30 marzo 1939: Strage di Zeret

142055_2350346_ETIOPIA_PR_11009321_displayE’ il 30 marzo del 1939 e la guerra in Etiopia è ormai in corso da tre anni. L’areonautica italiana ha intercettato un consistente numero di “ribelli” e fornito le coordinate a una colonna di militari che si mettono all’inseguimento. Ma non si tratta di un’operazione di ordinaria controguerriglia. Non che tra gli etiopi in fuga non vi siano combattenti: c’è ad esempio Tesciommè Sciancut, un capo cui gli italiani danno la caccia da tempo. Ma la maggior parte dei fuggiaschi – un fatto che gli avieri devono aver notato – è composta di feriti, anziani, donne e bambini parenti degli uomini in arme. Quelli che oggi definiremmo “sfollati”, civili in fuga dall’orrore della guerra.
Trovano rifugio in una grande grotta nella regione di Gaia Zeret-Lalomedir. La caverna sembra un rifugio sicuro, non solo per l’ampiezza ma per la difficoltà di penetrarne gli anditi più reconditi, dove è facile nascondersi nell’oscurità del vasto labirinto sotterraneo. Ma, dopo un lungo assedio, con un accorto e spericolato operativo, gli italiani hanno la meglio. Calano dall’alto sull’imboccatura dell’anfratto alcuni bidoncini di iprite, gas che provoca morte e ampie lacerazioni, già ampiamente usato dalla nostra aviazione. “Il mio compito – scrive nel suo diario il sergente maggiore Boaglio che, nel commando italiano, ha il compito di calare e poi far detonare l’iprite all’ingresso della grotta – era far scendere e scoppiare i bidoncini…nel punto di entrata della caverna, in modo da ypritare tutto il terreno, impedendo così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente….”. Ma quando, dopo una notte, gli etiopi ancora non si sono arresi “si scatenò l’inferno”, scrive ancora Boaglio. Mitragliatrici, lanciafiamme, granate e proiettili lacrimogeni. Gli etiopi si arrendono, uscendo in massa dalla grotta, almeno quelli che già non sono stati uccisi dal gas e dai proiettili.
Paradossalmente Sciancut e una quindicina di partigiani riescono a scappare mentre gli italiani dividono, all’uscita, gli uomini da donne e bambini. I primi vengono mitragliati a gruppi di cinquanta sull’orlo del burrone (in pratica vengono infoibati, tanto per usare un termine che in questo caso non è usato a sproposito) che farà loro da tomba. Gli altri vengono risparmiati, ma su di loro marcia inesorabile l’effetto dell’iprite, gas vietato dalle convenzioni internazionali. L’11 aprile è tutto finito. Il bilancio delle vittime si stima tra i 1200 e i 1500.  Una storia rimasta ignota fino a qualche anno fa, quando un giovane storico, Matteo Dominioni, non si imbatte nei documenti che descrivono la strage all’Ufficio storico dello stato maggiore a Roma e, in seguito, nel diario inedito di Boaglio. Il suo lavoro di ricerca (anche sul campo) è testimoniato dal libro “Lo sfascio dell’Impero – Gli italiani in Etiopia 1936-1941” con la prefazione di Angelo Del Boca.
Matteo Dominioni, per questo libro, è stato violentemente attaccato dall’Associazione Nazionale Alpini e dal presidente della Camera di quei tempi, Gianfranco Fini: uno di quelli che attaccarono le grotte di Zeret alla testa del XX battaglione Eritreo, era un illustre eroe della prima guerra mondiale e un “eroe del Polo” come veniva chiamato dalla sua gente, il maggiore degli alpini Gennaro Sora. Questa la descrizione del massacro in una delle pagine “vergogna” di wikipedia:
“Nell’aprile del 1939 al comando del XX Battaglione Eritreo eliminò, nella cosiddetta Battaglia della Grotta Cajá-Zeret, un grosso gruppo di combattenti Etiopici guidato da Teshome Sciancut, tra i luogotenenti di Abebe Aregay, un fedele del Negus. La battaglia fu aspra e culminò con la resa degli assediati dopo la fuga di Teshome, dopo che pezzi d’artiglieria caricati con fosgenina e iprite avevano contaminato tutta l’acqua a disposizione dei circa 1500 assediati.” Non si parla di morti e sembra che gli italiani fossero impegnati in un operazione contro militari ben armati, sorvolando sugli effetti dell’iprite sui corpi umani.
A Foresto Sparso (BG), comune di nascita del maggiore, il comune ha dedicato una statua a Sora e ogni anno gli alpini vengono ad omaggiare il loro “leggendario” comandante. Di Affile in Italia ce ne sono molte.

