“Senza diritti, scienza e lavoro il progresso del nostro Paese è a rischio”

elena-cattaneo-2-770x580Discorso di Elena Cattaneo, Docente della Statale di Milano e Senatore a vita, alla celebrazione del 25 aprile in Piazza Duomo a Milano:

Prima di riuscire a salire su questo palco ho trascorso giornate a cercare nei libri sui quali sono solita studiare, di genetica, di biologia, di neuroscienze per trovare spunti, meccanismi che mi aiutassero a capire come presentarmi qui oggi, in questa piazza, in una giornata così significativa.
Inutile dire che non ho trovato niente. E che non è facile per una persona come me abituata a lavorare su ciò che è infinitamente piccolo e invisibile anche solo sollevare lo sguardo verso questa piazza e indirizzarlo verso momenti che non ho vissuto ma che ho studiato. Posso quindi solo presentarmi a voi per quello che sono. Sono una scienziata, un professore universitario, qui alla Statale di Milano, sono una donna, una mamma, una cittadina di questo Paese.
E sento che questo Paese e chi lo ha abitato per anni prima di me ha consegnato a me e a molti più o meno giovani di me una grande fortuna: quella di svegliarci ogni mattina nella parte più bella del mondo. Ma anche la garanzia che non sapremo mai cosa significa lo scoppio di una bomba a pochi metri o che non vedremo mai nessuno dei nostri figli salire su una zattera per affrontare un mare immenso in cerca della liberazione. A noi questa fortuna è stata data. Ci è stata data insieme a una seconda grande fortuna, che è la possibilità di leggere, di studiare, di impadronirci di pezzi di conoscenza nel Paese che vanta più cultura al mondo. Senza però dimenticarci che con la cultura e lo studio viene anche il privilegio (oltre all’onere) di sottoporre le proprie idee alla verifica delle fonti e dei risultati dimostrabili.
Ecco io comincio ogni mattina conscia di queste due fortune e con un senso di gratitudine perché il mio bicchiere è già mezzo pieno senza che io abbia fatto nulla per meritarlo. È anche per questo motivo che credo che il mondo sia prima di tutto degli altri e poi mio e che impegnarsi sia un dovere.
Nel passato le cose stavano diversamente. Per insegnare dovevi giurare fedeltà. Al Re prima e al fascismo poi. Nel 1931 fu imposto a tutti i professori universitari di giurare fedeltà anche al regime fascista e a Mussolini. Erano state aggiunte solo tre parole rispetto al giuramento che comunque già bisognava fare al Re: Per due volte era ripetuto “Al Regime fascista”.
Dodici professori su 1225 rifiutarono palesemente di prestare questo giuramento e persero la cattedra. Perdere l’insegnamento significa perdere il rapporto con gli studenti. È come strapparti il cuore. Alcuni altri non giurarono sottraendosi con modalità diverse. Un certo numero si era già defilato prima dall’Italia.
Questi i loro nomi: Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi della Vida, Fabio Luzzatto, Francesco Ruffini e suo figlio Edoardo, il più giovane di tutti. Aveva 30 anni ed era all’inizio della sua carriera universitaria, insegnava storia del diritto.
E’ un dovere ricordare chi ha contribuito, con le sue azioni, a lasciarci un’Italia libera e democratica. Loro hanno combattuto senza armi. Lo hanno fatto con il modo che conoscevano meglio: tenendo accesa la fiaccola della conoscenza che non poteva essere piegata a nessun totalitarismo.
E’ dalla storia di un Paese che si deve partire per costruire il futuro. E’ la storia da cui partire per ricordare le emozioni, le conquiste, gli errori da non fare più, per trovare ispirazione, moniti, coraggio.
Tra gli oltre mille che giurarono vi furono alcuni nomi capitali della nostra storia che lo fecero «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà», per impedire che le loro cattedre – secondo l’espressione di Luigi Einaudi – cadessero «in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti».
Altri accademici vicini al comunismo giurarono con la giustificazione che il prestare giuramento permettesse loro di svolgere “un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’ antifascismo”. Analogamente, la maggior parte dei cattolici, su suggerimento di Papa Pio XI, prestò giuramento «con riserva interiore».
Quel Giuramento di fedeltà al fascismo fu imposto anche nella Pubblica Amministrazione e nelle industrie più importanti: a chi si rifiutava veniva spedita una lettera di “licenziamento in tronco”.
Come molti storici mi insegnano non bisogna guardare alla storia come a qualcosa fatta da soli eroi, anche se questi esistono. È più autentico e aderente al reale vedere come le varie categorie di persone hanno opposto resistenza al Fascismo lungo un continuum , che va dal non partecipare ad alcuna attività politica fascista sino all’opposizione e al carcere, come Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni, Sandro Pertini, la cui storia di resistenza, lotta, carcere in opposizione al nazifascismo fu ovviamente enorme.
Queste persone rimangono figure abbaglianti. Sono esempi di puro fulgore morale.
