24 giugno 1944: eccidio della Bettola

Bettola2216200492057In seguito al fallito tentativo di far saltare il ponte in muratura nei pressi della Bettola, da parte della Squadra Sabotatori; un automezzo tedesco proveniente da Casina, sopraggiunse sul posto per impedire ai partigiani di compire la definitiva distruzione. Ne seguì uno scontro a fuoco durante il quale morirono diversi tedeschi ed i partigiani Enrico Cavicchioni, Pasquino Pigoni, Guerrino Orlandini. La reazione dei tedeschi fu immediata. Il combattimento era avvenuto verso le 22,30 del 23 giugno 1944 e già alle 23,15 partirono da Casina, autotrasportati, circa 50 dei 140 uomini del presidio della gendarmeria tedesca. La rappresaglia iniziò verso le ore 1 del giorno 24.
I tedeschi circondarono cautamente alcune case situate nei pressi del ponte, penetrati nella casa di Liborio Prati e Felicita Prandi, due vecchi di 70 e 74 anni, li uccisero insieme alla loro figlia Marianna. La casa venne poi depredata ed incendiata. La bambina undicenne Liliana Del monte si gettò da una finestra per salvarsi, ma fu ripresa e gettata in una stalla che bruciava, riuscendo però miracolosamente a sopravvivere. A questo punto i nazisti passarono alla locanda della Bettola, dove per mezzo di un interprete, si fecero aprire la porta dall’oste Romeo Beneventi. Fecero uscire le donne, i bambini e gli uomini, radunandoli in parte nel garage dell’albergo ed in parte dietro la casa.
I primi furono mitragliati, poi ricoperti da tronchi d’albero, cosparsi di benzina e dati alle fiamme per incenerirne i cadaveri. Coloro che invece erano stati radunati dietro al grosso fabbricato, vennero trucidati a bastonate ed a colpi di pistola, quindi gettati anch’essi nel rogo insieme agli altri.
Tra loro fu arso vivo Piero Varini, un bimbo di appena 18 mesi.
La furia omicida dei tedeschi, non ancora sufficientemente appagata, investì anche due giovanissime donne, prima violentate, poi uccise ed infine arse nel fuoco. Riuscirono a salvarsi l’oste, alcuni carrettieri nascosti in cantina ed un giovane renitente, rifugiatosi nel solaio.
Alla fine furono 32 i morti, in gran parte impiegati sfollati dalla città, braccianti, carrettieri di passaggio, studenti e scolaretti in tenera età, uomini e donne di età compresa tra i 5 ed i 74 anni.
Se a Cervarolo i tedeschi avevano massacrato soltanto gli uomini, alla Bettola non venne risparmiato nessuno, nonostante la popolazione fosse assolutamente estranea allo scontro con i partigiani avvenuto nella notte. La gendarmeria tedesca ebbe come unica intenzione quella di uccidere quante più persone possibili, riuscendo persino a superare in efferatezza persino le torme selvagge dei paracadutisti della divisione “Goering”.

Liliana Manfredi, una delle sopravissute alla strage:

Il grande assente

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Il principio della resistenza è descritto nella Costituzione francese del 19 aprile 1946, articolo 21: “Qualora il governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Nella Costituzione Italiana non c’è un articolo che afferma questo principio ma Giuseppe Dossetti e Teresa Mattei, due dei padri costituenti, lo volevano inserire tra i principi fondamentali della Costituzione: l’iter dell’articolo di Dossetti si concluse con un voto finale negativo e così il diritto di resistenza non è entrato a far parte del testo definitivo. Questo è un articolo di Federico Bernini che tratta di questo argomento:

Quando qualche giorno fa Alessio Ciampini, mi ha chiesto se avessi voluto dare un contributo al blog “Fuoricomeva?” con un articolo sulla Costituzione italiana ho accettato volentieri.
Mi sono chiesto quale degli articoli avrei potuto prendere come spunto e quale taglio dare al testo.
Ho scelto di lavorare sull’assenza. Ho voluto scrivere un articolo su un argomento noto, ma credo oggi di grande attualità; mi riferisco all’Articolo sul Diritto di Resistenza, che Giuseppe Dossetti, partigiano, cattolico, padre costituente, membro di spicco della Democrazia Cristiana, che si allontanò dalla politica, divenendo sacerdote nel 1959, propose all’Assemblea Costituente e che non fu approvato.
Nella proposta di Dossetti, l’Articolo sul Diritto di Resistenza avrebbe dovuto essere l’Articolo 3 dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana.
Molto amico di Teresa Mattei, visse una vita complessa e travagliata, caratterizzata da una grande passione politica, da una spiccata sensibilità umana e da una continua ricerca verso il perfezionamento del sistema democratico.
L’orrore della Seconda Guerra Mondiale e la drammatica esperienza del Nazifascismo lo indussero, su ispirazione dell’Articolo 21 della Costituzione francese del 1946, a formulare questo articolo:

La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti
dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino.

È questo l’abituale principio della resistenza, logico corollario dei due articoli precedenti.
Dossetti era presente insieme a Teresa Mattei a Marzabotto, poco dopo la fine della guerra, quando i cadaveri della strage furono disseppelliti dalle fosse comuni. A Marzabotto scelse di essere seppellito, quando nel 1996, a causa di un tumore morì.
Come dicevo prima, questo articolo manca nella nostra Costituzione, è un’assenza, di cui però vale la pena parlare e che ci consente di riflettere su alcuni temi come le forme di resistenza civile e culturale o le forme di critica organizzata che hanno visto molte soggettività esprimersi sulla tutela dei beni comuni, di quelli artistici e architettonici, fino a quelli paesaggistici.
Comitati, intellettuali, associazioni e cittadini hanno assunto implicitamente il diritto di resistenza come strumento di critica, analisi, confronto e proposta davanti a una manifestata assenza di interesse pubblico in alcune scelte dei governi o delle amministrazioni locali.
Non solo il Diritto di Resistenza rappresentava una forma di ulteriore tutela dei cittadini e della forma democratica dello stato, ma incarna nella sua essenza la sovranità popolare all’interno di un sistema democratico e repubblicano.
Riconoscere la legittimità di una forma di resistenza qualora i diritti fondamentali della Costituzione siano traditi o eliminati sancisce la responsabilità e l’autonomia dei cittadini e il loro diritto a svolgere un ruolo di critica e di contestazione costruttiva.
La sola obbedienza non salva l’anima delle persone e neppure i diritti acquisiti e previsti dalla Costituzione. Basti pensare al testo fondamentale di Hannah Arendt, La banalità del male, dove il solo fatto di aver obbedito a degli ordini non sollevò i militari tedeschi dalle loro responsabilità nel realizzare il piano di distruzione di massa hitleriano.
Oggi in Italia esistono delle esperienze di resistenza civile, penso ai comitati per l’acqua, che hanno saputo costruire un movimento trasversale e di base che è stato capace di rivendicare una piattaforma comune sull’acqua bene comune e pubblico. Difronte al rischio di una selvaggia privatizzazione dei sistemi idrici, i cittadini hanno saputo unirsi, resistendo ad un processo che sembrava ormai già segnato: il risultato è stata la nascita dei referendum che hanno dato ragione ai motivi della “resistenza” dimostrando l’importanza di rivendicare con azioni pratiche e concrete forme di resistenza ai dettami dei poteri, politici e di lobby di interesse.