Un intervista a Matteo Dominioni

24 marzo 1944: Strage delle Fosse Ardeatine

Eccidio-fosse-ArdeatineRoma, presso le antiche cave di via Ardeatina il 24 marzo 1944 si consuma l’eccidio di 335 civili e militari italiani per mano nazista.
Ad organizzare ed eseguire la strage sono l’ufficiale delle SS Herbert Kappler all’epoca anche comandante della polizia tedesca a Roma, il capitano Erich Priebke e Albert Kesselring.
L’eccidio matura come rappresaglia per vendicare 33 militari tedeschi morti in un attentato partigiano a via Rasella il 23 marzo. I tedeschi, dietro ordine diretto di Hitler, applicano alla lettera il principio di fucilare 10 ostaggi italiani per ogni tedesco ucciso. Vengono per errore inseriti 5 nomi in più alla lista.
L’esecuzione, che avviene con un colpo alla nuca, è di proporzioni enormi tanto che gli stessi comandi nazisti la rendono pubblica, insieme all’attentato partigiano, solo a cose fatte e dopo aver fatto saltare le cave con delle mine per rendere più difficoltoso il ritrovamento dei corpi.
Le vittime, prelevate dal carcere di Regina Coeli e dal comando di via Tasso,  sono per lo più partigiani e antifascisti o presunti tali, militari, ebrei, ma non mancano detenuti comuni.
I tedeschi hanno così anche infranto il patto con gli Alleati di considerare Roma ‘città aperta’, in modo da evitare coinvolgimenti della popolazione civile. Infatti gli angloamericani entreranno nella capitale una volta ritirati i tedeschi.

Le Fosse Ardeatine nel racconto teatrale di Ascanio Celestini dal Museo di Via Tasso a Roma:
“Rispetto ad altri massacri nazifascisti, come quelli di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema, quella strage romana ha perfino un minor numero di vittime. Ma la sua storia non è scritta, vive solo di racconti orali, attraverso cui lo conoscono la maggior parte delle persone. E’ questo il punto centrale del mio interesse: la storia collettiva esce fuori da testimonianze singole e parziali, che però collegate danno una verità unitaria, chiarissima e inconfutabile. Il mio racconto in scena, a sua volta, cala questo episodio nella storia più vasta di una città e di un intero paese, fino a quel momento estremo, cruciale e rivelatore”.

Peter Kolosimo, 30 anni «across the universe» (1984 – 2014)

Kolosimo500pxCos’è la tua più grande paura?
Il fascismo.
E cosa fai, concretamente, per eliminarlo?
Poco, troppo poco.
(Kolosimo intervistato da Playboy, novembre 1974)