Si deve cercare nella storia delle persone esempi, cioè scelte a cui guardare e da cui imparare. Io cerco di farlo, senza nemmeno lontanamente pensare di potere rivivere la forza morale di coloro che hanno fatto la Resistenza, che è cosa alta e d’altri tempi. Però sono curiosa per i ragionamenti di chi va oltre la contingenza personale, e in essi cerco la coerenza e la dirittura morale. Cerco di capire quale coraggio abbia spinto, sollecitato, sorretto quelle persone. Come hanno potuto e saputo organizzarsi proprio nella nostra città, Milano, nell’aprile del 1945, quelle persone per insorgere e liberarla. Mi interessa capire come hanno potuto immaginare e saputo credere di potere cambiare la storia di questo Paese in meglio. Ciascuno di loro era uno solo. Ma erano uniti da un senso di appartenenza a questo Paese che non potevano vedere trattato in quel modo.
Quegli esempi animano in modo analogo il mio lavoro, perché vorrei anch’io, come tanti altri colleghi, tenere accesa, idealmente, la stessa fiaccola che i docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e tutti i cittadini che lo sconfissero non hanno lasciato spegnere più di 70 anni fa.
Mi occupo di scienza e del suo insegnamento. Ho il compito, con i miei colleghi, di costruire la conoscenza, quella che non è ancora scritta nei libri di oggi e che sarà rifinita su quelli di domani. Ho il compito di promuovere i saperi, di contribuire a dare speranze. Anche di fare da sentinella rispetto a tutte le situazioni che mirano a manipolare e piegare i fatti a interessi di parte e che, così facendo, mettono a rischio la libertà, prima di tutto il resto.
Amo il mio lavoro. E penso che possa insegnare un comportamento di vita salutare. Perché insegna che l’onestà nella vita di una persona è tutto, che ogni lavoro fatto onestamente è fondamentale; che impegnarsi è un dovere. Questo lavoro mi ha insegnato ogni mattina a partire come se stessi andando sulla luna, tante volte senza nemmeno sapere dove sia la luna. Mi ha fatto capire che le mie idee, quelle che ho più fortemente amato, possono essere sbagliate.
E quindi mi ha insegnato un metodo per verificare se sono giuste o sbagliate. Il metodo consiste nel mettere alla prova le idee facendo degli esperimenti. Cioè nel portare quelle idee al bancone del laboratorio, dove devo mettere in fila tutti gli esperimenti che riesco a immaginarmi, per capire quali tra le mie aspettative sono sbagliate. E quali rimangono temporaneamente in piedi.
Il mio lavoro mi ha insegnato cosa significhi fallire. Ma anche a esplorare luoghi dove nessuno era mai stato prima. E dove hai due possibilità. Scappare o resistere. Nei nostri laboratori noi impariamo a resistere sperando in un traguardo per poi magari vederlo svanire e infine raggiungendolo proprio per non avere mai rinunciato a cercarlo.
Parlo di un lavoro che insegna a costruire con altre persone, ovunque siano nel mondo, e con loro a coltivare il battito della speranza che non dà tregua, ma anche l’orgoglio di una professione che ogni giorno sembra capace di risvegliare una delle parti più pure e passionali degli uomini.
Dobbiamo parlare di più di scienza, di speranza, di cultura nel nostro Paese. Dobbiamo riuscire a mettere politica, scienza, cultura nelle stesse aule. Penso sia importante per il Paese. Perché la scienza insegna il rispetto per l’oggettività dei fatti, la tolleranza verso punti di vista diversi, il rifiuto dell’autoritarismo. La scienza può insegnare a diventare cittadini migliori perché insegna a rispettare le prove, ad amare ciò che uno conquista e tutti poi possono usare, a rifiutare le menzogne, a resistere ai compromessi che riducono la libertà, a combattere gli abusi.
Un tempo pensavo che fare lo scienziato significasse “solo” stare in laboratorio e invece ho capito che la parte più importante della scienza è la sua dimensione pubblica, e questa piazza lo dimostra. Lo scopo è uno: conoscere per dare ad altri.
Si deve discutere di tutto. Non puoi rinunciare a percorrere nuove strade quando ti trovi alla frontiera. Quindi impari a dissentire ogni volta che qualcuno vuole impedirti di studiare o di andare in una direzione ignota, sentendone quasi fisicamente la necessità, quando serve e tutte le volte che i fatti vengono manipolati.
Ecco la fiaccola che tutti noi dobbiamo tenere acceso. È la fiaccola dei fatti accertati e accertabili. C’è la realtà, e poi basta. Non è solo un fatto di scienza ma anche di civiltà.
Tra gli esempi di vita del nostro passato, guardo anche a quella degli scienziati che hanno scoperto per tutti e contro tutti. E oggi voglio ricordare anche la vita non facile di uno scienziato che ha visto coronata la sua lunga carriera con il massimo riconoscimento possibile, sia in ambito scientifico sia in ambito politico.
Era uno scienziato ebreo in un Paese totalitario governato da razzisti; aveva deciso di rifiutare la vita classica fatta di casa e famiglia per dedicarsi alla vita di laboratorio; aveva combattuto contro il padre per avere ciò che le spettava, la possibilità di studiare. Questo scienziato, lo avrete capito, era una ebrea nell’Italia fascista delle leggi antirazziali; era una donna nell’Italia maschilista degli anni 30, dove alle donne era preclusa la vita accademica.
