Oggi viene presentata al Parlamento la nuova legge elettorale

costituzione_italianaLA VERITÀ SULLA LEGGE ELETTORALE

La legge elettorale attualmente all’esame del Parlamento presenta gli stessi caratteri di incostituzionalità sentenziati dalla Corte Costituzionale per il porcellum; deve essere radicalmente modificata oppure respinta:

– La composizione del Parlamento deve rispecchiare le opinioni dei cittadini; invece con il cosiddetto ‘premio di maggioranza’ si distorce la volontà degli elettori assegnando al primo turno la maggioranza assoluta a una lista o una coalizione rappresentativa anche solo del 37% dei voti validi; così il voto non è ‘uguale’ perché occorrono meno voti per eleggere un parlamentare della maggioranza che uno della minoranza;
– Il ricorso a un secondo turno di ‘ballottaggio’ nazionale nel caso in cui nessuno raggiunga la soglia del 37% aumenta ulteriormente la falsificazione della volontà popolare, assegnando comunque la maggioranza assoluta a un partito o una coalizione, indipendentemente dai voti ottenuti al primo turno (per esempio, anche solo il 20%); nemmeno la legge Acerbo voluta da Mussolini c’era arrivata;
– a causa delle soglie di sbarramento stabilite per liste e coalizioni saranno esclusi dal Parlamento milioni di elettori (l’8% minimo necessario per ottenere seggi per i partiti che si presentano da soli corrisponde, sulla base del voto del febbraio 2013, a quasi 3 milioni di elettori)
– con le liste bloccate e l’assegnazione dei seggi su base nazionale si impedisce agli elettori di esprimere la propria fiducia in uno specifico candidato; la legge proposta rende estremamente difficoltoso il rapporto fra elettori ed eletti, che vengono individuati su base nazionale con un procedimento complesso e difficilmente comprensibile; il meccanismo distorsivo può perfino impedire l’elezione di candidati che abbiamo ricevuto nei loro collegi la maggioranza dei voti, ma appartengano a partiti che non raggiungono la soglia minima a livello nazionale, tradendo completamente la volontà degli elettori
– con l’assegnazione della maggioranza assoluta a una coalizione o un partito si annullerà di fatto il potere di designazione del Presidente del Consiglio da parte del Presidente della Repubblica (art. 92 Cost); si trasformerà il Parlamento in un organo di mera ratifica della volontà deil’Esecutivo, ampliando il ricorso alla decretazione d’urgenza; si limiterà o annullerà l’indipendenza degli organismi di garanzia (come la Corte Costituzionale) che saranno omogenei alla maggioranza parlamentare;

Tutto questo non garantisce assolutamente la stabilità dei Governi e non limita il ‘potere di ricatto’ dei partiti minori o delle ‘correnti’, perché un gruppo di parlamentari può comunque sempre votare contro il Governo, causandone la caduta. Serve soltanto a imporre per legge la cancellazione del pluralismo delle idee, ad esempio su come uscire dalla attuale crisi socio-economica e non subire i ricatti della finanza intemazionale.
Pretendiamo il rispetto della Costituzione, facciamo valere la nostra volontà di cittadini, chiediamo una legge elettorale che ci restituisca il potere di scegliere parlamentari onesti e competenti.

RETE PER LA COSTITUZIONE – e-mail: [email protected] – Facebook: Rete per la Costituzione

La legge Acerbo del 1923

Un articolo di Paolo Ferrero su “Il Fatto Quottidiano” (Giacomo Matteotti con questa legge probabilmente non sarebbe mai stato assassinato, per il semplice motivo che non sarebbe stato eletto in Parlamento)

4 marzo 1999: assolti i responsabili della strage del Cermis (20 morti)

“La causa dell’incidente è stata un errore della crew (equipaggio). Ha manovrato aggressivamente l’aereo, superando la velocità massima di 100 miglia all’ora e scendendo molto più in basso dei 1000 piedi di altezza. Lo schianto non è frutto del caso, perché l’equipaggio ha volato più basso e più veloce di quanto consentito”. Un’ammissione totale di responsabilità quella contenuta nel rapporto investigativo redatto dal generale dei Marines Peter Pace che imputa all’aviazione americana tutta la colpa della tragedia del Cermis, quando, il 3 febbraio 1998, un caccia statunitense trancia il cavo della funivia di Cavalese (Trento) uccidendo venti persone.
Il rapporto è stato redatto dalle forze Usa solo un mese dopo l’incidente, ma La Stampa è riuscita ad entrarne in possesso solo oggi. Scrive Pace: “Raccomando che vengano presi i provvedimenti disciplinari e amministrativi appropriati nei confronti dell’equipaggio, e dei comandanti, che non hanno identificato e disseminato le informazioni pertinenti riguardo ai voli di addestramento. Gli Stati Uniti dovranno pagare tutte le richieste di risarcimento per la morte e il danno materiale provocato dall’incidente”.
Insomma, le forze armate americane sono responsabili di quanto accaduto e devono risponderne. Tutta la catena di comando: dai quattro membri dell’equipaggio fino ai comandanti della base militare americana di Aviano, da dove l’aereo si è alzato in volo.
Ma le cose vanno diversamente. Subito dopo il disastro, la magistratura italiana chiede di processare i quattro membri dell’equipaggio, ma, in base alle leggi Nato, ad avere la giurisdizione è la giustizia militare a stelle e strisce. Nonostante l’allora primo ministro Massimo D’Alema abbia chiesto formalmente agli Stati Uniti di rinunciare alla giurisdizione sui quattro membri dell’equipaggio, il processo si celebra in America. All’inizio sono incriminati tutti e quattro i membri della crew, ma il processo procede solo per il pilota Richard Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer. Il 4 marzo del 1999 il primo viene assolto, mentre la giuria fa cadere le accuse a carico del secondo ufficiale. Esattamente un anno dopo che il rapporto investigativo redatto dal generale Pace li inchiodava alle loro responsabilità. Ma c’è di più. Sì perché i militari non solo hanno violato i regolamenti per i voli di addestramento uccidendo 19 turisti e un lavoratore, ma hanno anche inquinato le prove. A bordo del velivolo c’era infatti una telecamera con cui l’equipaggio aveva girato un video della missione. Peccato che una volta a terra, il filmato fosse stato cancellato. I due vengono giudicati colpevoli per avere “ostruito la giustizia”, per avere avuto “una condotta impropria per un ufficiale e gentiluomo” e vengono dimessi dalle forze armate. Il pilota viene condannato a sei mesi di carcere (ne sconterà quattro e mezzo per buona condotta), il suo vice non fa neanche un giorno di galera.
E i risarcimenti per i familiari delle vittime? I primi soldi li elargisce il governo italiano nel febbraio 1999, 65mila euro per ogni vittima. Una legge che prevede lo stanziamento di 40 milioni di dollari viene bocciato dal Congresso americano e nel dicembre dello stesso anno il Parlamento italiano eroga 1,9 milioni di dollari. Cifra che, secondo gli accordi dell’Alleanza atlantica, vengono rimborsati al 75 per cento dagli States.
Una storia di impunità che il documento pubblicato dalla Stampa mette nero su bianco: secondo il rapporto infatti, a bordo dell’aereo c’erano i documenti che vietavano i voli a bassa quota e soprattutto c’erano le mappe che segnalavano la presenza della funivia. Ma nessuno aveva aperto quelle buste. Elementi che hanno fatto dire a Pace che l’America doveva pagare per gli errori commessi. Ma la storia dimostra che aveva torto. (da “Il Fatto” del 13 luglio 2011)

Come la Nato ha scavato sotto l’Ucraina (di Manlio Dinucci)

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«Ben scavato, vecchia talpa!»: così Marx descriveva il lavoro preparatorio della rivoluzione a metà Ottocento. La stessa immagine può essere usata oggi, in senso rovesciato, per descrivere  l’operazione condotta dalla Nato in Ucraina.
Essa inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica: al posto di un unico stato se ne formano quindici, tra cui l’Ucraina. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. Nel 1999 la Nato demolisce con la guerra la Federazione Iugoslava, stato che avrebbe potuto ostacolare la sua espansione a Est, e ingloba i primi paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004 e 2009, si estende a Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia; Slovenia e Croazia (repubbliche della ex Iugoslavia) e Albania.
L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – resta invece autonoma. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione», il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato è riuscita a tessere una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano da anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles.
E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato ha una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. Lo conferma il tono di comando con cui il segretario generale della Nato si rivolge il 20 febbraio alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando probabilmente metà Ucraina, mentre continua la sua campagna contro «i sorpassati stereotipi della guerra fredda».
(il manifesto, 25 febbraio 2014)

Riuniti a Bruxelles i ministri della difesa: la nuova strategia di guerra della Nato

Una Pinotti raggiante di gioia, per la sua prima volta alla Nato (il sogno di una vita), ha partecipato alla riunione dei ministri della difesa svoltasi il 26-27 febbraio al quartier generale di Bruxelles.
Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale –  sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
I ministri hanno quindi trattato il tema centrale della Connected Forces Initiative, la quale prevede una intensificazione dell’addestramento e delle esercitazioni che, unitamente all’uso di tecnologie militari sempre più avanzate, permetterà alla Nato di mantenere un’alta «prontezza operativa ed efficacia nel combattimento». Per verificare la preparazione, si svolgerà nel 2015 una delle maggiori esercitazioni Nato «dal vivo», con la partecipazione di forze terrestri, marittime e aeree di tutta l’Alleanza. La prima di una serie, che l’Italia si è offerta di ospitare.
Viene allo stesso tempo potenziata la «Forza di risposta della Nato» che, composta da unità terrestri, aeree e marittime fornite e rotazione dagli alleati, è pronta ad essere proiettata  in qualsiasi momento in qualsiasi teatro bellico. Nell’addestramento dei suoi 13mila uomini, svolge un ruolo chiave il nuovo quartier generale delle Forze per le operazioni speciali che, situato in Belgio, è comandato dal vice-ammiraglio statunitense Sean Pybus dei Navy Seals.
La preparazione di queste forze rientra nel nuovo concetto strategico adottato dall’Alleanza, sulla scia del riorientamento strategico statunitense. Per spiegarlo meglio è intervenuto a Bruxelles il segretario alla difesa Chuck Hagel, che ha da poco annunciato un ridimensionamento delle forze terrestri Usa da 520mila e circa 450mila militari. Ma, mentre riduce le truppe, il Pentagono accresce le forze speciali da 66mila a 70mila, con uno stanziamento aggiuntivo di 26 miliardi di dollari per l’addestramento. Gli Usa, spiega Hagel, «non intendono  più essere coinvolti in grandi e prolungate operazioni di stabilità oltremare, sulla scala di quelle dell’Iraq e l’Afghanistan». È il nuovo modo di fare la guerra, condotta in modo coperto attraverso forze speciali infiltrate, droni armati, gruppi (anche esterni) finanziati e armati per destabilizzare il paese, che preparano il terreno all’attacco condotto da forze aeree e navali. La nuova strategia, messa a punto con la guerra di Libia, implica un maggiore coinvolgimento degli alleati.
In tale quadro il ministro Pinotti ha ricevuto l’onore di avere a Bruxelles un colloquio bilaterale col segretario Hagel che, si legge in un comunicato del Pentagono, «ha ringraziato la Pinotti per la sua leadership e per il forte contributo dell’Italia alla Nato, inclusa la missione Isaf». Hagel ha anche espresso il solenne «impegno di continuare a cercare modi per approfondire la relazione bilaterale con l’Italia». C’è da aspettarsi quindi ancora di più dalla «relazione bilaterale» con gli Usa, oltre agli F-35, al Muos di Niscemi, al potenziamento di Sigonella e delle altre basi Usa sul nostro territorio, all’invio di forze italiane nei vari teatri bellici agli ordini di fatto del Pentagono. Soprattutto ora che ministro della difesa è Roberta Pinotti, la cui «leadeship» ha contribuito a far salire l’Italia al decimo posto tra i paesi con le più alte spese militari del mondo: 70 milioni di euro al giorno, secondo il Sipri, mentre si annunciano nuovi tagli alla spesa pubblica.
(il manifesto, 28 febbraio 2014)

Intervista a Ugo De Grandis sullo sciopero del 29 febbraio1944 a Schio

1625662_716712511706636_2075810653_nL’1 marzo 1944 migliaia di operai in tutto il Nord Italia scesero in sciopero spinti soprattutto dalle precettazioni obbligatorie in Germania. Non fu il primo sciopero verificatosi dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel settembre 1943, ma fu senz’altro il più vasto e, così mette in luce la storiografia, il primo a non limitarsi a semplici rivendicazioni economiche.
A Schio quello sciopero pare cominciasse addirittura con qualche anticipo rispetto al resto del territorio: lo ha sostenuto un paio di anni fa lo storico Ugo De Grandis, che nell’anniversario dei fatti ha rilasciato questa intervista a Alessandro Pagano Dritto per VicenzaPiù.

Marzo 1944. Nel suo scritto lei parla del carattere eccezionale dello sciopero scledense e per descrivere l’atteggiamento tenuto nei suoi riguardi, come nei riguardi, più in generale, della storia della Resistenza di Schio e del Veneto, usa l’espressione «coltre di silenzio» (p. 4). Può spiegare meglio questa sua tesi?

Quella contro l’oblio nel quale la storiografia ufficiale della Resistenza ha confinato la storia di Schio e degli scledensi è una battaglia personale che conduco da anni. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è proprio l’interpretazione di questi scioperi. Schio in quel frangente segnò uno dei tanti primati della sua storia: fu la prima comunità a iniziare a scioperare e l’unica in cui gli operai abbiano trattato direttamente coi tedeschi senza poi subire per questo motivo ritorsioni. Io fisso la data del 29 febbraio – il 1944 era un anno bisestile – come inizio dello sciopero generale collettivo di tutti gli stabilimenti scledensi, ma in realtà le prime astensioni dal lavoro erano iniziate lunedì 28: in quella data si era infatti sparsa in città la voce che alcuni lavoratori avessero ricevuto le cartoline precetto per recarsi alla visita ed essere giudicati idonei o meno al lavoro coatto in Germania. Ma lo sciopero era stato addirittura programmato, a livello più ampio, per il 21 febbraio e in un primo momento doveva coinvolgere solo il triangolo industriale formato da Lombardia, Piemonte e Liguria. Veneto ed Emilia Romagna erano state volutamente escluse dal cosiddetto Comitato di Agitazione perché considerate regioni periferiche: la loro massa, prevalentemente impiegata nell’agricoltura, era considerata priva di preparazione politica e non sufficientemente preparata a forme organizzate di protesta.

Perché l’eccezionalità dimostrata in questo frangente non è riuscita a dare giusta luce alla Resistenza veneta? Da dove pensa che derivi questa tendenza?

Secondo me è perché la memoria della Resistenza, è inutile negarlo, è da sempre stata portata avanti dai partiti di sinistra e dagli intellettuali di sinistra. Il Veneto non ha mai dato grandi espressioni di intellettualità di sinistra e lo stesso vale anche dal punto di vista delle memorie della Resistenza. Noi non possiamo vantare un Beppe Fenoglio, un Cesare Pavese, un Davide Lajolo; abbiamo, è vero, Luigi Meneghello, che però sulla Resistenza ha scritto solo di passaggio, abbiamo Mario Rigoni Stern che però ha parlato della guerra, dell’internamento militare, ma non di Resistenza. A noi in generale tutto questo manca e quindi quando in Italia si parla di Resistenza armata, si parla della Valdossola, delle Langhe, si parla di Sesto San Giovanni se si parla di Resistenza operaia, del Lingotto o di Sanpierdarena, ma mai e poi mai del Veneto: le stesse dirigenze del Partito Comunista hanno sempre guardato con sufficienza questa terra. Delle zone libere tutti ricordano, per esempio, la Valdossola, che aveva alle spalle la Svizzera neutrale; nessuno invece ricorda Posina, che certi hanno considerato un errore perché ha provocato un immane rastrellamento ma che rispondeva comunque a direttive nazionali. Eppure questa, Posina, aveva alle spalle i territori del Terzo Reich, non la Svizzera.

I mesi che precedettero lo sciopero. Nel suo libro assume una certa rilevanza, per questo preciso periodo, una figura della dirigenza comunista veneta: Giuseppe Banchieri «Anselmo». Chi era?

Banchieri era Segretario federale regionale, il numero uno nel Veneto. Venne a Schio ai primi di gennaio per indagare sui fatti di Malga Silvagno, dove erano stati uccisi quattro partigiani garibaldini. Indagando individuò delle lacune nell’organizzazione, lacune che mi sento però di giustificare. Schio era infatti stata fortemente penalizzata nei primi tentativi di imbastire una resistenza, con il rastrellamento del Festaro di metà ottobre e poi con l’arresto di almeno due importanti elementi a novembre: Nello Pegoraro e Pietro Bressan, trasferiti, come altri prima, a Verona. A questo si aggiungeva il fatto che qualcuno si ostinava ancora a rimanere nelle Commissioni interne che nelle fabbriche si erano create dopo il 25 luglio nel clima della ritrovata «democrazia», con tanto di virgolette, dei quarantacinque giorni di Badoglio. Queste Commissioni erano poi divenute uno strumento di controllo del regime e dovevano quindi essere disertate dai lavoratori. Banchieri passò a setaccio l’organizzazione ed effettuò alcune sostituzioni importanti. Tra queste, quella di Domenico Marchioro, che, dopo Pietro Tresso, era stata la figura numero due del comunismo locale: onorevole del PCd’I, era stato arrestato nel 1926 con tutta la dirigenza comunista dell’epoca, con Gramsci e Scoccimarro, e processato. Rientrato dopo quasi diciotto anni di carcere, Marchioro si vide affidare per riconoscenza la gestione della segreteria provinciale, ma si dimostrò ben poco affidabile: era rimasto con la mentalità semilegale della prima metà degli anni ’20 e non capiva le necessità della condizione clandestina del momento. Fu quindi trasferito a Roma con la scusa della salvaguardia personale.

Ed è a questo punto che entra in gioco un’altra importante figura, quella di Antonio Bietolini «Lorenzo».

Esatto, nel posto che fu di Domenico Marchioro fu inserito Antonio Bietolini. Se devo dire la verità, Bietolini mi ha sempre dato l’impressione del funzionario che sentenzia dall’alto senza calarsi nella realtà locale di altri quadri politici; di quei quadri cioè che lavorano in fabbrica, che sono esposti agli occhi di tutti e che devono gestire la loro attività in una situazione diversa dalla clandestinità dell’elemento di partito venuto da fuori sotto falso nome. Non era l’unico: lo stesso Giorgio Amendola si comportò così, dando un giudizio sprezzante dell’organizzazione delle brigate Garibaldi in tutto il Veneto, osservato però dalla sola Padova. Ma ciò che di Bietolini mi ha infastidito di più è stata una certa arroganza a volersi attribuire l’organizzazione dello sciopero, cosa che non considero vera almeno in relazione a Schio. A Vicenza infatti dovette insistere perché Vicenza non era una realtà industriale pari a Schio, dovette insistere anche a Valdagno, realtà industriale, sì, ma più isolata, meno incline ad avventure rispetto a Schio; a Schio però trovò le cose già fatte. Eppure lui rivendicò il merito dichiarando che nel più grande stabilimento scledense, il lanificio Rossi, aveva trovato solo cinque operai comunisti e neppure organizzati in cellula. Non mi sembra proprio possibile.

Perché le affermazioni di Bietolini sul numero di operai comunisti al Rossi non le sembrano plausibili?

Dal 1873 fino al 1921 Schio aveva espresso una lunga tradizione di scioperi, forti a tal punto da paralizzare la città per settimane, nel 1921 addirittura per mesi dall’estate fino a metà autunno: tutte le fabbriche furono paralizzate. Mi riesce difficile credere allora che nel 1944 al Rossi ci fossero solo cinque comunisti. I documenti dell’Archivio Centrale dello Stato mostrano che a metà degli anni ’30 a Schio c’erano 188 schedati come sovversivi: comunisti, anarchici e socialisti. Unendo a Schio i paesi del circondario – quindi Marano Vicentino, Santorso, Torre Belvicino e San Vito di Leguzzano – si arriva a 329. In occasione di una retata del novembre del 1937, un’indagine dell’OVRA portò alla denuncia di una cinquantina di attivisti che finirono in carcere al confino per sei anni, ma ciò nonostante l’attività sovversiva continuò. No, non credo alla cifra riportata da Bietolini, che nelle sue relazioni sembra il dirigente di partito che viene e bacchetta gli scolaretti. Non fu così e lo dimostra il fatto che in tutti i suoi andirivieni tra Vicenza, Schio e i paesi vicini, quando arrivò a Schio lo sciopero era già stato anticipato perché si era diffusa la notizia delle cartoline precetto: la scritta domani nei volantini già stampati dovette essere corretta a penna con la scritta oggi. No, nell’organizzazione dello sciopero furono direttamente coinvolti i comunisti scledensi: Antonio Canova, Arturo Rigoni, Giuseppe Scala, Livio Cracco, Pierfranco Pozzer, Igino Manea, Giambattista Cavaliere. Tutti nomi che poi hanno proseguito nella resistenza civile: Canova diventò per esempio comandante del battaglione territoriale «Fratelli Bandiera».

Come si svolse lo sciopero in paese e come reagì la controparte?

Le fabbriche furono subito circondate da truppe di SS provenienti da Vicenza. Ci fu un primo tentativo di mediazione del Commissario Prefettizio Giulio Vescovi, tentativo che però fu giudicato dallo stesso Capo dell’Ufficio Annonario del Comune di Schio, il cattolico Igino Rampon, con l’aggettivo «evanescente». Fu allora deciso di inviare una delegazione di operai di Schio, circa una quindicina, nella sede dei sindacati fascisti a Vicenza. Bisogna capire che questo fu uno sciopero politico, diversamente da quelli precedenti cui avevano partecipato anche quei fascisti non contenti dell’entrata in guerra. Qui non si trattava, come prima, di migliorie del vitto: non si voleva andare in Germania. Era uno sciopero contro la Repubblica Sociale, contro l’occupazione tedesca, contro la guerra e la risposta del popolo lavoratore alla socializzazione.
A Vicenza poi i delegati trattarono direttamente con un ufficiale tedesco di elevato grado venuto, sembra, da Brescia, che accettò di ritirare le precettazioni a patto che il lavoro ricominciasse subito. A differenza che altrove non vi furono rappresaglie naziste per questo sciopero e questa è un’altra eccezionalità.

Leggendo i rapporti che lei trascrive nel suo libro, si ha la sensazione che Bietolini non avesse gradito troppo la soluzione della Commissione mandata a Vicenza. Per i comunisti scledensi la Commissione poté dirsi un successo?

Io la vedo come un successo. Torno a dire: il dirigente che viene da Roma e giudica le cose dall’alto avrebbe voluto magari lo scontro all’ultimo sangue, nessuna trattazione e lo sciopero a oltranza. Con il rischio, poi, delle deportazioni? Questi erano i paraocchi del dirigente, del rivoluzionario avulso dalla realtà quotidiana. Gli operai scledensi non potevano spingere oltre, sono convinto che passarono veramente, e comunque, due brutte giornate: avevano persino preparato le vie di fuga nel caso di arresti o attacchi. Non dimentichiamo che ad Arzignano in quel periodo uno sciopero costò la vita a quattro operai, fucilati. Credo che in questo, nel non voler cioè arrivare allo scontro finale, abbia giocato un grande ruolo l’importanza strategica di Schio e delle sue industrie per l’economia di guerra tedesca: si parla di un patrimonio industriale valutato all’epoca circa 80 miliardi di lire.

Bietolini parla di un solo comunista all’interno della Commissione, entrato giusto per permettere sulla stessa una qualche influenza. Quanto contarono effettivamente i comunisti al suo interno?

Difficile dirlo, bisognerebbe conoscere i nomi di tutti i componenti. Secondo me evitarono di farne parte gli antifascisti più in vista, quelli più ricercati e rientrati dal confino. I nomi che si conoscono – Giuseppe Sandonà, Domenico Rigoni, Vittorio Negrizzolo per esempio – non erano nomi di antifascisti schedati, potevano presentarsi e trattare per conto degli operai. Non potevano certo altrettanto un Alessandro Cogollo o un Livio Cracco appena rientrati da sei anni di carcere: e sono cose come queste che Bietolini dimostrava di non capire.

Emilio Trivellato, lo storico che prima di lei scrisse alcune pagine sugli eventi, ricorda un incontro tra Giuseppe Sandonà, che gli rende anni dopo la testimonianza, e proprio Alessandro Cogollo: i due si incontrano alla trattoria La Pergola, noto ritrovo dell’antifascismo scledense. Sostiene Sandonà che le preoccupazioni per l’evolversi della situazione erano visibili da entrambe le parti, quella tedesca e quella antifascista. Che idea si è fatto del clima che si poteva respirare in quei momenti?

Doveva essere brutto, pessimo. Bisogna sempre ricordare che il primo sciopero dichiaratamente politico a Schio era avvenuto il 10 settembre 1943, quando erano stati portati via i militari della Caserma «Cella». L’attacco avvenne di notte, ma quando al mattino giunse la colonna di autocorriere e a Schio si sparse la voce che i tedeschi avevano occupato la città aprendo il fuoco e uccidendo quattro persone, deportando gli altri, le fabbriche scesero in sciopero, i negozi chiusero e la gente in strada tentava di bloccare le autocorriere. Quindi c’era l’intuizione che a mettersi contro i tedeschi si rischiava di essere caricati su una corriera per un viaggio verso il vuoto. Non è poi vero che nel 1944 nessuno sapesse cosa succedeva in Germania. Certo, camere a gas e forni crematori non li aveva visti nessuno, però prima dell’8 settembre ci fu qualche fortunato che, espatriato da volontario, riuscì poi a rimpatriare con qualche stratagemma e che una volta tornato raccontò come venivano tenuti non solo gli operai specializzati italiani, ma soprattutto i civili russi. Oltretutto dal 25 luglio erano state bloccate le rimesse e qua a Schio non era più arrivato nemmeno un centesimo dai lavoratori volontari divenuti, dopo il colpo di Stato di Badoglio, schiavi. Sapendo tutto questo, come potevano gli operai accettare la cartolina di precetto coatto? Ma nemmeno portare la sfida all’estremo conveniva. Dal punto di vista tedesco, invece, bisogna tenere conto che tutte queste industrie erano state requisite proprio da loro, dai tedeschi: deportando gli operai, chi ci avrebbe lavorato? I tedeschi finirono infatti col comprendere che conveniva cambiare tattica: portare le commesse qua, in fabbriche funzionanti e attive al loro servizio, piuttosto che deportare gli operai in Germania. Anche perché le minacce di arrivo di cartoline spingevano gli operai a lasciare le fabbriche e andare in montagna.

Nei rapporti di Bietolini si percepisce una certa attenzione al problema della stampa e della mancanza di informazione, che secondo il dirigente comunista isolò l’ambiente scledense e rese l’esito dello sciopero diverso da quello da lui sperato. Che influssi ebbe, secondo lei, questo aspetto nella vicenda?

Non è che a Schio girasse all’epoca chissà quale stampa, al massimo qualche copia clandestina dell’Unità passava di nascosto tra i telai. Ma le maggiori informazioni arrivavano dalle radio, per esempio Radio Londra. Durante lo sciopero si erano fatti saltare i tralicci del telefono per impedire le comunicazioni dei tedeschi, ma così anche gli operai erano rimasti isolati. I collegamenti migliorarono semmai dopo, nei mesi successivi, con l’evolversi della situazione delle formazioni partigiane in montagna e i collegamenti via radio degli Alleati, ma all’epoca degli scioperi si era ancora agli inizi e le radio erano state tutte requisite. Non è un caso che si fosse puntato molto su questo isolamento per tentare di far fallire lo sciopero. In generale comunque continuo a pensare che le valutazioni di Bietolini debbano essere lette tenendo presente questo carattere del dirigente che non giudica dal basso.

Di solito, quando si parla di Resistenza, si ha sempre in mente la figura del ribelle armato che combatte in montagna; sotto tono sembra passare invece la resistenza civile espressa per esempio dagli scioperi. Come mai, secondo lei?

La figura del guerrigliero che vive in montagna e fa uso delle armi, che si scontra e partecipa a sabotaggi e azioni di fuoco, è senza dubbio più epica. Ma io ricordo anche i racconti di mia nonna, operaia al lanificio Rossi, che mi diceva di come tra di loro operai raccogliessero soldi, imboscassero garze, lana per fare un paio di calzettoni da mandare a un partigiano che nemmeno sapevano chi fosse. E questo è anche il motivo per cui la figura della donna è sempre rimasta in secondo piano: perché ha compiuto migliaia di azioni rischiose ma non lo scontro a fuoco, il sabotaggio del ponte o il disarmo della guarnigione. Per ciò che non è lotta armata o si ha la fortuna di avere un memoriale di qualcuno che ha partecipato alla Resistenza civile o altrimenti si rischia di perderne la memoria. Azioni come fare una calza di lana la sera dopo il lavoro possono sembrare banali, ma è anche grazie a queste che i partigiani in montagna sono sopravvissuti.

Ci furono altri scioperi dopo quelli di marzo?

Sì. Nel Quaderno lo cito di sfuggita [pp. 58-59], ma nell’ottobre del 1944 ci fu per esempio un altro sciopero molto importante e ugualmente passato sotto tono, sciopero che fu una risposta alla violenza carnale cui furono oggetto alcune operaie scledensi, precisamente di San Ulderico, da parte di alcuni elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Quello sciopero segnò definitivamente l’incapacità del fascismo scledense di gestire l’ordine pubblico, perché un’altra volta dovettero intervenire i tedeschi. Il Commissario Prefettizio, Vescovi, si recò subito al lanificio Cazzola, sceso immediatamente in sciopero perché le operaie in questione lavoravano lì: tentò di mediare chiedendo anche i nomi dei colpevoli, ma la notizia si diffuse in città e tutte le fabbriche scioperarono per tre giorni. Ancora una volta dovette venire qui a Schio un ufficiale tedesco che patteggiò il ritorno al lavoro con l’allontanamento della guarnigione della GNR. Questo fu un ulteriore punto a favore dell’antifascismo civile scledense, che però nella storia nazionale, con tutta la sua città, raramente viene citato. La storiografia di matrice comunista, così come le stesse brigate Garibaldi, hanno sempre marginalizzato il Veneto: considerato «la parrocchia d’Italia», a loro non interessava.

Lei sostiene nel suo Quaderno [p. 2] che lo sciopero si proponeva di ottenere alcuni traguardi, sia a livello locale che nazionale: danneggiare i tedeschi, sottrarre gli operai al fascismo e dimostrare agli Alleati la popolarità dell’antifascismo. Possiamo dire oggi che ci riuscì?

Sì. Lo sciopero del Nord ebbe risonanza mondiale, perché fu la più partecipata e clamorosa manifestazione di protesta a livello europeo. Si aveva l’impressione, allora, che la Liberazione fosse una cosa imminente e bisognava quindi dare un segnale che il popolo italiano era antifascista e antitedesco: cosa che fu recepita e commentata dai comandi alleati e dalle loro radio, perché nessun Paese aveva mai messo in campo una protesta di quelle dimensioni. E questo fu lo scopo principale della dimostrazione.

Il titolo del suo scritto sull’argomento è Gli scioperi del marzo 1944 a Schio (Quaderni di storia e cultura scledense, Libera Associazione Culturale «Livio Cracco», Schio, ottobre 2011, pp. 60, 3 euro).

Intervista a cura di Alessandro Pagano Dritto

(da www.vicenzapiu.com)

Politica nuova?

anpiE’ ben difficile parlare di “nuova politica” di fronte al rapidissimo mutamento di situazione che si è verificato nel giro di una settimana, col Governo Letta “indotto” alle dimissioni e il “trionfo” del nuovo Segretario del PD, che si avvia alla conquista di gran carriera del posto di Presidente del Consiglio, sulla base semplicemente delle decisioni adottate dal suo partito.

Intanto, è difficile compiacersi e considerare “buona politica” l’improvviso mutamento nelle parole e nelle decisioni del futuro premier. Non lo faccio io, ma l’ha fatto lo stesso quotidiano del suo partito, l’elenco delle cose che da più di un mese andava dicendo (solo per esemplificare: mai più governi di larghe intese, mai accesso alla guida di Palazzo Chigi senza un voto popolare, mai prendere il posto di Letta prima del compimento del semestre europeo, mai rinnovare i riti della vecchia politica); ed ora nel giro di pochi giorni, addirittura di poche ore, tutto è stato cancellato e smentito.

Si va al Governo con Alfano, si costringe Letta alle dimissioni, si cambia quasi tutto il Governo (ma Alfano resta, a quanto pare) con un metodo a dir poco discutibile (pur di dimostrare una pretesa discontinuità, si mandano a casa anche Ministri, come quelli dell’Istruzione che avevano ben meritato), non si fa un pur rapido passaggio in Parlamento, mentre si continua ad ignorare il vero e reale programma del nuovo esecutivo. Non c’è male, come rinnovamento della politica. E non c’è male anche sotto il profilo strettamente istituzionale; il cambio avviene sulla base di rapide e scontate consultazioni, al Parlamento spetterà un voto complessivo, di avallo di un lavoro già compiuto. Che ci siano dei precedenti in termini (un governo “eletto” senza un passaggio parlamentare, con un premier non eletto da nessuno, ma solo indicato dal suo partito), ne dubito. Comunque, conterebbero ben poco, visto che si afferma che si vuole rinnovare la politica.

E non ci si venga a dire che il passaggio parlamentare  non era utile perché le dimissioni di Letta erano irrevocabili e dunque non c’era la possibilità che cambiasse idea. Serissimi costituzionalisti hanno già dimostrato che non è così, perché il Parlamento deve essere chiamato in causa, non già per prendere atto delle dimissioni oppure decidere di mantenere in vita il vecchio Governo, ma – essenzialmente – perché tutto avvenga alla luce del sole e con un pubblico dibattito dal quale i cittadini apprendano le ragioni per cui il “passaggio” sta avvenendo, con quelle modalità, con un Governo che non ha avuto la sfiducia, con dimissioni non spiegate, se non da una riunione di partito (peraltro assai ambigua, sul punto), con la scelta di un Presidente del Consiglio estraneo al Parlamento, con un programma tutto da conoscere, prima ancora che da verificare.

Questo dibattito non ci sarà, a quanto apprendiamo.

Anche questa, a tutto concedere, non è proprio una novità e questo è davvero singolare quando si parla continuamente di innovazione e cambiamenti nello stesso modo di far politica.

Con questo, non intendo affatto “difendere” il Governo Letta, che ha le sue responsabilità e le sue colpe, sempre denunciate da queste colonne. Del resto, che ci sia stato e che ci sia qualcosa che non funziona, lo si deduce da quello che sta avvenendo in Parlamento, dove si sta profilando un pauroso ingorgo di decreti in scadenza (5 a febbraio e 3 a marzo); e quali decreti! Basti ricordare che c’è il cosiddetto “mille proroghe”, già carico di una montagna di emendamenti; c’è il finanziamento pubblico dei partiti e c’è il famosissimo decreto “salvaRoma”; e, ancora, lo “svuotamento carceri”, il “destinazione Italia”; il decreto che proroga le missioni all’estero, e così via. Una massa di provvedimenti urgenti e in scadenza, che ingolosiscono le opposizioni, che faranno di tutto per ostacolarli. Un calendario come questo rappresenta di per sé un giudizio negativo, prima che sul Parlamento, sul Governo, che non è stato capace di procedere oculatamente e nelle forme ordinarie.

Ma, detto questo, “non si uccidono così i cavalli”; insomma, anche per cambiare di passo (e di esecutivo) ci vorrebbe un po’ più di garbo (e non parlo solo di “educazione”, ormai smarrito da tempo, ma soprattutto di garbo istituzionale).

In mezzo a tutto questo, guardo ancora – con malcelata nostalgia – alla mia “agenda” della settimana scorsa e mi accorgo che al mio elenco di priorità politiche e soprattutto sociali, non viene contrapposto, allo stato, praticamente nulla che sia noto e conoscibile; eppure, parlavo di “pianificazione degli interventi “(addio ai decreti-legge), di provvedimenti urgentissimi per risolvere la gravissima emergenza  sociale, della creazione di un piano organico e mirato per reperire le risorse necessarie ad un rilancio delle attività produttive e alla creazione di posti di lavoro “veri”, di riforma della politica, di forte impegno contro la criminalità organizzata e contro la corruzione; e parlavo anche di riforme istituzionali basate sulla conoscenza, sulla riflessione e sul confronto reale attorno ai modelli possibili per realizzare una concreta differenziazione del lavoro delle due Camere.

Un vero libro di sogni: a Roma si sta parlando, al solito, di posti, di nomi, di caselle da occupare e da destinare, ma gli obiettivi restano nel vago: si parla sempre di riforma della legge elettorale; ma se poi la si fa in un modo da molti giudicato pessimo, e se essa finisce in mezzo all’ingorgo dei decreti, anche su questo c’è poco da sperare, soprattutto se si pensa che bisognerebbe ancora approfondire, confrontarsi, riflettere e non improvvisare.

Ma almeno, a prescindere dalla velocità (anzi, dalla fretta) che è realmente e fin troppo innovativa, qualche “novità” c’è? Certo, ce n’é almeno una, a cui non pensavamo più: la soglia del Quirinale, una volta preclusa a chi aveva anche solo un avviso di garanzia, è stata varcata, a quanto pare, da un condannato, provvisoriamente e incredibilmente libero di circolare, solo perché un Tribunale di sorveglianza sta tardando a decidere se assegnarlo agli arresti domiciliari oppure ai servizi sociali. Questa è davvero un’innovazione, la seconda peraltro, dopo lo “storico” incontro al Nazareno tra due leader entrambi estranei al Parlamento, di cui peraltro uno perché non ha ancora avuto modo di farsi eleggere e l’altro perché dal Senato è stato escluso per decadenza.

Ci sarebbe da sorridere, se non ci fosse da piangere. Ma noi, vecchi combattenti, non sorridiamo e non piangiamo: stringiamo i denti, aspettando che si torni davvero ai valori ed alle regole della Costituzione, che prenda il sopravvento la politica “buona”, che insomma qualcosa cambi davvero, nel nostro Paese. Noi non abbiamo mai disperato ed anche di fronte a prove terribili, continuiamo a pensare e sperare che all’Italia arrida un futuro migliore, all’insegna della nuova politica, dell’antifascismo, della democrazia (parole, quest’ultime, che ci piacerebbe sentire, almeno ogni tanto, nei discorsi e ragionamenti politici, ed invece non si sentono praticamente mai).

Naturalmente, limitarsi a sperare sarebbe troppo poco. Non lo abbiamo mai fatto e non lo faremo neppure adesso, anche se i tempi sono difficili e complessi. Ma noi – la nostra Associazione – siamo portatori di valori che vengono da lontano e ci parlano di donne e uomini che, per quei valori, hanno lottato e sofferto, non scoraggiandosi mai, ma sempre operando perché essi trionfassero. Se avessimo solo “sperato”, non ci sarebbe stata la Resistenza ed avremmo finito per aspettare l’arrivo degli Alleati. Invece, c’è stato un impegno forte e deciso anche quando tutto sembrava perduto, a fronte di una barbarie incalzante e dotata di uomini e mezzi soverchianti. Quell’impegno ha pagato, alla fine, come pagherà anche oggi se non ci arrenderemo allo sconforto, alla delusione, allo smarrimento e cercheremo di fare sentire, con forza, la voce della Costituzione, la voce, mai incrinata, dei tanti che hanno combattuto per la nostra libertà e per il futuro del Paese.

Carlo Smuraglia – Presidente Nazionale ANPI

Roma, 18/02/2014

 

Il nuovo dizionario di Matteo: c’è “Paese” e non “Berlusconi”. Spariscono destra e sinistra (di Filippo Ceccarelli da “Repubblica”)

Le parole, al giorno d’oggi, si misurano e si pesano. Ieri Renzi si è rivolto molto più al grande pubblico che ai senatori, che pure ha cercato di coinvolgere, a tratti anche divertendoli, per il resto sforzandosi di stupirli senza troppo preoccuparsi che alcuni si sarebbero disorientati. La novità comunque c’è. Così parlò Renzi in quelle che un tempo si sarebbero definite «dichiarazioni programmatiche» e ieri lui stesso ha suggestivamente assimilato a una specie di «Truman show».

Io, noi. Pronomi interscambiabili. «Apprezzo », «ci avviciniamo», «non vorrei», «abbiamo svolto». Il protagonismo egocentrato convive con una dimensione collettiva, ma nell’economia generale del discorso non è chiaro il motore e la funzione del loro alternarsi. L’effetto suona talvolta come un singolarissimo
plurale majestatis.

Età, la mia età. Segnale di auto-distinzione anagrafica con prezioso richiamo d’esordio al brano della «pur bravissima» Gigliola Cinquetti, che con Renzi, del resto, condivise ai tempi la militanza nei comitati per l’Ulivo. Su un piano storico-oggettivo il tempo presente è indicato come: passaggio. Ma la tentazione della Generazione Erasmus è sempre in agguato.

Derby. Sta per sfida, scontro, conflitto, ma con un aperto pregiudizio di riprovazione. Vedi il «derby ideologico» sulla giustizia. Lessico calcistico, nei due interventi al Senato ridotto tuttavia al minimo.

Coraggio. Un tempo virtù che si riconosceva esclusivamente ai grandi scomparsi, oggi risorsa comunicativa ad alto impatto rivendicata in tempo reale come inconfondibile segno di leadership. Spessa abbinato, ma per negazione e sottrazione, alla paura, «non abbiamo paura», «mai paura», eccetera.

Urgenza. Così come l’accelerazione risuonata nella replica, è la premessa della velocità, dell’impeto e dell’iper-cinetismo del nuovo presidente comunque necessari ad affrontare, anzi a prestissimo risolvere i problemi sul tappeto.

Faccia, facce. Sostantivi eminentemente visivi, quindi televisivi e come tali tipici del renzismo. Il potere sollecita sguardi,trasmette indizi, addita fenomeni che tutti possono guardare, di norma sugli schermi.

Sogno, sogni. Provenienti dalla pubblicità e resi inevitabili nella retorica della Seconda Repubblica dopo l’inaugurazione, l’uso e l’abuso di Berlusconi, ma anche di altri suoi onirici imitatori. Un indubbio progresso, nel caso odierno, la mancanza della consueta citazione di Martin Luther King, «I have a dream».

Fuori. «Fuori di qui», «fuori da quest’aula ». Un modo per sottolineare la propria estraneità alla casta, termine però menzionato ieri appena di sfuggita. «Fuori», senza nemmeno il sottotitolo (Mondadori, 2011), era d’altra parte il titolo di uno dei primi e illuminanti — con il senno di poi — libri di Renzi. Un capitolo dedicato al «complesso di Silvio», l’innominato. E oggi il cognome Berlusconi non è mai risuonato.

La madre di. Fantasioso riciclaggio «giornalese» al linguaggio bellico di Saddam Hussein (1991). «La madre dei nostri problemi», ha detto Renzi, e «la madre di tutte le privatizzazioni». Questa madre non proprio un esempio di premura e bontà.

Papà. «Credo che capire cosa significa incrociare lo sguardo di un papà… « e qui Renzi si è fermato, e ricordandosi di essere fiorentino si è regalato una civetteria lessicale per così dire identitaria: «Per non dire babbo».

I nostri figli. O anche «i nostri ragazzi». La reiterata espressione, di toccante valenza famigliare, ha introdotto e rafforzato argomenti anche ragionevoli, ma «aveva pure il senso di ricercare un accordo trasversale diretto a tutti i senatori-genitori.

Struggente, devastante. Curiosa coppia di aggettivi che due volte sono comparsi nel discorso. Romantico il primo, apocalittico il secondo.

Persone. Sostantivo molto usato e mai a sproposito. Probabilmente rivelatore della cultura cattolica che sta nel background di Renzi. Si sente l’eco di Mounier e si adatta bene al tono discorsivo.

Destra, Sinistra. La prima mai citata. La seconda una sola volta, nella replica.

Slides. Anglismo esorbitante. Si poteva dire: diapositive.

Scuola, insegnanti. La parte più personale. Essendo la signora Agnese una professoressa si sentiva l’eco, e anche la vitalità, di tanti discorsi in famiglia.

Fiatone. Una dei tanti termini del sermo humilis, ovvero parla anche in Parlamento come mangi: «tirar via», «giocatevele», «le bandierine», «una pizza e una birra».

Racconto. La politica renziana persegue la tecnica e un po’ anche la filosofia della narrazione, o story-telling che dir si voglia. La bambina figlia di immigrati, le telefonate ai marò, alla signora sfigurata dal vetriolo, all’amico disoccupato. Un modo per andare alle questioni con lo slancio della prima persona.

Buon lavoro a tutti. La conclusione della replica come un saluto. Un tempo si diceva «Viva l’Italia» o anche «Iddio salvi l’Italia». La speranza che un più semplice augurio funzioni comunque.

 

Il cattivo tedesco e il bravo italiano

coverfocardiPremessa – di Wu Ming 1

Ecco un’occasione da cogliere al volo.

Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…
Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere – l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.
Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.
[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.
Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l’elargizione non si sono costituite parte civile.]
Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.
Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:
– la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;
– l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;
– la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);
– i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;
– l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;
– la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.
E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:http://youtu.be/2IlB7IP4hys

Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).

A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:

«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»

Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.
Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.

(dal sito http://www.wumingfoundation.com)

17 febbraio 1992: arresto di Mario Chiesa

054606030-bd40ec04-7745-42c2-a01e-a159908174a8Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni: sogna di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano. Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare al presidente 14 milioni, la tangente pattuita su un appalto da 140 milioni. Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A dir la verità – ricorda Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.» Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo, quasi si scontra con un carabiniere in borghese.
Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»), una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capisce di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No, ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto. Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore.
L’intervento è stato preparato con cura. Le prove sono schiaccianti: una ogni dieci delle banconote di Magni è stata firmata da un lato dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, dall’altro dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro. La ditta di Magni, che si occupa di speciali trattamenti ospedalieri, lavora per il Pio Albergo Trivulzio da qualche anno. Nel 1990, con i primi appalti consistenti, sono arrivate anche le prime richieste di denaro. Racconta Magni: «I soldi Chiesa me li ha chiesti con quattro parole secche, com’è sua abitudine: “Mi deve dare il 10 per cento”». In meno di due anni l’imprenditore porta a Chiesa una quarantina di milioni, in sei o sette consegne, sempre in contanti, dentro una busta bianca. «Io non immaginavo certo che cosa sarebbe successo dopo la mia decisione di andare dai carabinieri. Per me era un problema economico. Il 10 per cento è troppo, anche perché nel nostro settore non possiamo recuperare gonfiando i prezzi. E poi le buste Chiesa le voleva subito, mentre noi i pagamenti li vedevamo molti mesi dopo. Era una situazione insostenibile.»
Così Magni chiede aiuto all’Arma. Il 13 febbraio telefona alla caserma milanese di via Moscova. Il capitano Zuliani gli fissa un appuntamento per le 10 del giorno seguente, venerdì 14. Lo ascolta, raccoglie la sua denuncia e la presenta al magistrato con cui lavora: Di Pietro. Il pm e l’ufficiale preparano il blitz per il lunedì: quel giorno Di Pietro è di turno, quindi l’inchiesta sarà assegnata a lui. L’appuntamento è per le 13 del 17 febbraio, alla caserma di via Moscova. Luca Magni arriva con la sua auto Mitsubishi e con i suoi 7 milioni. Il capitano lo accompagna subito a palazzo di giustizia: «Ero un po’ teso – ricorda l’imprenditore – perché non mi aspettavo di incontrare un magistrato. Però mi sono subito tranquillizzato, perché Di Pietro è stato molto gentile. Ha fatto uscire dalla sua stanza tutti quelli che vi stavano lavorando, mi ha messo a mio agio e mi ha chiesto di raccontargli i fatti, senza alcun atteggiamento inquisitorio».
In caserma, le banconote vengono siglate e fotocopiate. Si prova la penna- trasmittente e la valigetta-telecamera (che alla fine non risulterà granché utile). Poi un corteo di quattro macchine, la Mitsubishi di Magni e tre auto dei carabinieri, parte per il Pio Albergo Trivulzio (che i milanesi chiamano affettuosamente «Baggina» perché ha sede sulla strada che porta a Baggio). Sta nascendo Mani pulite, l’inizio della fine di un sistema politico. Ma nessuno, quel giorno, può ancora immaginarlo. (da “Il Fatto Quotidiano)

Linguaggio e politica. Smuraglia: superato il limite

indexQuello che è avvenuto nei giorni scorsi in Parlamento non è uno spettacolo edificante, ma soprattutto non giova a nessuno, né alle istituzioni, né alla politica, né al Paese. C’è, ovviamente, chi pensa di trarne vantaggio, quanto meno ai fini della visibilità; ma anche questo è un “vantaggio” illusorio, perché non è affatto detto che tutti coloro che hanno votato “5 stelle” siano d’accordo con certi metodi; e poi il gioco allo sfascio è sempre pericoloso per tutti, compresi quelli che lo praticano. In effetti, si è vista una cosa diversa dell’ostruzionismo, che pure appartiene alla tradizione parlamentare.
Quello classico, dicono i testi, è il disegno dilatorio posto in atto da gruppi di minoranza per ritardare o impedire l’applicazione di una legge. E questo è noto all’esperienza parlamentare, che ne ricorda esempi clamorosi (il Patto Atlantico, la legge “truffa”, e molti altri, non sempre “pacifici”); in qualche modo fa parte anch’esso della tradizione parlamentare, così come ne fanno parte gli strumenti che, in mille occasioni, sono stati posti in essere per vanificarlo: ci sono state modifiche ai regolamenti parlamentari, sono stati sperimentati “rimedi” sul campo, come l’allungamento delle sedute, le votazioni cosiddette “a scalare”, e così via; e sempre ai Presidenti delle Camere è toccato il compito e il dovere di garantire e assicurare comunque la funzionalità del Parlamento. Leggi tutto “Linguaggio e politica. Smuraglia: superato il limite”

Oggi, settant’anni fa, i fascisti uccidevano Leone Ginzburg

leoneginzburg2Leone Ginzburg (Odessa 1909 – Roma 1944)

Riproponiamo qui il testo che abbiamo scritto nel novembre scorso per gli ottant’anni della casa editrice Einaudi.

«Questa mia traduzione è nata nelle circostanze seguenti».
Il primo nome che ci è venuto in mente quando dalla casa editrice ci hanno chiesto un pugno di righe – un ricordo, uno spunto, qualcosa – sull’ottantennale della fondazione dell’Einaudi, è quello di Leone Ginzburg. A seguire, quello di Proust. Perché?
Perché nel giro di ventiquattr’ore si celebrano il centenario della pubblicazione di Du côté de chez Swann (14 novembre 1913) e l’ottantennale dell’Einaudi (il giorno dopo).
E perché c’è un collegamento forte tra Leone Ginzburg, la sua persecuzione da parte dei nazifascisti, la tragica fine a Regina Coeli… e la Recherche.
La traduzione «classica» del primo tomo della Recherche, quella che l’Einaudi continua a pubblicare (oggi nella Biblioteca ET) è di Natalia Ginzburg. Gran parte del lavoro fu svolto nel 1940 a Pizzoli, in Abruzzo, dove Natalia era al confino con il marito Leone. I volumi della Recherche, in un’edizione di gran lusso, li avevano ricevuti come regalo di nozze. Dopo l’Armistizio – del quale è appena ricorso il settantennale, quanti anniversari con la cifra tonda! – i Ginzburg lasciarono il confino, ma i fogli della traduzione rimasero a Pizzoli. Leone andò a Roma, incontro alla Resistenza e alla morte. Della quale è prossimo il settantennale.
Scrive Natalia:
«Per molto tempo, non pensai più a quei fogli protocollo. Se a tratti m’avveniva di ricordarli, ricordavo soprattutto il tempo felice trascorso. Leone era morto e la quiete di quei pomeriggi che passavo a tradurre apparteneva a un’età perduta».
Ma i fogli si erano salvati. Natalia poté recuperarli a guerra finita, e terminare la traduzione.
Quanto c’è di quell’età perduta nel lavorio di Natalia sul francese e sull’italiano? Quanto della quiete al confino, e poi della guerra, della morte, della perdita? Quali parole fanno da «spia» dell’esperienza vissuta?
Quanto c’è di Leone nella traduzione di Natalia?
Natalia scrive:
«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario, anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».
Lezione più significativa e politica di quel che sembra. Il fascismo, con la sua retorica tronfia e tonitruante, delle parole e dei significati aveva fatto strame. E oggi non siamo messi molto meglio. Imperano «neolingue» eufemistiche, la cui unica funzione è ottundere. La lezione di Leone è più utile che mai.
Se, pensando alla fondazione dell’Einaudi, il primo ad apparirci è stato lui, vorrà pur dire qualcosa.
Leone Ginzburg, perseguitato e ucciso dai fascisti.
Fascisti. Fascismo. Eccole, due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.
Storie dell’Einaudi, storie nel catalogo Einaudi. Un catalogo dove Proust, morto prima della Marcia su Roma, ha voce d’antifascista.
Del resto, lo scrisse un allora fascistissimo Bargellini su un numero del Frontespizio nel 1936:
«Chi ama Proust non può amare la serenità e la virilità italiana».
Dove «italiana», come ancora oggi spesso accade, sta in realtà per «fascista».
Italia. Italiano. Ecco altre due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.

(da http://www.wumingfoundation.com)

Italiani mala gente (di Franco Giustolisi)

grecia3Ha condotto l’azione «con calma, implacabile energia ed intelligenza». Sono le precise parole di una proposta di encomio solenne per un tenente colonnello che durante l’ultima guerra guidò un’operazione militare nella Grecia occupata. Le parole le scrisse il comandante della divisione Pinerolo, il generale Cesare Benelli. L’ufficiale da encomiare era il tenente colonnello De Paula. Ma l’ufficiale non aveva guidato un’azione particolarmente rischiosa o impegnativa. Non aveva combattuto contro «soverchianti forze nemiche», come spesso si legge nelle motivazioni di medaglie ed encomi. Aveva “solo” messo a ferro e fuoco un paese, Domenikon, in Tessaglia, uccidendo gli uomini, bruciando le case, deportando donne e bambini. Un crimine di guerra commesso da soldati italiani sul quale sta adesso indagando la procura militare di Roma.
Tutto avviene il 16 febbraio 1943, in Tessaglia, appunto. Un’autocolonna italiana che trasporta viveri viene attaccata da quello che viene definito un “gruppo di banditi”, cioè di partigiani greci che combattono contro gli occupanti italiani. La battaglia termina con la rotta degli assalitori. Ma da dove sono arrivati i partigiani? La località abitata più vicina è Domenikon e gli italiani immaginano che da lì siano venuti i “banditi”. Gli uomini della Pinerolo agiscono immediatamente. Radunano e massacrano tutti i maschi di più di 14 anni che vi abitano. Le poche case vengono date alle fiamme. La chiesa viene risparmiata, le donne avviate in un campo di concentramento. Il generale Benelli si vanta di quell’azione, dice che è «esempio e monito per il futuro» e nelle conclusioni del rapporto scrive che «le perdite sono le seguenti, da parte nostra. Morti in combattimento:
truppa 8: morto in ospedale in seguito alle ferite, truppa 1. Feriti: 2 ufficiali, truppa 13. Da parte dei greci. Morti durante lo scontro: 8. Sbandati raggiunti e passati per le armi dalla scorta dell’autocolonna: 7. Rastrellati dalla compagnia di rinforzo e passati per le armi: 16. Passati per le armi perché cercavano di fuggire dall’accerchiamento: 4. Passati per le armi da reparto inviato da Tyrnavos: 8. Passati per le armi a Damasi: 97 (sono i cittadini di Domenikon, ndr.). In totale 140 sudditi greci deceduti».
I documenti su questa storia erano stipati in quello che può essere definito un “carrello della vergogna”. Un carrello grande, a due piani, di quelli che servono a portare faldoni da un ufficio all’altro e nascosto in un angolo della Procura militare, non molto lontano dall’“armadio della vergogna”. L’armadio aperto nel 1994 e di cui parlò per primo “l’Espresso”con l’articolo “Dieci, cento, mille Ardeatine” di Alessandro De Feo e mio. Un armadio della procura militare rimasto per decenni con le ante rivolte verso il muro e dentro, «archiviati provvisoriamente», 695 fascicoli sulle stragi commesse in Italia dai nazisti. Vi vennero chiusi nel 1960 per una sorta di patto segreto tra Italia e Germania. Nessun processo per i nazisti, nessun processo, in cambio, contro i fascisti colpevoli di crimini di guerra nei paesi aggrediti da Mussolini. Nel carrello della vergogna, infatti, insieme al fascicolo sulla strage di Domenikon ce ne sono molti altri relativi alle tante stragi commesse, durante l’ultima guerra, dai militari italiani.
Il fascicolo su Domenikon adesso è sul tavolo del procuratore militare di Roma, Marco De Paolis. E i fatti sono ricostruiti nel diario della divisione Pinerolo che, comandata dal generale Cesare Benelli, era di stanza nella Grecia occupata. A far riemergere questa storia è stato un documentario di Giovanni Donfrancesco (mai trasmesso dalla Rai), “La guerra sporca di Mussolini”. La Procura militare di Roma apre l’inchiesta, ma poi
la chiude frettolosamente con doppia motivazione: «Il generale Benelli è deceduto e manca la parità di tutela penale da parte dello Stato nemico a norma dell’art.165 del Codice militare di guerra». A parte il fatto che sarebbe stato opportuno scrivere Stato ex nemico, molti magistrati contestano l’applicabilità di quell’articolo, un articolo chiamato “salva-tutti”, perché riguarderebbe il rapporto tra militari e militari e non tra militari e civili.
Ma per fortuna il tempo non basta a soffocare l’anelito di giustizia che è una delle colonne portanti della democrazia. E così a Marzabotto, nel giorno della ricorrenza della strage, l’8 ottobre di due anni fa, un distinto signore avvicina l’attuale procuratore militare della Repubblica di Roma, Marco De Paolis. Si chiama Efstathios Psomiades, è il rappresentante delle famiglie delle vittime di Domenikon. Chiede giustizia, fa un discorso di questo tipo: qui in Italia, a gran voce, si chiede che vengano puniti i criminali nazisti responsabili di questo e di tanti altri massacri. Ma i fascisti sono ugualmente colpevoli di delitti simili. Perché non si procede anche contro di loro? Al suo ritorno a Roma De Paolis consulta quei vecchi fascicoli e riapre l’inchiesta chiusa circa cinque anni prima dal suo predecessore Antonino Intelisano, poi promosso al massimo grado di procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. Va ricordato che De Paolis ha riavviato le inchieste su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano e molte
altre stragi, chiedendo ed ottenendo, sinora, sessanta ergastoli. Di nazisti colpevoli ne sono rimasti in vita una quarantina, ma Germania e Austria non vogliono “disturbarli”, vivono tranquillamente nelle loro case.
Per Domenikon De Paolis ha aperto un procedimento a carico di ignoti alla ricerca di qualcuno della divisione Pinerolo ancora in vita. A oggi, a quanto pare, i carabinieri hanno scovato solo un novantacinquenne, ex sottotenente di quella divisione, che però non si trovava allora in quel teatro di operazioni. Ma l’inchiesta continua. (di Franco Giustolisi da “L’Espresso)

La guerra sporca di Mussolini: http://youtu.be/_ttQKhut4vo