamando che il comune di Mirano è membro ufficiale di Mayors for Peace dal 1° gennaio 2014, organizzazione non governativa fondata dai sindaci delle città di Hiroshima e Nagasaki con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari entro il 2020 e di promuovere la realizzazione di una pace mondiale duratura attraverso la Solidarietà tra le città del mondo. (“Visione 2020”)”

Con la riforma della Costituzione sarà più facile dichiarare guerra

costituzione_italianaLa notizia si diffonde timidamente, anche grazie alla recente presentazione di emendamenti alla Camera dei Deputati: ma con gli altri importanti temi sul tavolo politico, il rilancio fatica ad uscire dalla sordina. Eppure stiamo parlando di una modifica costituzionale che va addirittura a toccare la deliberazione dello stato di guerra. È una delle conseguenze dirette della Riforma Costituzionale Boschi con il riordino delle attribuzioni parlamentari voluto da Renzi. Ciò in automatico tocca tutte quelle funzioni ora attribuite in modo paritetico alle due Camere, tra cui appunto la possibilità di dichiarare guerra prevista dall’Articolo 78 della Costituzione repubblicana. Una scelta che davvero spiazza, considerato che comunque il Senato — cosiddetto delle autonomie — non è stato cancellato e che anche da esso passerà, ad esempio, la procedura di elezione del Presidente della Repubblica. Per la quale continuerà a valere la regola di una maggioranza qualificata, mentre invece si potrà decidere di iniziare una guerra con uno Stato estero solo con il voto della Camera dei Deputati e addirittura a maggioranza semplice.
Pare proprio che qualsiasi tentativo di modifica, che sia per inserire nuovamente anche il Senato nella decisione o quantomeno per innalzare il quorum necessario alla dichiarazione, verrà respinto dal Governo Renzi alla Camera, dove la discussione giace attualmente in Commissione Affari Costituzionali, come già successo al Senato. Il risultato, per certi versi paradossale, sarebbe quello di avere un accesso più facile ad una decisione grave come questa, addirittura rendendola meno difficile da prendere della già nominata elezione del Capo dello Stato. Inoltre l’effetto combinato con la riforma della legge elettorale, anch’essa sul tavolo parlamentare, ci potrebbe proiettare in una situazione per cui una minoranza non solo dell’elettorato ma anche del totale dei voti espressi, grazie al premio di maggioranza, potrebbe permettersi una dichiarazione di guerra in assoluta autonomia rispetto al resto del Paese.
Chiaramente non stiamo dicendo che la riforma istituzionale attualmente in discussione abbia come obiettivo principale quello di permettere ad un prossimo governo di poter andare a far la guerra facilmente in giro per il mondo… Ed oltretutto è ormai passato il tempo in cui i conflitti bellici venivano dichiarati formalmente dagli ambasciatori, con una sorta di antico galateo tra Stati. Ormai viviamo in un mondo dalla conflittualità liquida e diffusa, in cui la parola d’ordine per le frizioni politico-economiche è «bassa intensità» con il minore coinvolgimento possibile degli apparati pubblici e statali. Eppure dal punto di vista squisitamente politico si tratta di un passaggio problematico e non banale. Perché ancora una volta, come accade per molte altre questioni fondamentali nella vita del Paese e dei suoi Cittadini, si impoverisce il confronto politico riducendo la questione ad una decisione presa in ambiti ristretti e con una estremizzazione dell’idea di «vertice». Si continua insomma verso quella vocazione leaderistica che ha drogato la politica italiana negli ultimi anni per cui tutto appare sacrificato all’altare della cosiddetta «governabilità» o meglio ancora del decisionismo. Anche su un tema, come quello della guerra e della pace, in cui invece la riflessione calma e approfondita dovrebbe essere naturale ed imprescindibile.
Una modifica di prospettiva che sta avvenendo ad un secolo esatto di distanza dal primo conflitto mondiale: la sanguinosa Grande Guerra di cui tutti oggi ricordano orrori e distruzioni. Ma forse questo ricordo è celebrato solo perché siamo (solo in Italia) tranquillamente lontani nel tempo da morti, sangue, fame e conseguenze negative. Vogliamo davvero un modello di società in cui le decisioni più gravi ed importanti vengano prese in poco tempo e sulla base di un mandato conferito da una minoranza del Paese? Speriamo proprio di no. Ed anche per questo sarà opportuno che il mondo della Pace e della nonviolenza si faccia sentire con forza su questo ennesimo tentativo pasticciato di indebolire i capisaldi della nostra Carta Costituzionale.