E’ la scienziata Premio Nobel e Senatrice a vita che scoprì l’esistenza delle neurotrofine, Rita Levi Montalcini. Un esempio per tutti noi, un esempio degli inestricabili rapporti tra libertà politica e libertà della ricerca scientifica. Rita fu allieva del grande anatomista Giuseppe Levi, all’Università di Torino. Insieme a lei, Levi fu maestro anche degli scienziati Renato Dulbecco e Salvador Luria, anche loro riconosciuti nel loro lavoro con il Premio Nobel. Un maestro, tre premi Nobel. Una storia unica al mondo e che probabilmente resterà unica per i secoli a venire.
E allora penso a questo. Penso che a volte capita di essere un po’ pessimisti e di considerare il nostro Paese senza speranza e quindi chiudersi in se stessi. Ma è questa nostra storia di cittadini, di uomini di cultura, di instancabili partigiani della ragione a dirci che non possiamo. Perché la terra che calpestiamo è stata la terra di grandi scienziati e illuminati pensatori, in tutte le discipline. E anche io voglio partecipare a questo Paese, con ciò che so meglio fare, che è lo studio delle cellule del cervello e di una specifica malattia, per sperare di poter contribuire a vincerla. L’entusiasmo è ancora tutto qui, ti fa aprire la porta del laboratorio di ricerca ogni mattina come se avessi 20 anni e come se volessi cambiare il mondo. Che è poi quello che cerchiamo di fare ogni giorno nei nostri laboratori. Vincere sfide di conoscenza e malattie.
Ecco perché non posso accettare limitazioni della libertà e dei diritti sullo sviluppo della società.
Cosa significa dunque festeggiare la Liberazione per una porzione importante della società che è il suo sviluppo scientifico e tecnologico, per una porzione di società che vuole assicurarne il cammino verso il progresso?
Significa in primo luogo ricordarsi che Diritti, Progresso e Libertà non arrivano da soli ma bisogna costruirli: cioè progettarli e poi convincere la politica che si possono realizzare. In secondo luogo che Diritti, Progresso e Libertà, una volta acquisiti, vanno anche difesi.
In questi otto mesi in cui ho fatto anche la Senatrice a vita, accettando con tutta l’umiltà possibile, con tutta la devozione e l’impegno possibile, senza mai trascurare il laboratorio, mi sono più volte chiesta come potevo promuovere la ricerca dei fatti, la verifica e l’attendibilità delle proposte scientifico-tecnologiche disponibili sul campo, e quali erano quelle utili al Paese.
La risposta che mi sono data è che queste cose diventavano raggiungibili solo “liberando ogni possibilità di indagine” e facendo si che i diritti non fossero calpestati.  Ci sono tante battaglie da fare. Una è già stata quasi vinta, contro la legge 40. Una legge basata su limitazioni ideologiche e cieche, che tanto male ha fatto a tante coppie. Ma le battaglie non sono finite. Sentiamo da più parti insensati attacchi contro la vaccinazione. Alcune regioni vorrebbero uscire dal programma nazionale delle vaccinazioni infantili. Non c’è un solo dato che provi la nocività dei vaccini. Tutto dice il contrario, e se oggi l’umanità è libera dalle pandemie che l’hanno falcidiata come il vaiolo, la difterite e la poliomielite, lo dobbiamo ai vaccini. In questo paese non si può quasi parlare, discutere e cercare le prove scientifiche su un altro tema importante, quello degli ogm. I divieti stanno creando gravi problemi al settore agroalimentare, in drammatico deficit da decenni. Rinunciare pregiudizialmente all’ogm è un atteggiamento miope.
Certo, noi non siamo tedeschi, neppure inglesi o francesi e spesso agiamo spinti dai sentimenti prima che dalla razionalità. Ci spinge un sentimento di umanità, non per niente siamo la patria dell’Umanesimo. Spesso è un bene e una nostra forza. Ma non siamo tedeschi, francesi o inglesi nemmeno quando dovremmo reagire contro chi ne approfitta. Per questo gli italiani hanno bisogno, più di altri, che ci siano delle sentinelle, per loro, nei luoghi della politica.
Mi avete permesso e dato l’onore di dire molte cose. Vorrei quindi concludere. Mi sono riferita al nazifascismo e alla fiera opposizione che la migliore Italia ha saputo manifestare. Ho parlato di quello che conosco meglio, della scienza, di storie di scienziati, di diritti come esempio emblematico della responsabilità che ha la cittadinanza, che abbiamo noi, anche noi qui in questa piazza, di difendere il progresso nostro e delle future generazioni.
Ma il progresso passa soprattutto attraverso il lavoro. Senza diritti, scienza e lavoro il progresso del nostro Paese è a rischio. Tra le varie libertà c’è anche quella di avere un lavoro, e fare ricerca è un lavoro. Questo è qualcosa che come scienziata sento molto: le nuove generazioni non devono essere obbligate a espatriare per fare della buona ricerca. L’estero deve essere una grande possibilità formativa, non un destino per la sopravvivenza.
In laboratorio e in Senato lavorerò per un Paese più libero da oscurantismi antiscientifici, per un Paese che abbia più libertà e lavoro, per un Paese che torni ad avere la speranza per il futuro che il suo passato merita. E con me, in quel Parlamento e fuori, so, perché vi vedo ora, che ci sono tante altre sentinelle pronte a scongiurare il rischio di tornare a quel passato buio da cui i nostri nonni e genitori ci hanno liberato.