Chi ha dai quarant’anni in su ricorda senz’altro Peter Kolosimo, «fantarcheologo», ufologo, sessuologo (!), esploratore del meraviglioso e divulgatore scientifico che negli anni ’60 e ’70, coi suoi libri visionari, fece sognare le moltitudini. Morì il 23 marzo 1984, a sessantadue anni, ma a noi piace pensare che abbia solo lasciato il pianeta, e sia tuttora in viaggio per l’universo.
Ecco una cosa che molti hanno dimenticato: Peter Kolosimo era un comunista di quelli duri. E chissà che l’anno scelto per abbandonare la Terra – il simbolico, fatidico 1984, quello di Orwell e della Thatcher che reprimeva lo sciopero dei minatori – non sia già una dichiarazione, un messaggio da decifrare: il movimento operaio ha perso, riprende il dominio incontrastato dei padroni, si impone il totalitarismo del mercato e io vado, vado in avanscoperta, vado in cerca di altri mondi.
Lo diciamo da anni: Kolosimo è una figura da riscoprire, su cui interrogarsi, che può ancora dire e dare molto. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo addirittura cantato.
Kolosimo fa parte di un mondo tipicamente Seventies, vivente nell’intersezione tra marxismo e scienze “altre”, tra UFO e rivoluzione.
Pur nelle diversità d’approccio, il suo percorso è parallelo a quello del leggendario trotskista italo-argentino Juan Posadas (1912 – 1981). Kolosimo indagava il passato, le origini extraterrestri delle civiltà umane; Posadas vaticinava l’avvenire, gli UFO ci parlavano di una società futura comunista. Entrambi dicevano, ciascuno a suo modo: gli alieni vivono in noi, siamo noi quegli «spaziali» di cui tutti parlano.
Terra senza tempo, Non è terrestre, Astronavi sulla preistoria, Odissea stellare, Italia mistero cosmico… Titoli che non smettono di accendere fantasie. E quegli elenchi in copertina, a metà tra sottotitolo e “catenaccio” di giornale? «Ulisse vagabondo del tempo. Gli dei e lo spazio. Ciclopi in America? Mitologia d’altri mondi. Atomiche e robot nell’epopea omerica». Oppure: «Veicoli spaziali graffiti nella roccia. Marziani in Vietnam, elefanti in America. Razze sconosciute nelle giungle amazzoniche. Atomiche e laser prima del diluvio. Gilgamesh vive ancora?». Per non dire di “strilli” come: «La prima completa documentazione fotografica di archeologia spaziale – 300 illustrazioni». Copertine geniali, che ti spingevano a prendere subito posizione: rigetto veemente o febbrile voglia di acquisto, non c’era via di mezzo.
Quei libri, editi da SugarCo, erano grande narrativa popolare travestita da saggistica, li vedevi in tutte le case, vendevano centinaia di migliaia di copie. Peter Kolosimo è uno degli autori italiani più tradotti nel mondo, pubblicato in 60 paesi.
Attenzione, però, a non confonderlo coi vari Voyager e Kazzenger odierni, coi pataccari che ce la smenazzano a colpi di piramidi magiche e Priorati di Sion, con le vagonate di ricostruzioni paranoidi e complottiste disponibili in rete. Kolosimo odiava Dan Brown ante litteram (anzi, ante nominem). E odiava anche Giacobbo. Preventivamente, senza averne mai sentito parlare. Lo avrebbe mandato in Siberia, lui e il suo chupacabra. Kolosimo era un marxista-leninista visionario, un comunista duro e impuro. Credeva nella rivoluzione, e pensava che le scoperte sulle origini extraterrestri delle civiltà umane avrebbero contribuito alla nostra consapevolezza. Voleva collegare passato remoto e futuro utopico, e così liberare il mondo. Il suo interesse per i dischi volanti – solo uno dei tanti argomenti di cui si occupò – era nutrito da questa passione politica. Senza di essa, cosa sarebbe rimasto? Una messe di poveri, sconnessi aneddoti raccolti da cialtroni e dementi. Persone che già all’epoca Kolosimo teneva a distanza:
«Quando avvistano dei dischi volanti, alla radio qualche volta mi hanno chiamato, mi son trovato ad aver a che fare con dei pazzoidi, che credono in queste cose ciecamente, vedono i venusiani belli biondi e alti, vedono i marziani preoccupati delle esplosioni atomiche e vedono i saturniani che si avventano sulla terra per conquistarla, insomma tutte queste panzane, mi sono trovato un paio di volte ad aver a che fare con questi tipi, completamente pazzi, come quel siciliano che sulle pendici dell’Etna aveva una villa e raccoglieva attorno a sé i suoi fedeli…» (1974, cit.)
In Odissea stellare (1978), Kolosimo riporta le credenze di alcuni occultisti, secondo i quali il regime di Hitler cadde perché aveva attirato su di sé la sventura, orientando la svastica a destra anziché a sinistra come nelle antiche tradizioni orientali. Il commento è una staffilata: «Noi siamo assai lontani da tali concetti ed attribuiamo a ben altre ragioni la caduta dell’impero dei criminali tedeschi.» Poteva ben dirlo, lui che il nazifascismo lo aveva combattuto mitra alla mano.