Francesco Vignarca, Il Manifesto del 12 dicembre 2014

“RICOSTRUZIONI”: Volti e luoghi della sofferenza a cento anni dalla guerra 1914/1918

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La mostra, organizzata dal Comune di Mirano, raccoglie una settantina di opere tra disegni e fotografie inedite e sarà inaugurata sabato 22 novembre 2014 alle ore 17.30, presso la barchessa di villa Giustinian Morosini, “XXV Aprile”, a Mirano. L’esposizione si inserisce nel quadro delle manifestazioni promosse dall’Amministrazione Comunale per ricordare la Prima Guerra Mondiale a cento anni dal suo inizio.
I tre autori hanno scelto di operare nella direzione di non rappresentare la guerra nel suo compiersi: le gesta delle parti contrapposte, i campi di battaglia ma ricostruire le tracce evocatrici di quella immane tragedia nei volti stravolti, nei corpi mutilati o nelle pietre bianche squadrate di un paesaggio che ricorda“ i grandi cimiteri sotto la luna” così chiamati da Georges Bernanos.
Con i linguaggi propri dell’arte, da quelli più tradizionali, come il disegno, attraverso la fotografia su pellicola sino al digitale, si è costruita una sequenza di soggetti dove la dimensione visionaria è chiamata a confrontarsi con la concretezza del manufatto architettonico commemorativo, immerso in un paesaggio che, nel tempo, ha in parte annullato le devastazioni infertegli dalle vicende della storia.
I segni neri, forti e tormentati di Bruno Tonolo, si aprono alla stagione dell’ espressionismo e alla rappresentazione di una umanità sofferente e dolorosamente segnata dalle guerre e dai conflitti sociali del xx° secolo; le rielaborazioni fotografiche di Pier Paolo Fassetta, che simulano le ferite di una nuova scienza della morte, fanno parte di un processo di manipolazione teso a ridefinire l’identità dell’immagine collocandola in una dimensione “altra” rispetto al suo stato originale. Queste fughe da una realtà certa e misurabile, sono chiamate a confrontarsi con le fotografie di Matteo Chinellato, impostate su inquadrature rigorose che, in un viaggio nella memoria, ci restituiscono la fredda contabilità di una tragedia, pietrificata nella retorica celebrativa.
Modi diversi di esprimere l’orrore per eventi che è nostro dovere riconsiderare e meditare anche alla luce delle vicende internazionali di questi ultimi mesi che ci prefigurano scenari da terza guerra mondiale, senza vincitori ne vinti, per quel “sonno della ragione che genera mostri” dal quale l’umanità sembra dipendere per riaffermare la sua follia distruttrice.

La presentazione della mostra di Diego Collovini

Note biografiche:

Matteo Chinellato, fotografo per le agenzie Getty Images New York, Corbis Images Londra e PhotoShot di Londra inizia nel 2007 a fotografare nel settore professionale dopo vari anni di amatoriale. Specializzato nella micro-macro fotografia mineralogica per editoria, amplia il settore fotografico nella cronaca, natura, paesaggio e urbano, sopratutto della città di Venezia.Nel gennaio 2014 inaugura la sua prima mostra personale, curata dal prof. Italo Zannier, ” AL VOLO ” presso il Centro Culturale Candiani di Mestre con immagini riguardanti Venezia, nel settembre 2014 la sua seconda mostra personale, curata da Fausto Raschiatore, ” Ciak…Azione ! ” presso il Festival delle Arti della Giudecca. Diverse sue immagini sono pubblicate in vari libri, riviste, quotidiani e nel 2014 quattro immagini sono state esposte presso la billboard della Broadway e 46th st. a Times Square, New York mentre nel 2015 parteciperà alla Biennale d’arte di Palermo, curata da Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio.