La liberazione di Mirano

29 aprile 1945: partigiani, patrioti e soldati inglesi in piazza a Mirano
29 aprile 1945: partigiani, patrioti e soldati inglesi in piazza a Mirano
29 aprile 1945: il contingente tedesco si arrende
29 aprile 1945: il contingente tedesco si arrende

 L’attività del Comitato di Liberazione Nazionale di Mirano riprende nel marzo del 1945, quando Marcello Demonte, Erminio Nicoletti e Pellegrino Sperandio tornano ad incontrarsi per ricreare il gruppo di persone che avevano contrastato i fascisti e che, ora, devono pensare alla possibile liberazione. Nel medesimo periodo ricominciano gli incontri anche fra i partigiani rimasti nascosti nella zona. Come ricorda Tomat-Demonte, tornato a Mirano dopo la fuga dal carcere di Brescia, dove era stato rinchiuso dopo il processo del gennaio 1945: “a Mirano rimango in semiclandestinità e riprendo i contatti con quei pochi elementi della Resistenza che sono rimasti in zona”.
Il 26 aprile si ha fra gli elementi del Comitato di Liberazione un incontro che si tiene in casa di Sperandio ed al quale partecipa il dottor Fioridia. Durante la riunione si decide “di non porre ulteriore indugio all’azione sovratutto ai fini di tentare di creare in Mirano una situazione di equilibrio fra truppe tedesche uscenti ed eventuali truppe inglesi entranti, che non turbasse la vita cittadina e sovrattutto che non creasse vittime e distruzioni”. In pratica, si decide di impadronirsi dell’edificio del municipio e della casa del fascio cercando in entrambi i casi di evitare lo scontro coi tedeschi, “anche perché precise assicurazioni del Comando del presidio germanico escludevano il loro intervento”. In questo momento sono presenti in Mirano circa quattrocento soldati tedeschi in armi.
Intanto, “elementi della Resistenza locale e volontari del momento” si riuniscono a Scaltenigo per programmare la presa della casa del fascio e l’arresto dei fascisti prima che fuggano: essi contano sull’aiuto, al momento opportuno, di collaboratori della polizia e della Marina Militare. Inoltre cercano di evitare l’intervento del tedeschi “assicurandoli anzi che a noi interessano solo i fascisti ed eventualmente le S/S tedesche”.
Lo stesso 26 aprile i partigiani a Scaltenigo disarmano, comandati da Guido Gambato, la caserma della milizia ferroviaria ed un reparto di brigate nere di Bologna. La mattina del 27 tutto il materiale così sequestrato viene recuperato da automezzi del C.L.N. e portato a Mirano.
Alle dieci della stessa mattina i rappresentanti del C.L.N. di Mirano si recano nel Municipio e chiedono l’immediata consegna al Comitato stesso della gestione del Comune. Mentre sono in corso le trattative, i partigiani attaccano con una azione a sorpresa la casa del fascio: essi agiscono al comando del tenente della polizia che, al contrario di quanto stabilito dal Comitato di Liberazione, ordina l’attacco per crearsi un alibi. Intervengono i tedeschi che ingaggiano una sparatoria nella piazza di Mirano. La situazione diventa pericolosa e i rappresentanti del C.L.N. si recano nella casa del fascio a trattare con i tedeschi: sono attimi in cui si rischia la degenerazione del conflitto. Il tenente di polizia, intanto, fugge dall’edificio calandosi dalla finestra.
A mezzogiorno si riesce a far cessare la sparatoria. Come ricorda Tomat-Demonte: “noi per evitare inutili rappresaglie e vittime negli ultimi momenti di guerra, desistiamo dall’azione e così perdiamo anche l’occasione di catturare i fascisti che ci interessavano, tranne qualche mezza figura”.
Alla fine della sparatoria rimangono, comunque, dei caduti e dei feriti. Non è facile dirne il numero preciso. Secondo Tomat-Demonte: “restano uccise in piazza tre persone più un partigiano, tanti i feriti”; secondo la relazione del C.L.N. di Mirano al C.L.N. di Venezia in data 8 maggio 1945 cadono, invece, un partigiano, due civili ed un tedesco. Un partigiano (Luigi Tomaello), due tedeschi, una donna ed un bambino morti più vari feriti fra i rimanenti partigiani ed i civili è il bilancio della relazione della Brigata ‘Martiri’ in data 5 aprile 1946. Infine, sono due partigiani (il Tomaello e Mario Marcato), due tedeschi ed una donna morti e vari feriti secondo la relazione della Brigata ‘Martiri’ senza data.
