Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli in una intervista (parte di una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore.
«Ero tornato a Bologna dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li aveva mandati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a lavorare al Resto del Carlino. L’8 settembre andai a trovare i miei genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato.
E c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu come una ribellione interiore: gliela faccio pagare. Credo che sia successo a tanti che furono presi da sentimenti diversi, ricordi della prima guerra mondiale, i giuramenti alla patria, io avevo giurato da ufficiale… Per cui non ci fu una base comune ma tante storie individuali che entrarono nella Resistenza.
Entrai in un bar vicino alla stazione e c’era gente che diceva bisogna fare qualcosa, basta coi tedeschi, e c’era Corrado Bonfantini, che disse: chi vuole fare qualcosa, possiamo farlo insieme. Mi diede appuntamento il giorno dopo e formammo le squadre, divise fra Partito d’Azione e socialisti. Il nostro compito era informativo, di sabotaggio e anche di eliminazione, simile ai Gap. Io non sapevo che esistessero i Gap se non per sentito dire. Facevamo le stesse cose, ma senza la stessa capacità organizzativa e senza le azioni gloriose fatte dai Gap di Torino che erano comandati da Giovanni Pesce e da Ilio Barontini, che erano stati in Spagna. La prima cosa era procurare le armi per formare squadre che potessero combattere seriamente, e alimentare la guerriglia che si veniva formando in montagna. Comunque abbiamo compiuto varie azioni, abbiamo fatto saltare gli impianti ferroviari, varie cose che si dovevano fare in quei tempi. Io ero abbastanza esperto di esplosivi perché avevo fatto il corso guastatori nell’esercito. Anche eliminazioni: c’era un reparto di polizia addetto contro i partigiani, e io mi ero fatto amico, fingendo di esser fascista, con uno di questi agenti che mi diceva come ricevevano le informazioni – le delazioni sono state moltissime perché erano ben pagate. E io ho partecipato a queste azioni di eliminazione.
I fascisti scoprirono il comando militare, col quale ero in contatto tramite i cattolici. Fu preso in una chiesa, dove avrei dovuto trovarmi anch’io, tutto il comando militare del Cln e furono fucilati al Martinetto. Perché non andai a quell’incontro? Mi aveva mandato Bonfantini; lui disse a me di andare perché si sentiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza Carignano e lui mi fece cenno di stare attento; appena fatto questo cenno gli saltarono addosso due, mi ricordo con impermeabili chiari, gli saltarono addosso. Bonfantini si divincolava e gli spararono alla schiena. Io mi allontanai, ero disarmato, non andai a quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in pericolo. Mi disssero di raggiungere un reparto di Giustizia e Libertà nel Monferrato. Però avrei dovuto portarmi dietro dei ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, giovanissimi, avevano costituito un distaccamento e fatto delle azioni, quindi li conoscevo bene. Nel frattempo venni a sapere che un ragazzo che si chiamava Folco Portinari, che poi sarebbe diventato funzionario della Rai e docente, era stato preso dai tedeschi e gli avevano detto, a lui e altri, che se si arruolavano nelle SS italiane avrebbero avuto un trattamento particolare; se no, dovevano andare ai lavori forzati in Germania.
A punta di pistola mi feci consegnare un camion dell’azienda del gas, e andai all’appuntamento con questi quaranta in divisa da SS. Salimmo sul camion e andammo a Superga. Decidemmo di dormire lì nel campo, però i ragazzi della Barca sospettarono che queste SS erano vere, e discutevano se uccidermi – poi decisero di aspettare e io ebbi salva la vita, ma per miracolo. Fatto sta che con questo camion che tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, raggiungemmo la 19brigata, e lì mi dissero che avrei dovuto comandare questo reparto, che era piuttosto consistente, poi però mi nominarono capo di stato maggiore e passammo nella val di Lanzo.
Lì avemmo delle avventure piuttosto pesanti, dei rastrellamenti feroci. Uno di questi ci portò a disperderci. La nostra tecnica era di prevedere di doverci disperdere e di avere dei punti di raccolta. Il mio punto di raccolta era una conceria, vicino al parco della Mandria, e mentre eravamo lì che ci stavamo riorganizzando arrivò uno che sembrava un contadino a dire che c’era un carrarmato che avevano rimesso a posto, proprio dentro la Mandria, e lui ci avrebbe aperto una certa porticina e avremmo potuto recuperarlo. Andammo, presi una decina di uomini, c’era anche Adolfo, il commissario politico. Io per primo mi presentai davanti a questa porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise il suo mitra sotto il braccio destro, e io avevo la pistola in mano e gli uomini dietro. Aprimmo questa porta — e ci spararono. Io non fui preso dai primi colpi perché quello che mi doveva uccidere fu colpito da questo mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una raffica e fui ferito, fui ferito gravemente. Quelli che erano dietro a me mi tirarono indietro e mi salvarono, mentre questo Adolfo rimase in mano loro e fu preso e lo impiccarono.
Mi nascosero nei sotterranei della conceria dove c’erano delle grandi caldaie, faceva un caldo terribile. La ferita mi faceva molto male, sbattevo la testa pensando di ammazzarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi intontivo soltanto, finché mi tirarono fuori e mi salvarono, proprio. Poi i nostri reparti si riunirono e ritornammo nel Monferrato, e io mi trovai in una cascina nel Monferrato dove veramente mi salvarono la vita perché ci furono dei rastrellamenti feroci e questi contadini, non sapevo neanche chi fossero, rischiarono la pelle per nascondermi, facevano delle buche col letame perché i tedeschi avevano dei cani che fiutavano, e mi salvarono. Continuai fino alla liberazione a zoppicare.
Noi avevamo dei rapporti straordinari con la gente. Eravamo, se si può dire, molto ricchi, nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata redistribuita alle formazioni partigiane, soldi ci arrivavano anche dalla Fiat, poi anche gli alleati ci mandavano non armi ma soldi. Per cui il rapporto con contadini era buono perché noi pagavamo, non davamo i buoni. Molte volte erano generosi, non volevano essere pagati a volte; noi abbiamo passato un periodo molto buono dal punto di vista dell’alimentazione. Certo le condizioni erano durissime ma l’accoglienza da parte della popolazione fu una cosa straordinaria.
Quando scendemmo dalle montagne ci ponemmo il problema di che tipo di guerriglia fare. In pianura dovevamo inventare, e io, per carità non pretendo di essere uno stratega, fui uno dei fautori della guerra delle volanti – cioè prendemmo dei camion grossi, li facemmo corazzare, il padre di Sergio Pinin Farina ci fece corazzare dei camion con delle lastre di metallo, e quattro cinque di quei camion diventavano una volante, si facevano della azioni molto veloci soprattutto contro i posti di blocco, e ci si ritirava. Durante i rastrellamenti si nascondevano questi camion, li avevamo anche interrati con delle fatiche spaventose per fare delle buche enormi per questi camion. Facemmo delle azioni, prendemmo anche una piccola città, Chieri, neutralizzando con le volanti i presidi vicini. Per sbaglio nelle prime luci dell’alba io sparai un colpo di bazooka contro il campanile. La presa di Chieri, che prelude a Torino, fu interessante perché queste brigate nere erano gente feroce per cui trovammo nei sotterranei gente moribonda perché avevano messo fra le dita dei piedi del cotone imbevuto di qualcosa che bruciava e gli avevano bruciato i piedi, erano in cancrena… E decidemmo di fucilarli in piazza, e li fucilammo dopo un processo in cui il presidente della corte era un ufficiale dei carabinieri che poi diventò il comandante dei carabinieri a Roma.
I ricordi si affastellano, sono anche dolorosi perché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, diciassette anni, e avevano molta fiducia in me. Il rapporto di fiducia col comandante era importante, non perché fosse più valoroso o coraggioso ma perché ti dava un minimo di sicurezza in una guerra così insicura come quella della guerriglia. Io avevo l’esperienza della guerra di Russia ma ho avuto delle paure terribili. Tu non puoi avere paura: devi recitare, di fronte agli altri, perché se no li fai morire; la paura del comandante è la morte dei sottoposti. Tu devi recitare di sapere quello che vuoi, non avere incertezze; se mandi uno in un certo posto è perché sai che dev’essere così, questo l’avevo imparato in guerra in Russia.
E così arrivammo agli ultimi giorni tormentati della presa di Torino. Noi ci attestammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di attestarci prima sul Po per dividere le zone d’attacco. E mentre eravamo lì ricevemmo l’ordine di non entrare a Torino. Il colonnello Stevens della radio inglese aveva avuto informazioni dal comando generale dell’esercito inglese che c’era un raggruppamento di divisioni tedesche che stava puntando su Torino. Stevens diceva che se noi entravamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il sangue sarebbe corso in un modo spaventoso. Noi ci fermammo per qualche ora, meditammo – ma la città era insorta, già nelle fabbriche si combatteva. Allora Colaianni, che si chiamava Barbato come nome di battaglia, che era il comandante della zona attestata sul Po, disse: bisogna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che passarono il Po. Il comandante si incavolò come una bestia perché lasciai il posto per andare con loro, però rientrai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il sidecar. E furono giorni di combattimenti feroci.
Torino è l’unica città dove si è veramente combattuto tanto, e ci sono degli episodi che non sono stati forse raccontati. La cosa terribile di Torino è che c’erano i franchi tiratori, i quali non sparavano contro i partigiani: sparavano contro chiunque, era un’azione terroristica. E chi li organizzava era questo Solaro che fu poi impiccato allo stesso albero di Ignazio Vian che era un eroico partigiano nostro impiccato dai fascisti. Solaro fu preso non so come, e cominciò a dire che era un uomo di sinistra, che aveva aderito al partito fascista perché voleva che diventasse comunista… Il tribunale militare ne ordinò la morte. Mi ordinò di farlo impiccare. Fu incaricato un gruppo della 19ma, però andai anch’io. Ed è una cosa spaventosa, questo uomo distrutto che sa di essere ammazzato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore di giustizia, ti fa sempre male vedere un uomo morire in quelle condizioni. Io ero contrario alle impiccagioni, tanto è vero che ho chiesto se potevamo fucilarlo, mi dissero no; qualcuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che volevano restituire alla popolazione questa visione del colpevole, l’ organizzatore dei franchi tiratori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per salvarlo, mi sembrava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popolazione sopraffece lo schieramento di questi uomini della 19ma, lo impiccarono e impiccato lo portarono in giro per Torino fin quando lo buttarono nel fiume».
A cura di Alessandro Portelli (Il Manifesto del 13 febbraio 2015)