Pier Paolo Fassetta, nato a Venezia, partecipa nel 1969 e nel ‘70, a due edizioni della rassegna San Fedele, a Milano. Nel 1978 e nel 1979 due personali: alla galleria Tommaseo, di Trieste e a Venezia alla Galleria del Cavallino. Per le Edizioni del Cavallino nel 1980, “Presenze”, cartella fotografica in trenta esemplari. Nello stesso anno “Nuovi Media” alla Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia. Nel 2007, “Una Generazione Intermedia”, al Centro Candiani di Mestre curata da R.Caldura e nel 2009, Lienz,“Unbound territories” presso la “Nineninezerozero” di Christina Winkler-Darby. A Venezia e a Roma,”ATTESA” a cura di F. Raschiatore. Maggio 2010, mostra alla Fondazione Luigi Di Sarro a cura di A Madesani. Nel settembre 2011, al Manege di S. Pietroburgo, terza edizione di “Photo Vernissage 2011”. Nel 2012, personale presso la galleria Sikanie di Catania. Sempre nello stesso anno inizia la collaborazione con la Bugno Art Gallery di Venezia. Nel 2014, “Incontri”, con Manfredo Manfroi, al Kunstraum Cafe Mitterhofer di S.Candido. e “Photissima” a Torino.

Bruno Tonolo, è nato a Mirano dove tuttora vive. Ha frequentato lo “Spazio arti figurative Lorenzo Lotto “ di Mirano diretto dal Maestro Gianfranco Quaresimin. Per questa realtà ha collaborato all’allestimento di numerose mostre esponendo anche sue opere. E’ stato invitato ad eventi sia collettivi che personali in Italia, Mestre, Palermo,Cavarzere,Mirano e all’estero alla Generator Gallery a Loughborough, Inghilterra. Ha collaborato alla realizzazione del murales all’ istituto scolastico “8 Marzo” di Mirano. È stato coordinatore e diretto esecutore del murales “Memoria Miranese” decorazione parietale posta nella Sala Consiliare di Villa Errera di Mirano. Si ricordano inoltre le seguenti iniziative: “Ritratti in piazza” promossa dall’Associazione Acrag e Spazio Arti Figurative “L. Lotto” nell’ambito della festa organizzata in Piazza Vittorino da Feltre a Chirignago nel 2008 e 2009. Settimana Europea della Mobilità, performance artistica dal vivo ed esposizione presso la Barchessa di villa Giustinian Morosini di Mirano.

Decennale della scomparsa di Eugenio Bruno Ballan “Barba”

Intitolazione Ballan e altri_LOCANDINA_luoghi

Tre giorni dedicati a quattro amministratori che hanno contribuito a costruire la Mirano di oggi con il suo patrimonio sociale e storico culturale:

venerdì 10 ottobre ore 20.30 a Mirano, presso la Sala Conferenze di villa Errera: convegno “Per non dimenticare”
sabato 11 ottobre ore 9.30: deposizione targhe

domenica 12 ottobre ore 9.30: commemorazione battaglia del Parauro e alle ore 11.30 commemorazione Bruno Ballan a Santa Maria di Sala.

E’ possibile consultare Il programma dettagliato nella locandina allegata.

Hong Kong, sotto l’ombrello

Di fronte alla «Umbrella Revolution» (definizione made in Usa), il governo britannico si dice «preoccupato» che a Hong Kong siano garantiti «i fondamentali diritti e le fondamentali libertà». Londra su questo può dare lezione.

Nell’Ottocento  gli inglesi, per penetrare in Cina, ricorrono allo smercio di oppio che portano dall’India, provocando enormi danni economici e sociali. Quando le autorità cinesi confiscano e bruciano a Canton l’oppio immagazzinato, intervengono le truppe inglesi costringendo il governo a firmare nel 1842 il Trattato di Nanchino, che impone tra l’altro la cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna. Da allora fino al 1997 Hong Kong è colonia britannica, sotto un governatore inviato da Londra. I cinesi sono sfruttati dai monopoli britannici e segregati, esclusi anche dai quartieri abitati da britannici. Scioperi e ribellioni vengono duramente repressi.

Dopo la nascita della Repubblica popolare nel 1949, Pechino, pur rivendicando la sovranità su Hong Kong, la usa  come porta commerciale, favorendone lo sviluppo. La Hong Kong riannessa alla Cina quale regione amministrativa speciale, con 7,3 milioni di abitanti su  quasi 1,4 miliardi della Cina, ha oggi un reddito procapite di 38420 dollari annui, più alto di quello italiano, quasi il sestuplo di quello della Cina.