Dopo questo scontro, i rappresentanti del Comitato di Liberazione intervengono nuovamente presso i comandanti tedeschi imponendo loro sei clausole alle quali attenersi e che, in breve, dispongono: “nessuna circolazione da parte dei soldati tedeschi, chiusi nelle loro caserme, allontanarsi al più presto possibile da Mirano e non fare uso alcuno delle armi”. Viene, in questo modo, superato un primo momento molto pericoloso per Mirano: la non accettazione da parte dei tedeschi delle clausole avrebbe procurato a Mirano gravi danni, visto che al momento della trattavia, sono in Mirano circa tremila soldati germanici con dodici carri armati.
Nel corso dello stesso 27 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale di Mirano assume “tutti i poteri di amministrazione del territorio del Comune di Mirano” e nomina la giunta popolare amministrativa composta da: Luigi Bianchini, Franco Pezzoni, Emilio Prosdocimi e Pietro Ribon (per la Democrazia Cristiana); Marcello Demonte, Gioacchino Gasparini e Giuseppe Tizianello (per il Partito d’Azione); Erminio Nicoletti ed Antonio Naletto (per il Partito Comunista); Pellegrino Sperandio (per il Partito Socialista). Emilio Prosdocimi viene nominato sindaco; prosindaco è Marcello Demonte. Gli stessi Bianchini, Demonte, Nicoletti e Sperandio firmano il decreto come rappresentanti del C.L.N.
Come recita il primo articolo del decreto che annuncia la nomina della giunta (affisso in forma di manifesto in data 28 aprile 1945), “in attesa di una libera consultazione popolare e delle ulteriori disposizioni del governo democratico italiano (…) i cittadini come sopra designati entrano immediatamente in carica sostituendo i precedenti amministratori decaduti dalla funzione”. Gli articoli n° 4 e n° 5 dello stesso decreto invitano i facenti parte delle forze armate nazi-fasciste a consegnare le armi e l’equipaggiamento al più vicino posto dei Volontari della Libertà, sotto pena di morte; e afferma il passaggio di “tutte le forze armate nazionali del Comune” agli ordini del Comando dei Volontari della Libertà, rispondente a sua volta al Comitato di Liberazione.
Ma Mirano non è ancora formalmente libera.
Il 26 aprile Fioridia convoca i partigiani, distribuisce le armi a coloro che ne sono sprovvisti ed indica la linea da seguire: “veniva predisposto il blocco delle strade, Tinterruzione delle vie di comunicazione che danno accesso a Mirano con brilla¬mento di mine, il disarmo di gruppi di tedeschi, l’installazione di staffette segnalatrici dei gruppi tedeschi avanzanti onde stabilire di volta in volta il disarmo o meno a seconda della forza data la nostra esiguità di uomini e di mezzi”. Tutta la giorna¬ta viene impiegata per il disarmo di gruppi tedeschi in transito verso la ritirata: la situazione non è tranquilla, ma viene, comunque, controllata dai componenti del C.L.N..
La mattina del 29 aprile la sede del Comitato di Liberazione è teatro di una sparatoria fra resistenti e tedeschi. Dopo la costruzione di una barricata di fronte alla sede del Comitato, la colonna tedesca si blocca ed invia qualcuno a trattare coi rappresentanti del Comitato i quali sventano nuovamente un attacco contro Mirano.
Ma la paura non è finita: lo stesso giorno un gruppo di partigiani ingaggia appena fuori il paese un combattimento contro un contingente tedesco: si tratta di quat- trocentottanta uomini equipaggiati con lanciabombe, panzerfaust e mitragliere pesanti. L’armamento viene piazzato in attesa dell’arrivo dei mezzi inglesi ormai vicini. Il comandante tedesco viene contattato e condotto a parlamentare coi rappresentanti del Comitato di Liberazione per tentare di evitare lo scontro fra inglesi e tedeschi, scontro che metterebbe in pericolo Mirano. Mentre si svolge la trattativa, i partigiani avvertono le prime autoblinde inglesi dell’80 Armata, che “entrarono a Mirano, provenienti dall’autostrada e dalla Via Porara alle ore 15 circa del giorno di domenica 29 aprile 1945 e si diressero subito verso Mestre”: qui, in località Fossa di Mirano, inglesi e tedeschi si accordano senza sparare un colpo. Alle sei di sera il contingente tedesco si arrende, deposita le armi in piazza a Mirano e riparte verso Mestre, sotto la scorta degli inglesi.
A Mirano rimangono una quarantina di soldati russi consegnati, dopo pochi giorni, alle autorità alleate.
Mirano è ora libera. Come ricorda Monsignor Muriago: “così ebbe fine per Mirano la guerra. Esplosioni di gioia per tutta la serata e nei giorni seguenti”. E Bruno Tomat-Demonte, dopo avere controllato il disarmo degli ultimi tedeschi in piazza a Mirano: “dalla busta di un ufficiale tedesco, buttata nel mucchio, escono dalle carto-
line, ne prendo due-tre, me le metto in tasca: è il mio bottino di guerra… e me ne torno a casa terminando così 7 anni di vita donata alla Patria”.

