La trama del film

Dicembre 22, 2014

La trama del film di cui alle ore 21.00 comunicheremo il link:

Quando nel 1989 Imamura Shohei girò questo film di anni ne erano passati parecchi da quel 6 agosto 1945, ore 8,15, a Hiroshima.
Molto era già stato scritto, detto, commemorato e un filone letterario, il genbaku bungaku, la “letteratura sulla bomba atomica”, aveva prodotto fiction, documentari, memoriali.
Imamura diede voce e immagini al romanzo di Masuji Ibuse, uomo di Hiroshima, un ibakusha, (così furono chiamati i sopravvissuti all’esplosione) autore con lunga pratica di scrittura alle spalle, che a quella tragedia dedicò le sue opere più importanti.

Rappresentare l’indicibile é stata impresa che si é più volte riproposta nel secolo scorso, per eventi diversi, anche lontani nello spazio, ma tutti segnati dal denominatore comune della indicibilità.
L’umanità, attonita, smarrisce innanzitutto la voce di fronte all’abisso, non il suono, quello resta, ed é l’urlo cupo, l’ululato animale che ci riporta alle caverne.
La parola era nata per altro, la sua nobile impronta sonora diede forma al pensiero, fu anche polemos, la voce della guerra che la polis generò dal suo ventre, perché può esserci una grandezza anche nello scontro e sono scritte leggi da rispettare.
Ma poi ci fu un andare oltre ogni possibile rappresentabilità, la parola dichiarò la sua sconfitta e divenne “qualche storta sillaba, e secca, come un ramo”.
Smise di comunicare, essere comunione di comites, strumento di comunità.
Disse, indicò, divenne secco e sterile mezzo di trasmissione di bisogni primari.
Finché “un silenzio nudo, e una quiete altissima,” riempirono “lo spazio immenso”.

Restarono la musica e la possibilità di dipingere, su tele, cinematografiche e non.
Munch e Imamura, Mahler e Takemitsu.
Un orologio tondo, a parete.
Segna indifferente l’ora di quel giorno.
La città si muove all’alba, c’è canicola, é tempo di guerra, chi sfolla da parenti in campagna, chi va in città per lavoro, autobus e treni si riempiono.

Lo scoppio é una ventata che viene dalla destra dello schermo, una microfrazione di secondo, e quell’orologio accartocciato con le sue tristi lancette riemergerà solo più tardi dalle acque della baia.
Uno dei profughi in fuga sulla piccola barca lo tira su, poi lo lancia di nuovo nell’acqua nera, inservibile come il tempo che verrà dopo.
Una luce irreale accentua il senso di vuoto, di sottrazione. Gravi tessiture sonore stabiliscono un clima di stanchezza attonita per una delle più straordinarie pitture della morte che gli acuti disperati dei violini accompagnano in un succedersi frantumato di scene.

E’ la prima sequenza del film.
Solo un’altra, più avanti, in un flash back della memoria, tornerà a quei momenti ritratti dal vivo.
Ai lividi lampeggiamenti di tragedia segue il torpore grigio dei giorni, mesi e anni successivi, quelli dell’impossibile ricostruzione dei corpi, del tessuto sociale, di una città in cui abbia un senso vivere.

Bisogna chiedersi, a questo punto, cosa abbia spinto un autore che di strada ne ha già fatta tanta dal suo lontano debutto nel 1958, a tornare su quel tema, a girare in bianco e nero, a rimettere il dito in quella piaga.
Potremmo dire la rabbia.
Perché Imamura non cessa mai di creare con i suoi film una lingua di collisione, di esplorare le viscere del corpo sociale con il bisturi dell’entomologo che pratica sezioni chirurgiche, osserva e formula fusioni inedite fra documentario e astrazione fantastica.
Ciò che guida la sua ricerca, a quasi mezzo secolo da quella che fu la bomba per antonomasia, é la rabbia di essere uomo, parte di una specie capace di produrre l’inimmaginabile e farlo diventare una pagina della sua storia.

Fra i ritratti di donna che popolano i suoi film, figure simbolo di una società che dietro la facciata di riserbo, autocontrollo, gentile urbanità di modi, cova inquietudini profonde e gravi contraddizioni, quello di Yasuko, nipote orfana che i due zii hanno adottato alla morte della madre, é uno dei più belli e struggenti per l’aderenza totale ad una realtà storicamente verificabile, insuperata nella sua tragicità ancora operante a settanta anni dagli eventi.
La storia della giovane ragazza dallo sguardo triste che sul camioncino traballante apre il film mentre va dagli zii con le sue povere cose, sarà quella di tutti i disperati che non finirono carbonizzati, a pezzi, liquefatti nell’immediato dell’esplosione.
Ma furono contaminati.
La “pioggia nera” che improvvisa sgocciola densa su Yasuko, sulla sua pelle bianca, purissima, il suo sguardo incredulo, spaventato, incapace di rendersi conto di essere al centro della fine del mondo: la tragedia di Hiroshima e Nagasaki non ha bisogno di essere rappresentata con altre scene.

A quei sopravvissuti la vita assegnò un destino beffardo di morti viventi.
Emarginazione sociale, mancanza di lavoro, impossibiità di matrimonio, pazzia e ossessioni.
Diventare hibakusha volle dire essere come appestati, sentirsi colpevoli pur essendo vittime.
Di questo si occupa Imamura, Kuroi ame non é un reportage sul primo bombardamento atomico della storia:il terzetto famigliare é il modello base, intorno ruotano personaggi a vario titolo rappresentativi di una storia rimossa in nome di una normalizzazione necessaria ma anche spietata.
Genbaku-burabura-byo (sindrome dello scansafatiche che va a zonzo dopo la bomba atomica) fu una locuzione nata allora, un modo di definire le persone incapaci di lavorare a causa della stanchezza cronica indotta dalle radiazioni.
Essere figli di hibakusha é tuttora un problema che, se possibile, si tende a nascondere.

Alla radio i nostri protagonisti ascoltano la vocina lontana di Hirohito, il Sole tramontato, che dichiara la resa del Giappone.
Lo zio recita il sutra dei morti sulla riva mentre bruciano le pire.
E’ la scena finale del film.

Fra la prima e l’ultima scena Imamura Shohei ha composto il trentacinquesimo canto dell’Inferno, la musica di Takemitsu Toru ha intonato il suo canto funebre. (http://www.filmtv.it)

 

Il libro da cui è tratto il film: https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMVGxhdVJabzUtZGM/view?usp=sharing

Valeria Farinati Dicembre 22, 2014 alle 11:44 pm

Nel 1925, a pochi anni dalla conclusione della prima guerra mondiale un protocollo internazionale proibì l’uso delle armi chimiche, i “gas”. Sono passati ormai 70 anni dall’esperienza devastante delle esplosioni nucleari in Giappone. A non rimuoverne il ricordo e il rifiuto, alcuni decenni fa assai più diffuso, e a sostenere l’attuale movimento per l’abolizione globale delle armi nucleari, sono necessari film come questo, pugno nello stomaco di una bellezza rara, che con misura guida a osservare l’orrore senza allontanare lo sguardo. Il trauma della devastazione urbana, sconosciuta e inattesa, è mitigato dalle immagini contrapposte di un paesaggio agreste idilliaco, incontaminato e vitale, di una cultura antica intrisa di spiritualità. Una civiltà e una natura incapaci tuttavia di arrestare il subdolo e implacabile riapparire dei segni del male nei corpi contaminati dall’aberrante e incontrollabile catastrofe artificiale contemporanea.

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