Ciò perché Hong Kong, quale porta commerciale della Cina, è il 10° esportatore mondiale di merci e l’11° di servizi commerciali. Inoltre, essa viene visitata ogni anno da oltre 50 milioni di turisti, dei quali 35 milioni cinesi.

La crescita economica, pur inegualmenrte distribuita (vedi il sottoproletariato locale e straniero che campa con «l’arte di arrangiarsi»), ha portato a un generale miglioramento delle condizioni di vita, confermato dal fatto che la durata media della vita è salita a 84 anni (rispetto a 75 nell’intera Cina).

Il movimento studentesco nato a Hong Kong per chiedere che l’elezione del capo di governo sia diretta e non condizionata da Pechino, è formato da giovani appartenenti in genere agli strati sociali avvantaggiati dalla crescita economica.

Su questo sfondo si pone la domanda: perché, mentre si ignorano centinaia di milioni di persone che in tutto il mondo lottano ogni giorno per i più elementari diritti umani in condizioni ben peggiori, si trasformano alcune migliaia di studenti di Hong Kong, al di là delle loro stesse rivendicazioni, in icona globale di lotta per la democrazia?

La risposta va cercata a Washington. Gli ispiratori e i capi di quello che viene definito «un movimento senza leader» – dimostra un’ampia documentazione –  sono collegati al Dipartimento di stato e a sue emanazioni sotto forma di «organizzazioni non-governative», in particolare la «Donazione nazionale per la democrazia» (Ned) e l’«Istituto democratico nazionale» (Ndi) che, dotate di ingenti fondi, sostengono «gruppi democratici non-governativi» in un centinaio di paesi.

Due esempi fra i tanti. Benny Tai, il docente di Hong Kong che ha lanciato il movimento «Occupy Central»  (v. il South China Morning Post del 27 settembre), è divenuto influente grazie a una serie di forum finanziati da queste «ong». Martin Lee, fondatore del «Partito democratico» di Hong Kong, è stato invitato a Washington dalla Ned e, dopo un briefing teletrasmesso (2 aprile), è stato ricevuto alla Casa Bianca il 7 aprile dal vice-presidente Biden.

Da questi e altri fatti emerge una strategia, analoga a quella delle «rivoluzioni colorate» nell’Est europeo, che, strumentalizzando il movimento studentesco, mira a rendere Hong Kong ingovernabile e a creare movimenti analoghi in altre zone della Cina abitate da minoranze nazionali.

Manlio Dinucci, il manifesto, 7 ottobre 2014

Giornata internazionale della Pace indetta dalle Nazioni Unite

Ai cittadini del mondo

Il 21 settembre è la giornata internazionale della Pace indetta dalle Nazioni Unite.
L’ Anpi di Mirano intende commemorarla facendo conoscere l’invito pressante del Sindaco di Hiroshima rivolto in special modo ai Sindaci delle città affinché acquisiscano.
La consapevolezza della necessità di iscriversi a Majors for Peace e dell’obbligo etico morale che questo comporta , per conseguire l’obbiettivo della distruzione delle armi  nucleari, tutte!!!!, entro il 2020.

Inoltre tutti coloro che desiderano rispettare ed onorare una convivenza tra gli umani basata sul Diritto Internazionale sancito dallo Statuto delle Nazioni Unite e non sulla deterrenza dell’eventuale uso di un mix di armi nucleari e convenzionali per risolvere le situazioni di conflitto , possono sottoscrivere la Petizione lanciata dal Sindaco di Hiroshima Presidente di Majors for Peace :

-è sufficiente cliccare su Google     z petition Hiroshima

– sulla schermata che apparirà cliccare (la prima voce !) petition on line

Distruggiamo le armi nucleari !!!!     FIRMA ANCHE TU !!!!

Anpi Mirano

In allegato la lettera del sindaco di Hiroshima  MATSUI Kazumi presidente Mayors for Peace, l‘informativa su Sindaci per la pace, l’interrogazione del deputato Tatiana Basilio componente IV Commissione Difesa della Camera dei Deputati.