(da “Mirano 1938-1948 – La Resistenza e la vita della società miranese” di Martino Lazzari e Cristina Morgante)

Appello per un’Europa democratica e antifascista

1902929_688714947858554_6567745475790193968_nQuesto il testo del discorso dell’Anpi  durante le celebrazioni della Festa di Liberazione in Piazza Martiri a Mirano:

L’ANPI, sez.“Martiri di Mirano”, esprime preoccupazione,  turbamento e indignazione per le vicende che stanno interessando l’Europa democratica e il suo futuro assetto, perché la lotta al nazifascismo è stata lotta dei popoli europei oppressi, uniti dai valori che sono stati, poi, posti a fondamento del progetto d’unione tra gli stati.
Un’onda nera, con i simboli orrendi del nazifascismo, sta infangando vaste aree d’Europa ancora segnate dal sangue del martirio di donne e uomini  perseguitati e uccisi a causa del loro amore per la libertà e per il diritto a vivere secondo i principi di  uguaglianza e di rispetto della dignità della persona.
Dalla Grecia di Alba Dorata, a Forza Nuova in Italia, all’estrema destra xenofoba francese guidata da Jean-Marie Le Pen, a quella olandese, alle formazione neonaziste, antisemite ungheresi giunte, nelle ultime elezioni, a sfiorare  il 20% , alle squadracce nere  ucraine, sino alle forme estreme di rifiuto dello straniero in Germania e nei paesi scandinavi, un vento di follia estremista sta gonfiando e strumentalizzando il profondo malessere di un continente in crisi, soprattutto, di valori .
I grandi ideali dei padri fondatori dell’Europa Unita, sorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sembrano persi tra i mille canali di una burocrazia e di una politica che fondano le loro strategie di governo su logiche di profitto e  speculazione in ossequio ai centri di potere, economici e finanziari mondiali.
Se questa EUROPA così com’è oggi, non ci piace, non bisogna commettere il grave errore di volerne la disgregazione con programmi ispirati dal più squallido populismo, proprio per le ragioni storiche che l’hanno voluta e che ancora la motivano e che oggi possono, ancora unire i popoli partendo proprio dagli ideali dell’antifascismo.
E’ necessario che si formi un fronte democratico contro l’avanzata della destra estrema e populista, per raccogliere e animare le coscienze, quelle dei giovani in particolare, attorno ai grandi valori che la storia ci ha consegnato e che è nostro compito trasmettere alle future generazioni.
L’ANPI, custode dei valori dell’Antifascismo e della Resistenza italiana, rivolge un appello a tutte le forze democratiche perché contribuiscano a costruire e sostenere una vasta azione di mobilitazione delle coscienze, in sintonia con le altre Associazioni Resistenti a livello europeo, in un ritrovato spirito internazionalista.
Dalla difesa della Costituzione e dell’Ordinamento Repubblicano potranno derivare gli insegnamenti e gli stimoli per ripensare anche una diversa Europa Unita, proiettata verso il futuro, in grado di esprimere le qualità più alte della solidarietà sociale, il dialogo con le altre culture, la difesa della pace, nel ricordo e condanna di quanto la follia umana fu in grado di progettare ed eseguire, dominando le menti e le coscienze delle masse.
Scriveva nel 2004 Stephane Hessel nel suo volume “Indignatevi”: “Ci appelliamo ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché superino le poste in gioco settoriali e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali e non soltanto delle conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali”.

PER UN’EUROPA DEI LAVORATORI, DEMOCRATICA E ANTIFASCISTA,
A DIFESA DEI VALORI  DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
ORA E SEMPRE  RESISTENZA

23 aprile 1945: i partigiani liberano Genova

sfil23 aprile: Le nove di sera. Si riunisce  a il CLN genovese, per decidere se dare il via all’insurrezione o aspettare. Il Comando germanico aveva fatto sapere al vescovo Siri – e questi a Pittaluga (Taviani), che ne riferì subito in apertura di seduta – d’esser disposto a rinunciare alla minacciata distruzione del porto, se il Cln si fosse impegnato a rispettare quattro giorni di tregua ,permettendo all’esercito tedesco una ritirata indisturbata. Ci fu una calorosa discussione sul l’accogliere o meno il messaggio della Curia. Infine, a  notte fonda, con quattro voti contro due il CLN liberò l’ordine di insurrezione.

