« […] la protezione dell’ambiente […] è dopo tutto, qualche cosa che sfiora il pericolo atomico, perché subito dopo la minaccia nucleare, viene quella ecologica. Anzi la minaccia ecologica è già in atto; la fine della Terra è già cominciata…».
Non si tratta di un estratto di qualche comunicato ambientalista diffuso nel corso della recente campagna informativa sulle questioni referendarie – in specifico quelle riguardati l’energia nucleare – cui gli elettori italiani sono chiamati ad esprimersi. Le parole sono quelle dello scrittore e intellettuale Alberto Moravia e i giorni erano i primi del settembre 1984, all’indomani della sua elezione al Parlamento Europeo con circa 260.000 voti di preferenza, come indipendente nelle file del Partito comunista.
In quella sede istituzionale Moravia portò avanti, fino al 1989, una battaglia che era già iniziata prima e altrove, in luoghi certamente a lui più consoni e famigliari, più appropriati per la sua penna di giornalista, saggista e narratore. Tra il 1982 e il 1985, l’autore romano si era espresso più volte in articoli, saggi e interviste, sul problema del nucleare e nel 1986 questi interventi sparsi furono raccolti in un volume curato da Renzo Paris ed edito da Bompiani, L’inverno nucleare.
«Le notizie, anche le più terribili, come quelle delle catastrofi ecologiche, vengono messe d’istinto dal pubblico al livello dei film di orrore, cioè dei film che divertono con la paura. E’ uno strano divertimento sentirsi dire che può accadere, da un momento all’altro, che moriremo tutti bruciati vivi». Moravia si confronta con l’ossessione del disastro nucleare perchè come intellettuale calato nel suo tempo non può sottrarsi a tale responsabilità, e il suo approccio parte da una considerazione inquietante che il passo sopra citato sintetizza efficacemente: l’energia atomica pone l’umanità davanti alla concreta prospettiva di un’autodistruzione, di un suicidio collettivo coscientemente autoinflitto, e per poterci convivere ognuno è chiamato ad affrontare un profondo cambiamento interiore, una rivoluzione spirituale che tocchi le radici più profonde dell’Io.
Senza dubbio per l’autore degli Indifferenti è stato così, non si spiegherebbe altrimenti il dirompere del tema anche all’interno della sua produzione narrativa. Nel 1985 usciva infatti L’uomo che guarda, in cui lo stato d’animo del protagonista, Dodo, risulta legato a doppio filo all’incubo della catastrofe nucleare: «Ore sei e trenta. Dormo poco, non più di sei ore per notte e, appena mi sveglio, dedico cinque, dieci minuti a quella rara occupazione che va sotto il nome di pensiero. A che cosa penso? A dirlo così può persino parere ridicolo: alla fine del mondo. Non so quando e in che modo è cominciata quest’abitudine; forse non tanto tempo fa, in seguito alla lettura di un libro che per caso ho trovato sulla scrivania di mio padre che è professore di fisica all’università, un libro tra i tanti sulla guerra nucleare».
Ma la sua intima e personale riflessione sui pericoli dell’atomica Moravia la affidò a quei dialoghi-intervista raccolti soprattutto in Germania e in Giappone, paesi che con un uso del nucleare a scopi bellici si erano drammaticamente confrontati: la svolta fu per lui la visita ad Hiroshima, da cui scaturirà la Lettera da Hiroshima e la consapevolezza che davanti all’orrore della devastazione nucleare non si può non vedere, né tantomeno ignorare. Raccolse tra gli altri la testimonianza del filosofo e scrittore tedesco Ernst Jünger (1895-1998), uno dei più lucidi e razionali analisti della modernità, in un’intervista già su «L’Espresso» del 28 agosto 1983. All’epoca il nucleo del dibattito era al guerra atomica e Jünger ne tracciava i caratteri ponendo l’accento su pochi ed efficaci termini chiave: minaccia, evento catastrofico, capacità distruttiva, annientamento.
Lo scrittore non risparmiò le critiche nei confronti di una follia nucleare che conduce al lungo ed omonimo inverno, trattandola al pari di una malattia che appesta la società del progresso tecnologico, di un virus diffuso da quello che chiama il «club atomico», per questo motivo titolò uno dei suoi interventi Il morbo atomico è come l’Aids, accostando quelle che vedeva destinate a diventare, con profetica lucidità, le più terribili armi di distruzione di massa del XX secolo.
Il tema tornò in seguito nella produzione moraviana, in Passeggiate africane (1987) dove si interrogava sull’avvenire dei paesi sottosviluppati «se una guerra nucleare non si frapporrà fra la rivoluzione paleo-industriale e quella elettronica», e ancora in Diario europeo, comparso come volume singolo nel 1993, ma costituito da editoriali prima pubblicati sul «Corriere della Sera» a partire dal 1984 e relativi all’esperienza come europarlamentare. Le ultime impressioni le raccolse nell’autobiografia scritta insieme ad Alain Elkann nel 1990, Vita di Moravia, a chiudere il capitolo della sua intera esistenza e di una battaglia per la salvezza del genere umano condotta attraverso gli strumenti che gli erano propri, la scrittura e l’uso della parola, un uso consapevolmente strumentale «per combattere una guerra di liberazione dalla guerra».
A combattere quale guerra siamo chiamati domenica e lunedì? Contro un futuro di energia nucleare a favore di fonti rinnovabili? O contro i limiti di sviluppo imposti dalla mancata presenza di centrali sul territorio italiano? Per qualunque fronte si desideri parteggiare, l’importante è non essere disertori e andare alle urne. Moravia, come cittadino e intellettuale l’avrebbe fatto.
Laura Dabbene
Foto via http://www.ibs.it; www.amazon.com; http://italiano.sismondi.ch
http://www.wakeupnews.eu/nucleare-si-o-no-la-testimonianza-di-alberto-moravia/