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Di Roberto Olla
di Roberto Olla 04 agosto 2014 “Sul mare luccica l’astro d’argento, placida è l’onda, prospero è il vento, venite all’agile barchetta mia, Santa Lucia, Santa Lucia”. Così cantava Sunao Tsuboi alla sua fidanzata la sera del 5 agosto 1945. Si, proprio in italiano. L’Italia era di gran moda in Giappone e “Santa Lucia” era la canzone d’amore per eccellenza. Aveva vent’anni. Prima o poi la guerra sarebbe finita e lui voleva sposarsi. Al tramonto di quella calda giornata estiva, dopo una lunga passeggiata, lui e la sua ragazza avevano scelto un ponte tra i tanti che offre Hiroshima, la città dei fiumi. Sunao cantava, bella voce, conosceva tutto il testo a memoria. Lei ascoltava e lo pregava di ricominciare ancora una volta. Rimasero così per ore, a desiderarsi nel buio tra i luccichii dell’acqua. Quella maledetta guerra sarebbe finita. Certo. Tutte le guerre prima o poi finiscono. In qualche modo. E allora, il loro amore….. Alle 8,15 del giorno dopo, sul cielo sopra Hiroshima esplose una bomba. Una sola. Un lampo. Un istante. In quell’istante, 8,15 del 6 agosto 1945, la fidanzata di Sunao Tsuboi scomparve, evaporata assieme ad altri 70.000 abitanti di Hiroshima, evaporata assieme ai tram e alle case, assieme agli alberi e alle panchine, assieme alle macchine e agli animali. Di quella ragazza che la notte prima ascoltava “Santa Lucia” non rimase la minima traccia. Nel raggio di cinquecento metri dal ground zero, la verticale su cui esplose la bomba, non sopravvisse nessuno e di nessuno furono trovati resti. Una donna aspettava l’apertura della sua banca seduta sui gradini. Di lei è rimasta solo un’ombra scura sulla pietra. Degli altri edifici non sono rimasti neppure i gradini. Tutto è finito nella colonna di vapore rovente e nero. Nel raggio di mille metri dalla bomba il 60% degli abitanti di Hiroshima morirono sul colpo. Gli altri morirono poco dopo per gli effetti delle radiazioni che nessuno ancora conosceva. Sunao Tsuboi si trovava lì, in quella fascia tra i cinquecento e i mille metri. Stava camminando di buon passo, diretto all’università dove entro pochi minuti la lezione sarebbe cominciata. L’onda d’urto lo catapultò dall’altra parte della strada. Quando si riprese l’aria era rovente, scura, irrespirabile. Attorno a lui pochi sopravvissuti camminavano storditi e barcollanti. Vide molti gettarsi nel fiume per cercare refrigerio, per dissetarsi. Li vide morire prima degli altri. Non vide invece il grande fungo atomico sopra la sua città. Non lo vide semplicemente perché ci stava dentro. Incredibilmente, qualcuno per le strade riuscì a scattare delle fotografie. Anni dopo in una di queste Sunao Tsuboi si riconobbe, con la pelle che si staccava a brandelli, vetrificata, impegnato a cercare di muovere le gambe verso la salvezza. Perché era sopravvissuto? Non lo sapeva e nessuno seppe mai dargli una risposta. Perché nel ground zero era rimasto in piedi solo il centro del commercio, oggi noto come Gembaku Dome, la cupola della bomba? Nessuno lo sapeva. E l’albero? Si, l’albero, quella paulonia dal legno pregiato con cui si fabbricano strumenti musicali? Come mai quell’unico albero era rimasto vivo? Nessuno aveva risposte. La gente continuava a morire spellandosi, perdendo i capelli a ciocche e non esistevano cure. Ne morirono ancora altri settantamila. In qualche modo la guerra doveva finire e gli strateghi, politici, militari e scienziati, avevano pensato di accelerarne la conclusione con quella nuova bomba. Meglio così, ritenevano, che continuare a morire per conquistare la terra del nemico metro per metro. Questa la versione ufficiale. In realtà era stata lanciata la prima guerra atomica della storia. Una bomba, sperimentale, era esplosa nel deserto di Alamogordo, New Mexico, il 16 luglio. Trinity Test: un po’ poco come esperimento. La seconda esplose su Hiroshima il 6 agosto. La terza su Nagasaki, il 9. E si stavano già assemblando i componenti per la quarta destinata a Tokio. Così l’esperimento proseguì direttamente sugli esseri umani. Ora l’umanità lo sa: basta guardare Hiroshima e Nagasaki per capire cosa significa una guerra atomica. Sunao Tsuboi sorrise ad ogni domanda. In qualche modo, negli anni, aveva ricostruito la sua faccia e sorridere, spiegava, lo metteva in pace con la sua anima. Pace. Lui ha fatto della sua lunga vita una missione di pace. Ma sempre combattendo con gli effetti delle radiazioni. Per due volte ha avuto il cancro. L’hanno salvato sottoponendolo a “bombardamenti di radiazioni”. E lo diceva ridendo: “Ma cosa vuole che mi facciano un altro po’ di radiazioni! A me!”. Sorrideva sempre, anche quando raccontava la sua storia d’amore. Di lei, di quella bella ragazza voleva ricordare la notte sul fiume di Hiroshima: or che tardate, bella è la sera, spira un auretta fresca e leggiera, venite all’agile barchetta mia! Santa Lucia, Santa Lucia. Roberto Olla Ps: Una piccola nota personale. L’intervista con Sunao Tsuboi non è stata una vera intervista, piuttosto è stata uno scambio. Io ti faccio il dono del racconto di una parte della mia vita e tu contraccambi raccontandomi una parte della tua. “Io le ho raccontato la mia storia d’amore – mi disse, a microfoni ormai spenti- ora lei mi racconti la sua.” Non me l’aspettavo. Non la ritenevo interessante. Forse non era neppure opportuno. “Racconti, racconti.”, insisteva avvicinando la sua sedia alla mia. Da dove potevo cominciare? Dall’università, come aveva cominciato lui? “Si, certo. Racconti, racconti!” Così ho cominciato. Dall’università. Roma, Milano. Milano, Roma. “E mentre lei era in una città, la donna che avrebbe amato si trovava in un’altra, e poi vi siete scambiati le città, e poi vi siete finalmente incontrati…affascinante.” Sunao Tsuboi mi guardava fisso negli occhi, sempre sorridendo. Durò molto il racconto, almeno quanto era durata la sua “intervista”. I particolari non gli bastavano mai. Ne chiedeva sempre altri. Era la vita e lui voleva vivere un po’ anche quella degli altri. Non avevo mai fatto un racconto del genere. E ancora adesso lo ringrazio perché mi ha fatto scoprire, obbligandomi a raccontarla, che tutto sommato si tratta di una bella storia d’amore.