24 aprile: Alle quattro del mattino i primi colpi di fucile. Subito dopo, le raffiche di mitraglia.
Alle cinque, sempre più frequenti, i colpi di cannone e di mortaio. Durissima la battaglia al centro di Piazza De Ferrari.  Gli abitati di Sestri Ponente, Cornigliano,Pontedecimo, Bolzaneto, Rivarolo, Quarto, Quinto erano caduti fin dal mattino in mano agli insorti. Mancava, tuttavia, la continuità territoriale fra le loro posizioni e il centro cittadino.  Sulla camionale per Milano le colonne nemiche, bloccate nelle gallerie, tentano sortite: non possono più a lungo restare prive d’acqua.
La sera del 24 si chiude in una cupa atmosfera. La situazione era ancora più tragica e confusa per la minaccia che, dal Comando di Savignone, inviava il generale Meinhold: aprire il fuoco su Genova con le batterie pesanti di Monte Moro e con quelle leggere del porto, qualora non si lasciassero evacuare in ordine le truppe tedesche. Gli americani avevano appena raggiunto La Spezia, distanti dunque più di cento chilometri.
Fin dalla sera il Comitato ero conscio del rischio che accadesse a Genova quel che era successo a Varsavia. Adesso però – a differenza della sera prima – non c’era più il problema di fidarsi o meno della parola del nemico; adesso il Comitato poteva trattare in termini di forza: aveva nelle sue mani un numero cospicuo  di prigionieri tedeschi perciò decide d’inviare una lettera-ultimatum al generale Meinhold.

25 aprile: Alba: riprende la battaglia, praticamente in tutta la città. Ore nove: le Sap di Sestri espugnano il Castello Raggio. Ore nove e trenta: si arrendono i presidi di Voltri e di Prà.
Ore nove e quarantacinque: si arrendono le batterie di Arenzano.
Fra le otto e le dieci e trenta: le Sap conquistano Piazza Acquaverde (ma non la stazione Principe), le caserme di Sturla, l’ospedale di Rivarolo e alcuni punti di resistenza in Val Polcevera. Intanto il professor Stefano (Carmine Romanzi) dopo un avventuroso viaggio in ambulanza da Genova a Savignone ,consegna due lettere al gen. Meinhold (una del Cardinale Boetto e la proposta di resa del CLN). Il generale decide di trattare la resa, poiché viene a conoscenza anche del fatto che tutte le strade per la ritirata sulla linea Kesselring del Po, sono saldamente in mano ai partigiani (Divisione Pinan Cichero, comandata da Scrivia) e come garanzia consegna a Romanzi la sua pistola.
Ore quindici : il gen. Meinhold e i suoi accompagnatori arrivano con l’ambulanza in città dopo cinque ore di viaggio, scortati da due partigiani in motocicletta,e si recano a Villa Migone, residenza del Cardinale, dove si trovano già il console tedesco Von Hertzdorf e Giovanni Savoretti. Ore diciassette iniziano le trattative di resa. Rappresentano il Cln Scappini e Martino. Rappresenta il Corpo dei Volontari per la Libertà il maggior Mauro Aloni del Comando Piazza di Genova .
Ore diciassette e trenta: un grosso contingente dei reparti acquartierati nel porto si arrende ai partigiani.
Ore diciannove da Savona Carlo Russo telefona che anche là sono insorti.
Ore diciannove e trenta: a Villa Migone il gen. Meinhold firma l’atto di resa. Scappini testimonierà poi che il generale firmò quasi improvvisamente, dopo molte incertezze, e che tutti loro, osservandolo in quelle ore di trattative, ebbero l’impressione che stesse compiendo lo sforzo più impegnativo della sua vita. Prima che la resa sia  firmata si è fatta la conta dei militari tedeschi prigionieri degli insorti della città:1360. Numerosi altri sono stati e saranno catturati dai partigiani che stanno calando dalla montagna.

26 aprile Mezzanotte e mezza: il colonnello Davidson, comandante in capo delle missioni alleate, giunge alla sede genovese del CLN a San Nicola. Vista la situazione, riesce a contattare  telefonicamente gli Americani della 92a Buffalo, arrivati a Rapallo, per annunciar loro che proseguano pure perchè la via è libera.
Ore quattro e trenta:  il generale Meinhold trasmette l’ordine di resa ai reparti. Deve usare toni duri e minacciosi con i presidi che ancora resistono. Ufficiali tedeschi lo cercheranno senza esito in diversi punti della città per eseguire la condanna a morte emessa nei suoi confronti.
Ore nove: Pittaluga ( Taviani) raggiunge la stazione radio di Granarolo  e dà l’annuncio da Radio Genova della capitolazione tedesca, legge l’atto di resa e aggiunge: “Popolo genovese esulta. L’insurrezione, la tua insurrezione, è vinta. Per la prima volta nel corso di questa guerra, un corpo d’esercito aguerrito e ancora bene armato si è arreso dinanzi a un popolo. Genova è libera. Viva il popolo genovese, viva l’Italia”.
Mezzogiorno: giungono notizie inquietanti. Due reggimenti germanici in ritirata da La Spezia hanno raggiunto Rapallo. Che cosa accadrà a Genova se riescono a stabilire i collegamenti con gli assediati di Monte Moro e del porto?
Ore tredici: i partigiani della Cichero e della Pinan Cichero si attestano nei punti nevralgici della città…Intanto altre forze partigiane della montagna tengono saldamente in mano i passi della Bocchetta, dei Giovi, della Scoffera e di Uscio: da qui scendono a bloccare la via Aurelia tra Rapallo e Nervi, così la colonna tedesca…si dissolve.
Ore diciannove: una interminabile schiera di prigionieri tedeschi sfila per il centro cittadino inquadrata dai partigiani in armi.
Tarda serata: le avanguardie angloamericane arrivano a Nervi, dieci giorni prima del tempo previsto dai piani.

