Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest’accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
(intervista a Stefano Rodotà di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2013)