Sarà che Dossetti era un cattolico e forse questo in modo decisivo ha influito sulla sua spiccata umanità, sarà per l’esperienza da partigiano o perché visse gli orrori del nazifascismo, ma indubbiamente la sua testimonianza ci lascia quantomeno un monito importante, che la Costituzione e i suoi Principi Fondamentali vanno sempre difesi poiché garantiscono diritti, dignità, sviluppo a tutti i cittadini.
A questo proposito mi viene in mente un’altra recente forma di resistenza civile e culturale di cui ci parla Tomaso Montanari nel suo ultimo libro, Le pietre e il popolo, edito da Minimum Fax, e che fa riferimento in modo sostanziale all’Articolo 9 della Costituzione Italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Il libro è un bell’esempio di cattive pratiche italiane, a vario titolo connesse con la cultura, i beni artistici e paesaggistici italiani, dove la cancrena, la disattenzione e la modalità clientelare parte da degenerazioni interne allo Stato che avalla o comunque tace su evidenti scempi o palesi ingiustizie.
Una per tutte la questione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini di Napoli, vittima di un saccheggio sistematico di testi antichissimi da parte del suo direttore e complici alte cariche dello Stato con la silente “distrazione” dei due Ministri della Cultura, Galan e Ornaghi (per un approfondimento maggiore della questione cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Ed. Minimum Fax, pag. 39; Salvatore Settis).
Resistere ad uno scempio del genere, perpetrato nella noncuranza e nell’assenza di controllo da parte delle autorità preposte impone, per la salvaguardia di un patrimonio nazionale inestimabile, ma anche come esempio di buone pratiche, di resistere, di indignarsi e di procedere secondo i diritti che la Costituzione consente di attivare.
Il grande assente, il Diritto di Resistenza, di per se si presta a interpretazione e a strumentalizzazioni, inevitabilmente parlare del diritto di resistenza in questi giorni ci rimanda ai ricordi della primavera araba o più recentemente alle manifestazioni al Gezy Park di Istanbul. Il diritto di resistenza prevede o può prevedere la violenza?
La domanda è d’obbligo ma soprattutto le possibili risposte aprono scenari diversi. Ritengo che i contesti nei quali si sviluppano forme di dissidenza e critica, capaci di trasformarsi in atti di resistenza, determinino le modalità con cui la resistenza di sviluppa. Certo che se guardiamo alla Turchia, tutto nasce da una manifestazione pacifica di cittadini che volevano difendere uno spazio pubblico, un bene comune contro l’ennesima forma di speculazione edilizia. In questo caso dunque il rapporto e lo scontro si è creato tra la difesa di uno spazio pubblico e l’interesse privato del mercato. La repressione della polizia e del Governo di Erdogan e le evoluzioni successive in scontri rappresentano una conseguenza, evitabile, all’atteggiamento violento e intransigente del Presidente Turco.
La ridefinizione dei rapporti tra politica, governo e cittadini aiuterebbe a ricostruire intorno alle questioni importanti un discorso pubblico capace di rispondere ai bisogni e stimolare la partecipazione; altrimenti se tutte le decisioni e le questioni che riguardano i territori sono prese in forma privata o peggio ancora assecondando gli interessi di pochi, la frattura si allarga e le forme di distacco diventano sempre più profonde.
Forse se questo atteggiamento fosse stato tenuto anche per le questioni legate alla TAV in Val di Susa ci sarebbe stata la possibilità di costruire un percorso condiviso e certamente meno traumatico.
Chiudo rimandando ad un bel libro di Salvatore Settis, Azione popolare, ed. Einaudi, che ci aiuta a comprendere come le forme di “resistenza” passano attraverso modalità di condivisione e di partecipazione vera, ma soprattutto rappresentano il filtro di quei dodici Principi Fondamentali che i nostri padri costituenti vollero inserire come prima parte della nostra Costituzione. (di Federico Bernini da http://www.fuoricomeva.it)

Vittoria Giunti, la partigiana che diventò sindaco

copertina libro vittoria-giunti pagina 3Vivo per un pelo, con la faccia demolita, nella primavera del 1945 il partigiano siciliano Salvatore Di Benedetto torna al suo paese con il sogno della libertà in tasca e una giovane moglie sottobraccio. Si chiama Vittoria Giunti ed è fiorentina. Anche lei ha fatto la resistenza. Partigiana comunista. Un tipo sveglio, dinamico, sanguigno. n po’ strana, dicono in paese: la moglie di Totò Di Benedetto non è come le altre, viene dal “continente”, a Raffadali non ci sono femmine che parlano con questo accento, che ridono in quel modo e che portano camicie colorate. Tutti la guardano. All’ inizio con la diffidenza che si riserva ai forestieri, poi con ammirazione. Abita nel palazzo più antico del paese, fa mille domande, soprattutto alle donne, vuole sapere questo e quello, vuole sapere come si usa da queste parti, ha fretta di imparare il dialetto, ripete le parole, sbaglia, le ripete di nuovo. Sa tante cose, ma preferisce ascoltare. Le piace discutere. È una che sa il fatto suo. Quando rientra da Palermo, dopo avere partorito, si affaccia al balcone e senza parlare solleva in braccio suo figlio per presentarlo ufficialmente a un plotone di comari che ciarlano di sotto. Ora che ha deciso di vivere in Sicilia, è una siciliana come le altre (anche se manterrà sempre una distanza critica dalla tipica e complessa mentalità di chi vive in fondo allo stivale). E per lei, in un’ Isola libera dal fascismo ma non dalla miseria e dalla prepotenza, all’ indomani della seconda guerra mondiale, ancora stanca ed eccitata dalle battaglie combattute, comincia un’ altra vita, un’ altra battaglia, un’ altra resistenza. C’ è da difendere i diritti dei lavoratori, abolire il feudo e occupare le terre. Gli uomini sudano sangue nei campi sotto il sole, le donne stanno dietro alle persiane socchiuse. Pochi sanno cosa sono i diritti. Nessuno conosce le leggi scritte. Per tutti valgono quelle non scritte. La partigiana Vittoria si dà da fare, organizza incontri e comizi, spiega e scrive. È una donna colta. E di partito. Qualche anno dopo, nel 1956, diventa sindaco di Santa Elisabetta, piccolo centro a pochi chilometri da Raffadali. È lei il primo sindaco donna della Sicilia. La sua storia viene raccontata da un libro autofinanziato “Le eredità di Vittoria Giunti” curato da Gaetano Alessi della Rivista Ad Est. Nata nel 1917 e scomparsa tre anni fa. Una famiglia borghese, la sua: professionisti, medici, professori. Figlia di un ingegnere, alto funzionario delle ferrovie, vive un’ infanzia felice tra Firenze e le colline toscane: «Nella casa di campagna del nonno – racconterà lei stessa, pochi anni fa, a Gaetano Alessi – c’ era una biblioteca e in questa biblioteca c’ era una vetrina in cui era esposta una medaglia d’ argento che il mio bisnonno aveva ottenuto come garibaldino. Risale molto indietro nel tempo, in un Ottocento risorgimentale, quell’ ideale, quell’ atmosfera di libertà che si respirava nella mia famiglia. Atmosfera ottocentesca risorgimentale e liberale nel senso più vero della parola. Una cultura rispettosa di tutte le opinioni, nel senso critico, non nel significato negativo che danno a questa parola, ma nel senso di giudizio e di rispetto delle altrui opinioni». L’ anziana signora leggeva la sua storia e le sue scelte alla luce dell’ educazione ricevuta da ragazza. «Un’ educazione – raccontava – autenticamente antifascista, nel senso oggettivo del termine, nel senso di vissuta democrazia. Questa educazione è una delle radici della ragione della mia partecipazione alla vita civile. L’ altra è Firenze. La Firenze in cui ogni mattina, quando andavo a scuola, incontravo Dante, Michelangelo, Giotto. Incontravo il segno del libero comune, delle lotte anche furiose per la conquista di una libertà civile che anticipava di tanti secoli le libertà che qui in Sicilia sono state conquistate così tardi, compreso la rottura dei vincoli del feudalesimo». Ma c’ è ancora un’ altra radice alla base del suo attivismo politico: «La sorte fortunata di incontrare poi, quando la mia famiglia si è trasferita da Firenzea Roma, delle persone che mi hanno orientato decisamente verso quelle posizioni politiche che ho seguito per tutta la vita». Studia al Liceo Tasso, respira l’ aria dell’ antifascismo con polmoni affamati, si perde in lunghe discussioni politiche, guarda con avidità attraverso «quegli spiragli di libertà che sempre si trovano anche nei regimi dittatoriali». «Eravamo spinti – continuava – da ragioni ed esigenze di carattere morale, culturale, perché era veramente indegno il modo in cui si soffocavano i diritti della democrazia. La demagogia sfacciata, gli strumenti più volgari per ottenere il consenso della gente, si opponevano decisamente al nostro modo di essere. E ancora l’ assoluta impossibilità di approvvigionamento dei testi, degli strumenti del sapere, la censura, la proibizione non solo dei libri politici e di carattere economico, ma l’ occultamento dei romanzi dell’ intera letteratura americana ed europea, l’ impossibilità di ascoltare la musica dei giovani di allora come il blues e il jazz». Donna d’ acciaio, raffinata nei modi, laureata in Matematica e Fisica all’ Università di Roma, allieva dell’ Istituto di Alta Matematica, assistente all’ Università di Firenze, subito pronta a sacrificare la carriera accademica per l’ impegno civile. Durante la Costituente è componente di diverse commissioni nazionali, tra cui quella per il voto alle donne. Giovane staffetta partigiana, conosce Salvatore Di Benedetto, partigiano anche lui, più grande di sei anni, arrestato con Vittorini nel 1943, organizzatore della resistenza in Lombardia, poi parlamentare e dirigente comunista, sindaco per trent’ anni della stessa Raffadali che alla fine passerà in mano ai fratelli Cuffaro. Collezionista di libri antichi e pieno di interessi culturali, Di Benedetto sarà il compagno di tutta la vita. A Tivoli, durante una delle azioni a sostegno dell’ avanzata alleata, una bombaa mano gli ha devastato il volto e strappato un occhio. In ospedale, irriconoscibile, lo ha riconosciuto solo lei, Vittoria, e se n’ è innamorata. Due anni dopo si trasferiscono in Sicilia. E lì rimangono, a combattere. Fino al 2006. Lui se ne va il primo maggio, lei il due giugno. I lavoratori e la Repubblica. Manco a farlo apposta. (di Salvatore Fanzone da “Repubblica” del 3 settembre 2009)

http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=02893

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Manlio Silvestri “Monteforte”

manlio silvestri La storia di Manlio Silvestri “Monteforte” è una esempio della vita e dei sacrifici che compirono i giovani partigiani italiani, ma purtroppo per molti anni è rimasta nascosta. Silvestri, nacque a Saccolongo di Padova nel 1916 da una famiglia agiata con idee progressiste.
Manlio si iscrisse al Pci e nel 1935 lasciò la famiglia per arrivare a Parigi. Nel 1936 fu in Spagna con la Brigata Internazionale Garibaldi dove si distinse per il coraggio e il valoroso comportamento. Nel 1939 fu costretto a riparare in Francia dove venne rinchiuso nel campo di Vernet insieme a molti altri antifascisti italiani e dove iniziarono a manifestarsi i sintomi della tubercolosi. Nel 1941 venne consegnato ai fascisti che lo inviarono al confino a Ventotene che lasciò nel 1943 quando rientrò a Padova ed iniziò il lavoro di raccolta armi e munizioni. A settembre di quell’anno venne inviato in provincia di Belluno per politicizzare un gruppo spontaneo comandato dal capitano Mione. Alla casera “Spasema”, il 7 novembre 1943, nacque il primo reparto partigiano bellunese che assunse il nome di “Luigi Boscarin”. Il reparto era formato da 22 elementi, fra cui tre sovietici e quattro jugoslavi e “Monteforte” ne divenne il commissario politico. Con il “Boscarin” Silvestri partecipò al trasferimento in Valle del Mis e in Val Mesaz. A casera “Ditta” Monteforte incontrò Mario Pasi “Montagna” che gli ordinò di lasciare la montagna per le sue precarie condizioni di salute. A Trento “Monteforte” continuò l’impegno nella Resistenza partecipando alla costituzione del distaccamento “Cesare Battisti”. Il 23 e 24 maggio 1944, guidati da una spia, i tedeschi e gli uomini del Corpo di Sicurezza Trentino catturarono Silvestri, Peruzzo e Bortolotti. Dopo due mesi di continue torture e sevizie, Silvestri venne condannato a morte. “Monteforte” non fornì alcuna informazione ai tedeschi e riuscì a far giungere ai compagni, fuori dal carcere, questo biglietto: “Non preoccupatevi di me. Continuate tranquilli il lavoro. Non parlo”.

Rinasce Radio CoRa

firenze_monumento_all_ultima_sede_di_radio_cora_1Radio CoRa (acronimo di Commissione Radio) fu un’emittente clandestina, approntata e gestita da membri del Partito d’Azione a Firenze, fra il gennaio e giugno 1944. Altre Radio CoRa (Milano e Bari) realizzarono trasmissioni d’informazioni militari per tenere contatti con gli Alleati. A Firenze furono una ventina i principali collaboratori del gruppo. Dopo la prima trasmissione di prova, in via de’ Pucci, Radio CoRa continuò a trasmettere ininterrottamente per cinque mesi venendo continuamente spostata per evitare la sua localizzazione. Il 7 giugno 1944 i nazisti individuarono la ricetrasmittente in piazza d’Azeglio. Il giovane radiotelegrafista Luigi Morandi sorpreso alla radio ebbe la prontezza di sottrarre una pistola ad un soldato tedesco e di ferirlo a morte, poi a sua volta venne colpito e morì due giorni più tardi in ospedale. In quell’occasione vennero arrestati Enrico Bocci, Carlo Campolmi, Maria Luigia Guaita, Giuseppe Cusmano e Franco Girardini. Nelle ore successive furono arrestati anche Gilda La Rocca e il capitano dell’Aeronautica Italo Piccagli che si consegnò ai fascisti sperando di scagionare gli altri. Il capitano Piccagli, quattro paracadutisti ed un ignoto partigiano cecoslovacco furono fucilati nei boschi di Cercina il 12 giugno 1944. Insieme a loro fu uccisa anche Anna Maria Enriques Agnoletti per rappresaglia contro il fratello Enzo, uno dei dirigenti del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
L’avvocato Enrico Bocci fu fucilato dopo giorni di tortura, sempre nelle vicinanze. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Tutti gli altri, prima di essere inviati nei lager, furono torturati a Villa Triste. Gilda La Rocca e Maria Luigia Guaita riuscirono però a scappare prima dell’arrivo in Germania. Enrico Bocci, Anna Maria Enriques Agnoletti, Italo Piccagli e Luigi Morandi sono stati insigniti della Medaglia d’Oro.
La nuova RADIO CoRa sarà prima di tutto una grande operazione culturale, indirizzata – attraverso una corretta e puntuale informazione – a (ri)creare un immaginario condiviso e popolare che abbia al centro i valori della Resistenza e della Costituzione. Radio Cora si ispirerà in ogni sua attività ai valori espressi nella nostra Carta Costituzionale, la cui applicazione concreta, rappresenta ancora oggi il presupposto per una rinascita (anche economica, oltre che morale, etica, civile, sociale e culturale) del nostro Paese.

http://www.radiocora.it/

10 giugno 1924: uccisione di Giacomo Matteotti

matteotti“Io il mio discorso l’ho terminato,ora preparate il discorso funebre per me”, così Giacomo Matteotti, parlamentare e segretario del partito socialista unitario, terminò il suo intervento alla Camera dei deputati il 30 maggio del 1924.
In quell’intervento con la passione civile di sempre e con la consueta stringente concatenazione dei fatti, Matteotti elencò tutte le nefandezze delle quali si erano rese protagoniste le camice nere di Mussolini.
Alla fine del suo intervento, più volte interrotto dagli schiamazzi e dalle volgarità dei fascisti, il deputato socialista così concluse: “Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni”. Si riferiva alle elezioni politiche vinte da Mussolini e dai suoi alleati.
Quell’elenco era talmente dettagliato e documentato da suscitare l’attenzione della stessa stampa estera,in particolare di quella inglese. In quella medesima occasione preannunciò un secondo intervento che avrebbe dovuto pronunciare l’undici giugno, e nel quale, oltre ai brogli, avrebbe denunciato la maxi tangente che il gruppo americano Sinclair Oil aveva probabilmente versato ai fascisti in cambio della concessione per la ricerca e lo sfruttamento di eventuali giacimenti petroliferi.
Nei giorni successivi si dedicò alla stesura di quella denuncia e raccolse la documentazione nella sua borsa.
Il 10 giugno del 1924, mentre si recava alla Camera dei deputati, un gruppo di fascisti, ben noti al partito e a Musssolini, rapivano ed ammazzavano Matteotti. Li guidava Amerigo Dumini, in seguito furono condannati a 5 anni per omicidio preterintenzionale, i mandanti, ovviamente, restarono al governo, anzi intensificarono la stretta repressiva, sino alla sospensione di tutti i diritti politici e civili.
La borsa di Matteotti non fu mai ritrovata, così come non saranno ritrovate nei decenni successivi, altre borse scottanti o agende compromettenti.
“Uccidete pure me, ma un ucciderete mai le idee che sono un me”, aveva urlato in faccia alle camice nere, Giacomo Matteotti, qualche mese prima di essere ammazzato. (di Beppe Giulietti da “Il Fatto”)

9 giugno 1937: il delitto dei fratelli Rosselli

nello_e_carlo_rosselli_con_la_madre_amelia-11799852382È il tardo pomeriggio del 9 giugno 1937. Carlo Rosselli, una delle figure più importanti dell’antifascismo italiano e fondatore del movimento «Giustizia e Libertà» si trova a Bagnoles-de-l’Orne, una stazione termale della Normandia. Da un paio di giorni lo ha raggiunto il fratello Nello, promettente storico del Risorgimento. Mentre rientrano in albergo, dopo una visita in macchina ad Alençon, cadono vittime di un’imboscata. Costretti a fermarsi in una strada di campagna, vengono assaliti e barbaramente uccisi da alcuni sicari della Cagoule, un’organizzazione filofascista francese.
Negli ambienti del fuoruscitismo non ci sono dubbi: l’assassinio dei fratelli Rosselli è un tragico punto messo a segno dalla dittatura mussoliniana. Le formazioni politiche in esilio reagiscono con sdegno e frustrazione; unite in una sola voce, denunciano «in modo categorico e unanime che è all’organizzazione terroristica Ovra, agli ordini diretti del capo del governo italiano, che risalgono l’iniziativa e l’esecuzione dell’abominevole attentato». I processi celebrati in Francia e poi in Italia, nonostante le prove emerse nelle fasi di istruttoria, e al di là di alcune condanne di appartenenti al gruppo dei killer, non hanno mai stabilito la verità.
Chi furono i veri mandanti del delitto? Perché Carlo Rosselli diventò obiettivo prioritario del terrorismo internazionale? Quale fu l’intreccio di relazioni tra controspionaggio militare, ambienti della destra francese e ministero degli Esteri? A settant’anni di distanza, uno dei grandi delitti politici del fascismo, resta una storia di giustizia italiana mancata.
I circolo dei fratelli Rosselli di Firenze, da loro fondato nel 1920: http://fratellirosselli.fol.it/circolo.asp

La testimonianza di Tommaso Lunati

VIA TASSO DAI GRANDI MURI PIENI DI COSI’ TANTO …

1131a698e46Pubblichiamo il testo del bellissimo e commovente testo recitato da Mario Soldaini, 13 anni, studente romano, alla prima festa dell’ANPI Provinciale di Roma, il 4 giugno alla Città dell’Altra Economia, davanti ai partigiani che avevano appena raccontato la loro liberazione. Grazie Mario.

VIA TASSO DAI GRANDI MURI PIENI DI COSI’ TANTO …
Orrore e  Onore parole che si contrappongono tra gli spazi angusti delle celle di Via Tasso 145 .
Manifesti di amore e di perdono verso quelli che avevano voluto guadagnare sulla pelle di uomini che ora definiamo collaborazionisti che criminali ,dei manifesti scavati con unghie di UOMINI  carichi del  senso del dovere ed amore per la Patria che Molto spesso non ricordiamo, nomi come SIMONI O MONTEZEMOLO, volti duri, forti che non potevano dar spazio ad una lacrima!!!
Che sapevano … capivano ed erano tra quelli che Roma, capitale delle capitali non ricorda, tranne una volta all’anno allora si ,poniamo tutti una corona di fiori a simboleggiare il nostro orgoglio, UNA corona che dovremmo ‘’porre’’ ogni giorno nel nostro cuore e nella nostra mente. Al museo della Liberazione o quello che ne rimane perché in parte venduto e dannatamente abitato, ho ritrovato quelle lacrime che non scendevano da tempo ,quel brivido paralizzante su tutta la spina dorsale.
Quella cella n°12 orribilmente piccola e soffocante senza luce per vedere il tempo passare e sperare finalmente  nella fine della guerra.NO! La luce non poteva passare ogni giorno durava un mese, ogni secondo un anno. Un anno di dolore e di torture che stremavano  ma non facevano arrendere quegli uomini che pur di non parlare, morivano nel silenzio più profondo!!! Avendo prima scritto alla madre un ‘’Sii forte‘’ su di un muro.
Allora io mi chiedo ,con la coscienza che riflette ancora a quei locali pieni di onore ed infamie, con il cuore a uomini e donne, anziani e ragazzi, cittadini di ogni classe e ceto dai quali Kappler e suoi aiutanti tentavano di estorcere informazioni in un modo così vile che definirei logorante per la nostra specie Umana, mi chiedo come sia potuto succedere che questi Bastardi siano riusciti a farla franca scappando dentro  delle valigie e come sia possibile che c’era gente che per guadagnare  soldi vendeva uomini, bambini, ragazzi della mia età, donne e ne traeva profitto me lo chiedo ma risposte non ne trovo non riesco a pensare che sia potuto accadere o non voglio pensarci per un brivido da non provare; allora continuo con il solo ricordarmi che circa 9000 DICO 9000 uomini e donne di tutte le età vennero messi su dei treni del non ritorno spariti tra la nebbia ed il fumo. Persone che potevano essere i miei nonni senza i quali io non sarei potuto nascere! E’pensando a questo ed a quello che i miei occhi hanno visto ed il mio sentimento pensato ,che ricordo così, come posso la tragicità della guerra e di quel malato fanatismo militare che non deve permettere e mi auguro non permetterà, un’altra VIA TASSO!!!
Mario Soldaini

Ciao Giorgio

OLYMPUS DIGITAL CAMERANella serata del 26 maggio ci ha lasciati Giorgio Bottacin, la memoria storica della piazza, colui che a 8 anni vide trucidare i martiri in piazza a Mirano. «Lavoravo in pasticceria da Tonolo – racconta – vidi il primo morto trascinato a terra sotto il portico. Era stato ucciso poco prima davanti l’ex casa Pavan. Poi arrivarono i partigiani e spararono contro la casa del fascio. L’amico che era con me cadde morto a terra, io mi salvai per un pelo nascondendomi dietro la vecchia osteria Gasparini». Bottacin vide anche deportare gli Errera e fucilare altri miranesi al cimitero. Sempre presente alle commemorazioni e agli incontri con i ragazzi delle scuole medie dove portava la sua testimonianza degli eventi a cui aveva assistito: la foto si riferisce all’ultimo incontro dell’11 dicembre 2013.

Tutta l’Anpi di Mirano in questo triste momento porge le più sentite condoglianze ai familiari di Giorgio.

I funerali si svolgeranno venerdì 30 maggio alle ore 11 nel duomo di Mirano.

Fosse Ardeatine: il filmato ritrovato di Luchino Visconti

Il primo film documentario realizzato da Luchino Visconti ha ritrovato la via di casa. Una ‘chicca’ scovata negli Stati Uniti da Luciano Martini, endocrinologo, appassionato di musica, cinema e storia che l’ha acquistato per un pugno di dollari. Il filmato fa parte del lungometraggio “Giorni di Gloria” del 1945, che colleziona materiali firmati da Luchino Visconti, Giuseppe De Santis e Marcello Pagliero. Luchino Visconti aveva ripreso su incarico dell’esercito anglo-americano il processo contro l’ex questore di Roma Pietro Caruso, svoltosi nell’attuale sede dell’Accademia dei Lincei, la fucilazione che ne seguì dello stesso Caruso, del delegato Scarpato e di Pietro Koch. Quest’ultimo responsabile della Pensione Jaccarino, conosciuta anche come “villa tristezza”, famosa prigione fascista per le sevizie e i maltrattamenti, dove lo stesso Visconti era stato imprigionato per un breve periodo. Luciano Martini, 87 anni, professore all’Università di Milano per 40 anni, attraverso attente e lunghe ricerche ha ritrovato il nastro originale e lo ha acquistato da una piccola società americana.