27 aprile Ore tredici il generale Almond, comandante in capo della V° armata americana rende per primo visita al Cln, nell’Hotel Bristol.  Almond ringraziò i patrioti per l’aiuto profuso, e manifestò la sua ammirazione per il modo in cui erano state condotte le cose e governata la città. I genovesi ritornano nelle vie della città liberata .
Anche se in queste cronache le vicende militari dei giorni della liberazione di Genova possono apparire piuttosto intrecciate a causa del tentativo fatto di verificarle contemporaneamente in tutti i Settori di città e di montagna, dobbiamo prendere atto che il quadro generale che ne risulta corrisponde alla definizione di “insurrezione modello” coniata da Roberto Battaglia per indicare gli avvenimenti genovesi dei giorni 23,24 e 25 aprile 1945. Lo abbiamo visto nell’applicazione dei piani operativi, tutti eseguitinelle direttrici previste, salvo alcuni tempi di attuazione peraltro non prevedibili.
Ne abbiamo avuto conferma nel vero e proprio salto di qualità compiuto sul piano militare, in breve tempo, dagli effettivi e dai quadri delle formazioni di montagna chiamate a marciare contro i presidi e a fermare le colonne di ripiegamento.
Le formazioni cittadine ci hanno rivelato, infine, la notevole capacità di trasformarsi rapidamente in reparti organizzati ed efficienti impiegando i numerosi volontari “insurrezionali”, altra grande novità nel quadro militare di quelle giornate.
L’unità politica emilitare appare comunque come premessa e base di questo successo, sostenendo il CLN Liguria nella responsabile decisione di dare tempestivamente il segnale dell’insurrezione e di seguire la spinta popolare senza attendere l’arrivo delle unità di montagna.
In tal modo si rende possibile, con alcune modifiche essenziali al piano A, respingere il ricatto del comando germanico e impedire le distruzioni, fermando, nello stesso tempo, la maggior parte delle truppe nemiche prima che lascini la città.
Unità, tempestività e una buona preparazione hanno reso possibile questa operazione di importante livello strategico, nella quale si è saputo imprimere alla grande sollevazione popolare le giuste spinte per liberare Genova in una situazione militare ancora tecnicamente favorevole al nemico……Con gli ultimi combattimenti dei partigiani e delle forze insurrezionali per liberare Spezia, Genova, Savona e Imperia finiscono le cronache militari della resistenza nella regione Liguria: 20 000 partigiani combattenti, 2 776 partigiani mutilati e invalidi, 2 500 caduti. (da http://www.istitutoresistenza-ge.it)

21 aprile 1945: Bologna libera!

27-grandeNelle prime ore della mattina del 21 aprile 1945, le unità alleate del 20 Corpo Polacco dell’8a Armata Britannica, della Divisione USA 91a e 34a, i Gruppi di combattimento Legnano, Friuli e Folgore e della brigata partigiana “Maiella” entrarono a Bologna senza sparare un colpo.
Infatti, nella notte precedente i tedeschi ed i fascisti, su ordine del generale Von Senger, avevano abbandonato la città. Più tardi nella mattinata arrivarono anche i bersaglieri del battaglione Goito che sfilarono percorrendo via Rizzoli mentre la folla, radunata ormai in centro, li acclamava.
Nel pomeriggio ebbero il permesso di entrare in città le Brigate partigiane Giustizia e Libertà di Montagna e 7a Modena. Gruppi di donne cominciarono a deporre fiori ed affiggere foto sul muro esterno del Comune in Piazza Nettuno poiché in quel luogo, chiamato dai fascisti “posto di ristoro dei partigiani”, furono fucilati molti partigiani. Nacque così, in maniera del tutto spontanea, il Sacrario dei partigiani. A Palazzo d’Accursio, il Sindaco Dozza ed il Prefetto Borghese, nominati dal CLN, portarono il saluto della città ai comandanti alleati. Anche il cardinale Nasalli Rocca si recò a Palazzo d’Accursio per incontrare i liberatori. L’arrivo dell’ex podestà Agnoli suscitò imbarazzo, anche perché pretendeva di dare le consegne, ma fu affidato a padre Casati che lo portò nel convento di San Domenico. Mentre Piazza Vittorio Emanuele II (oggi Piazza Maggiore) era ormai piena di cittadini, partigiani, soldati alleati e di
blindati sui quali erano saliti giovani, ragazze con fiori e bandierine tricolori, Dozza, Zoccoli (Presidente del CLN regionale) e Borghese si affacciarono sul balcone del Comune per salutare i cittadini ormai liberati e festosi. La festa fu turbata dal ritrovamento dei cadaveri di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli trucidati e abbandonati ai Prati di Caprara dai fascisti in fuga. (da https://storiedimenticate.wordpress.com)

La liberazione di Bologna nelle immagini di Luciano Bergonzini, giovane partigiano: