Quando, nel 1987, mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione al primo studio universitario americano sulle leggi razziali in Italia (The Italians and the Holocaust di Susan Zuccotti, Nebraska University Press) ho ripreso l’argomento che ha sempre orientato la mia vita pubblica e che mi avrebbe portato a scrivere, presentare, sostenere fino alla approvazione della Camera e del Senato italiani, la Legge che istituisce questo giorno, “il Giorno della Memoria”. In Italia non può esserci un dopo Shoah perché la cultura del Paese non ha mai riconosciuto la sua parte di colpa. In Italia quel tremendo delitto è stato trasferito, come in un evento psicanalitico, alla responsabilità di altri, nazisti e tedeschi. L’Italia ha voluto vedere se stessa come un Paese vittima, dunque, non un Paese che, con il suo governo di allora, molti attivissimi partecipanti italiani, le sue leggi dettagliate e ignobili approvate all’unanimità e l’immenso aiuto del silenzio, è stata complice del delitto.
In quella introduzione ho scritto ciò che – alcuni anni dopo – avrei ripetuto nelle “considerazioni preliminari” che precedono i due articoli della Legge sul Giorno della Memoria: La Shoah è un delitto a cui l’Italia ha partecipato, e soltanto sapendolo e riconoscendolo può tentare di diminuire il senso della vergogna. L’Europa, pacificata al punto di diventare Unione Europea invece che teatro di ricorrenti massacri, è nata dai campi di sterminio, con i sentimenti, le immagini, le parole, l’indicibile esperienza che ci hanno lasciato cittadini fondatori di un mondo salvato, come Primo Levi ed Elie Wiesel. E uomini che hanno tentato la salvezza dei sommersi, come Raul Wallenberg e Giorgio Perlasca. (da un articolo di Furio Colombo del 27 gennaio 2013)