Nulla dell’approccio politico che correva “sottopelle” nei suoi libri, nulla di quella radicalità sopravvive nei suoi epigoni odierni, quelli che vedi intervistati su Focus TV: von Däniken, Hancock… Ogni spigolo è stato smussato, l’eresia si è fatta telegenica, ma si sa che the revolution will not be televised.
«L’educazione politica me la son fatta in gran parte in Jugoslavia, quando la Jugoslavia era ancora comunista, ho fatto scuola di partito per due anni […] Sono simpatizzante di Lotta continua, perché penso che anche la sinistra debba avere le sue punte avanzate, voto ovviamente PCI, ma non sono militante perché non me la sento né di partecipare alla vita politica del PCI, almeno com’è adesso, non me la sento assolutamente, e purtroppo d’altra parte non ho neanche il tempo di seguire la vita politica di Lotta continua perché esige lavoro. Io ho fatto un po’ di lavoro politico a Torino, con Soccorso rosso, ero nella commissione delle case, e nell’ambulatorio, però per finire in niente, perché per queste cose bisogna avere molto tempo.» (1974, cit.)
Kolosimo era poliglotta e cittadino del mondo. Madre statunitense, padre italiano e ufficiale di carriera nei Carabinieri, entrambi detestati:
«Mia madre [era] come un generale delle SS […] Un iceberg […] Io non ho mai avuto un padre. No, non l’ho mai avuto. L’ho conosciuto così, dicevano che era mio padre» (Ivi).
Cresciuto a Bolzano, si laurea a Lipsia in filologia moderna (ma più tardi approfondirà gli studi di psicologia e sessuologia e praticherà l’ipnosi medica). Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, lo ritroviamo carrista nella Wermacht, ma diserta e si unisce alla resistenza in Boemia. E’ «uno dei primi partigiani che, fra Pilsen e Pisek, incontrò l’Armata Rossa» (dalla scheda biografica di Civiltà del silenzio).
In quella temperie diventa comunista e, com’è normale, dopo la guerra il suo sguardo si sposta verso est. E’ l’unico giornalista italiano presente alla cerimonia di proclamazione della DDR. Per un po’ dirige Radio Capodistria, ma dopo la rottura con l’URSS è licenziato perché «cominformista», ovvero filosovietico. E’ corrispondente estero per L’Unità, annuncia il lancio del primo Sputnik «un mese prima di quella memorabile impresa» e dà per primo la notizia del volo spaziale di Valentina Tereskova. I suoi articoli escono senza firma, precauzione da fase glaciale della guerra fredda. Intanto scrive romanzi di fantascienza con lo pseudonimo di Omega Jim, finché, negli anni ’60, non passa armi e bagagli alla divulgazione scientifica, con quella torsione fantastica che lo renderà celebre.
I libri di Kolosimo sono pieni di pezze d’appoggio di scienziati russi, bulgari, tedesco-orientali: «Il professor Alexei Kasanzev» [probabilmente si tratta dello scrittore e ufologo Alexander Kasantsev], «Kardasev scrive…», «Il biologo sovietico A. Oparin», «Il sovietico Nikolai Brunov scrisse già nel 1937», «Viaceslav Saitsev, il noto filologo dell’Accademia delle Scienze bielorussa» e via così. Oggi possono suonare grottesche, muovere al riso o a ipotesi estreme: Kolosimo agente del blocco orientale, incaricato di diffondere in occidente strane teorie, per loschi fini di guerra psicologica? Mah. Forse la questione è più semplice: leggeva quelle lingue, aveva accesso a quel materiale, e ai suoi lettori la cosa piaceva. Durante la guerra fredda, vista da qui, la scienza sovietica aveva un che di bizzarro, una vibrazione di esotica eterodossia, anche agli occhi di chi si batteva per l’altro modello, quello capitalista-americano. La curiosità per l’est fu un fenomeno trasversale, come lo sono oggi l’ostalgia e il modernariato del socialismo che fu.
A noi piace reputare Kolosimo un guerriero, uno che ha combattuto perché l’immaginario non si restringesse e, al contempo, la fantasia (anche quella più sbrigliata) tenesse le radici nella realtà, nel conflitto che senza pause muove la società. In fondo, nonostante il suo stalinismo, Kolosimo non era tanto distante da Radio Alice e dai giovani “mao-dadaisti” del ’77.
Kolosimo colmò un buco, una lacuna, una gigantesca nicchia di immaginario e mercato editoriale. In quell’epoca, gli intellettuali avevano decretato la “morte del romanzo”. Non per questo si era estinto il bisogno di romanzesco: in edicola, Urania, Segretissimo e Il Giallo Mondadori vendevano un numero di copie oggi impensabile. Tuttavia, erano pubblicazioni settoriali, rivolte a target di lettori specifici. C’era bisogno di un’operazione azzardata, che scavalcasse i recinti e andasse incontro ai bisogni di più lettori.
Kolosimo intercettò la voglia di viaggio e di mistero che pervadeva tutto l’occidente (gli UFO, il triangolo delle Bermude, Uri Geller che piegava i cucchiaini con la forza del pensiero) e la “dirottò” in una direzione inattesa. Camuffando da saggi divulgativi le sue narrazioni fantascientifiche, il vecchio Omega Jim creò un grande fenomeno di costume.
Particolare non secondario, scriveva in modo magnifico:

OmbreSulleStelle2Nel 1969, Non è terrestre vinse il Premio Bancarella. Nel giro di pochi anni, lo avrebbero vinto Andreotti (1985), Sgarbi (1990), Zecchi (1996), Pansa (1997) e persino Bruno Vespa (2004). Compagno Kolosimo, ci manchi tanto. Torna dal pianeta su cui ti trovi ora, e scatena contro l’Italia un uragano di raggi cosmici.

letteraKolosimo

Una lettera di Kolosimo a «L’Unità», 21 settembre 1975. Perché non andrà a presentare i suoi libri nella Spagna franchista. «Mi è impossibile accettare l’invito. Sono comunista e non posso parlare in un Paese il cui governo imprigiona e condanna a morte i miei compagni con tutti coloro che lottano per i diritti dell’uomo.»

Da http://www.wumingfoundation.com

18 marzo 1944: strage di Monchio Susano Costrignano e Savoniero

Monchio_1944Il 9 marzo 1944 nei pressi di Savoniero avvengono degli scontri fra i Partigiani e soldati nazifascisti, conclusosi con la morte di 7 fascisti, il 16 ed il 17 marzo avvengono altri scontri vicino al Monte Santa Giulia dove stazionano i partigiani, nello scontro muore un ufficiale nazista e alcuni soldati. A questo punto i tedeschi mandano nella zona un reparto di paracadutisti sotto il comando del capitano Kurt Cristian von Loeben, e truppe della G.N.R. di Modena, che circondano la valle. Al mattino del 18 marzo queste truppe iniziano a cannoneggiate a ripetizione le frazioni di Monchio, Susano e Costrignano, gli abitanti di queste zone cercano la fuga ma rimane difficile effettuarla per l’intenso bombardamento a cui è sottoposta tutta la zona, in seguito i tedeschi muovono i mezzi corazzati verso le frazioni e per mezzo di segnali luminosi informano l’artiglieria sulle zone ancora da colpire. Quando tutti i mezzi corazzati raggiungono le frazioni cessano i colpi di artiglieria, e inizia un vero massacro, le case vengono razziate come pure gli animali, e le persone che vengono trovate uccise, a parte gli uomini che servono ai nazisti per trasportare la roba saccheggiata, finito lo sterminio si conteranno 139 civili morti fra i quali ci sono sei bambini che avevano meno di 10 anni, sette ragazzi fra i dieci e i sedici anni, sette donne fra le quali una è in avanzata gravidanza, e venti persone con più di sessanta anni.

Strage_di_Monchiohttp://www.valledellamemoria.com/

Le foto del “Parco della Memoria”: http://imgur.com/a/NAuha

Bruno Maran “Una lunga scia color cenere”

maran2Venerdì 14 marzo alle ore 20.45, presso la sala conferenze di Villa Errera, Bruno Maran presenterà il suo libro “Una lunga scia color cenere – Fatti e misfatti del Regio Esercito ai confini orientali”.

“Una lunga scia color cenere” non vuol essere un libro di storia, né un manuale. Vuol essere un modo semplice di entrare, con l’approccio più accessibile possibile, nei fatti. Con la voglia di uscirne con le idee più chiare e con l’interesse a continuare l’approfondimento, nonostante gli inevitabili errori o imprecisioni che un lavoro propedeutico contiene.
A poco servono i Giorni del Ricordo, monopolio di odi mai sopiti, di gruppi decisi a non voler dimenticare solo per giustificare la loro esistenza, di ricordi usati più per attaccare che per giustificare. Non sono certo le calunnie e le falsità, le pietre su cui fondare il senso del Ricordo, che invece deve basarsi sulla Verità anche se scomoda. Il tempo deve lenire il dolore, non rinfocolare continuamente il passato.

“Sul muro scrostato qualcuno aveva scritto ŠMRT FAŠIZMU
con la vernice rossa.
Li avevano messi in fila lì davanti.
Dalle facce non trapelava niente. Chiuse, assenti.
Come le finestre del villaggio.
Il capitano strillò l’ordine alla compagnia. I militari italiani si schierarono, fucili in spalla. Quasi tutti riservisti.
L’ufficiale era il più giovane, baffi ben curati e bustina di stoffa grigia inclinata sulla fronte.
I condannati alzarono gli occhi per guardare in faccia i carnefici. Essere certi che fossero uomini come loro.
Erano abituati alla morte, anche alla propria, assuefatti da    migliaia di generazioni trascorse.
Dall’altra parte occhi bassi, sensazioni riflesse allo specchio.
Le due fila si fronteggiarono immobili, come statue abbandonate sul prato…”

Bruno Maran – fotoreporter di Stampa Alternativa – Il grande amore per i Balcani, maturato con i reportage da Mostar a Sarajevo, da Srebrenica a Vukovar, a Jasenovac, dal Kosovo, dall’Albania, da Kragujevac sulla Zastava, ora Fiat, lo ha spinto ad approfondire la conoscenza dei fatti storici,che hanno preceduto gli eventi nella ex-Jugoslavia, con particolare riferimento all’operato degli eserciti italiani durante la Seconda guerra mondiale.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa registrazione dell’incontro:

http://roaming-initiative.com/mediagoblin/u/kiba957/m/bruno-maran/

Oggi viene presentata al Parlamento la nuova legge elettorale

costituzione_italianaLA VERITÀ SULLA LEGGE ELETTORALE

La legge elettorale attualmente all’esame del Parlamento presenta gli stessi caratteri di incostituzionalità sentenziati dalla Corte Costituzionale per il porcellum; deve essere radicalmente modificata oppure respinta:

– La composizione del Parlamento deve rispecchiare le opinioni dei cittadini; invece con il cosiddetto ‘premio di maggioranza’ si distorce la volontà degli elettori assegnando al primo turno la maggioranza assoluta a una lista o una coalizione rappresentativa anche solo del 37% dei voti validi; così il voto non è ‘uguale’ perché occorrono meno voti per eleggere un parlamentare della maggioranza che uno della minoranza;
– Il ricorso a un secondo turno di ‘ballottaggio’ nazionale nel caso in cui nessuno raggiunga la soglia del 37% aumenta ulteriormente la falsificazione della volontà popolare, assegnando comunque la maggioranza assoluta a un partito o una coalizione, indipendentemente dai voti ottenuti al primo turno (per esempio, anche solo il 20%); nemmeno la legge Acerbo voluta da Mussolini c’era arrivata;
– a causa delle soglie di sbarramento stabilite per liste e coalizioni saranno esclusi dal Parlamento milioni di elettori (l’8% minimo necessario per ottenere seggi per i partiti che si presentano da soli corrisponde, sulla base del voto del febbraio 2013, a quasi 3 milioni di elettori)
– con le liste bloccate e l’assegnazione dei seggi su base nazionale si impedisce agli elettori di esprimere la propria fiducia in uno specifico candidato; la legge proposta rende estremamente difficoltoso il rapporto fra elettori ed eletti, che vengono individuati su base nazionale con un procedimento complesso e difficilmente comprensibile; il meccanismo distorsivo può perfino impedire l’elezione di candidati che abbiamo ricevuto nei loro collegi la maggioranza dei voti, ma appartengano a partiti che non raggiungono la soglia minima a livello nazionale, tradendo completamente la volontà degli elettori
– con l’assegnazione della maggioranza assoluta a una coalizione o un partito si annullerà di fatto il potere di designazione del Presidente del Consiglio da parte del Presidente della Repubblica (art. 92 Cost); si trasformerà il Parlamento in un organo di mera ratifica della volontà deil’Esecutivo, ampliando il ricorso alla decretazione d’urgenza; si limiterà o annullerà l’indipendenza degli organismi di garanzia (come la Corte Costituzionale) che saranno omogenei alla maggioranza parlamentare;

Tutto questo non garantisce assolutamente la stabilità dei Governi e non limita il ‘potere di ricatto’ dei partiti minori o delle ‘correnti’, perché un gruppo di parlamentari può comunque sempre votare contro il Governo, causandone la caduta. Serve soltanto a imporre per legge la cancellazione del pluralismo delle idee, ad esempio su come uscire dalla attuale crisi socio-economica e non subire i ricatti della finanza intemazionale.
Pretendiamo il rispetto della Costituzione, facciamo valere la nostra volontà di cittadini, chiediamo una legge elettorale che ci restituisca il potere di scegliere parlamentari onesti e competenti.

RETE PER LA COSTITUZIONE – e-mail: [email protected] – Facebook: Rete per la Costituzione

La legge Acerbo del 1923

Un articolo di Paolo Ferrero su “Il Fatto Quottidiano” (Giacomo Matteotti con questa legge probabilmente non sarebbe mai stato assassinato, per il semplice motivo che non sarebbe stato eletto in Parlamento)

4 marzo 1999: assolti i responsabili della strage del Cermis (20 morti)

“La causa dell’incidente è stata un errore della crew (equipaggio). Ha manovrato aggressivamente l’aereo, superando la velocità massima di 100 miglia all’ora e scendendo molto più in basso dei 1000 piedi di altezza. Lo schianto non è frutto del caso, perché l’equipaggio ha volato più basso e più veloce di quanto consentito”. Un’ammissione totale di responsabilità quella contenuta nel rapporto investigativo redatto dal generale dei Marines Peter Pace che imputa all’aviazione americana tutta la colpa della tragedia del Cermis, quando, il 3 febbraio 1998, un caccia statunitense trancia il cavo della funivia di Cavalese (Trento) uccidendo venti persone.
Il rapporto è stato redatto dalle forze Usa solo un mese dopo l’incidente, ma La Stampa è riuscita ad entrarne in possesso solo oggi. Scrive Pace: “Raccomando che vengano presi i provvedimenti disciplinari e amministrativi appropriati nei confronti dell’equipaggio, e dei comandanti, che non hanno identificato e disseminato le informazioni pertinenti riguardo ai voli di addestramento. Gli Stati Uniti dovranno pagare tutte le richieste di risarcimento per la morte e il danno materiale provocato dall’incidente”.
Insomma, le forze armate americane sono responsabili di quanto accaduto e devono risponderne. Tutta la catena di comando: dai quattro membri dell’equipaggio fino ai comandanti della base militare americana di Aviano, da dove l’aereo si è alzato in volo.
Ma le cose vanno diversamente. Subito dopo il disastro, la magistratura italiana chiede di processare i quattro membri dell’equipaggio, ma, in base alle leggi Nato, ad avere la giurisdizione è la giustizia militare a stelle e strisce. Nonostante l’allora primo ministro Massimo D’Alema abbia chiesto formalmente agli Stati Uniti di rinunciare alla giurisdizione sui quattro membri dell’equipaggio, il processo si celebra in America. All’inizio sono incriminati tutti e quattro i membri della crew, ma il processo procede solo per il pilota Richard Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer. Il 4 marzo del 1999 il primo viene assolto, mentre la giuria fa cadere le accuse a carico del secondo ufficiale. Esattamente un anno dopo che il rapporto investigativo redatto dal generale Pace li inchiodava alle loro responsabilità. Ma c’è di più. Sì perché i militari non solo hanno violato i regolamenti per i voli di addestramento uccidendo 19 turisti e un lavoratore, ma hanno anche inquinato le prove. A bordo del velivolo c’era infatti una telecamera con cui l’equipaggio aveva girato un video della missione. Peccato che una volta a terra, il filmato fosse stato cancellato. I due vengono giudicati colpevoli per avere “ostruito la giustizia”, per avere avuto “una condotta impropria per un ufficiale e gentiluomo” e vengono dimessi dalle forze armate. Il pilota viene condannato a sei mesi di carcere (ne sconterà quattro e mezzo per buona condotta), il suo vice non fa neanche un giorno di galera.
E i risarcimenti per i familiari delle vittime? I primi soldi li elargisce il governo italiano nel febbraio 1999, 65mila euro per ogni vittima. Una legge che prevede lo stanziamento di 40 milioni di dollari viene bocciato dal Congresso americano e nel dicembre dello stesso anno il Parlamento italiano eroga 1,9 milioni di dollari. Cifra che, secondo gli accordi dell’Alleanza atlantica, vengono rimborsati al 75 per cento dagli States.
Una storia di impunità che il documento pubblicato dalla Stampa mette nero su bianco: secondo il rapporto infatti, a bordo dell’aereo c’erano i documenti che vietavano i voli a bassa quota e soprattutto c’erano le mappe che segnalavano la presenza della funivia. Ma nessuno aveva aperto quelle buste. Elementi che hanno fatto dire a Pace che l’America doveva pagare per gli errori commessi. Ma la storia dimostra che aveva torto. (da “Il Fatto” del 13 luglio 2011)

Intervista a Ugo De Grandis sullo sciopero del 29 febbraio1944 a Schio

1625662_716712511706636_2075810653_nL’1 marzo 1944 migliaia di operai in tutto il Nord Italia scesero in sciopero spinti soprattutto dalle precettazioni obbligatorie in Germania. Non fu il primo sciopero verificatosi dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel settembre 1943, ma fu senz’altro il più vasto e, così mette in luce la storiografia, il primo a non limitarsi a semplici rivendicazioni economiche.
A Schio quello sciopero pare cominciasse addirittura con qualche anticipo rispetto al resto del territorio: lo ha sostenuto un paio di anni fa lo storico Ugo De Grandis, che nell’anniversario dei fatti ha rilasciato questa intervista a Alessandro Pagano Dritto per VicenzaPiù.

Marzo 1944. Nel suo scritto lei parla del carattere eccezionale dello sciopero scledense e per descrivere l’atteggiamento tenuto nei suoi riguardi, come nei riguardi, più in generale, della storia della Resistenza di Schio e del Veneto, usa l’espressione «coltre di silenzio» (p. 4). Può spiegare meglio questa sua tesi?

Quella contro l’oblio nel quale la storiografia ufficiale della Resistenza ha confinato la storia di Schio e degli scledensi è una battaglia personale che conduco da anni. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è proprio l’interpretazione di questi scioperi. Schio in quel frangente segnò uno dei tanti primati della sua storia: fu la prima comunità a iniziare a scioperare e l’unica in cui gli operai abbiano trattato direttamente coi tedeschi senza poi subire per questo motivo ritorsioni. Io fisso la data del 29 febbraio – il 1944 era un anno bisestile – come inizio dello sciopero generale collettivo di tutti gli stabilimenti scledensi, ma in realtà le prime astensioni dal lavoro erano iniziate lunedì 28: in quella data si era infatti sparsa in città la voce che alcuni lavoratori avessero ricevuto le cartoline precetto per recarsi alla visita ed essere giudicati idonei o meno al lavoro coatto in Germania. Ma lo sciopero era stato addirittura programmato, a livello più ampio, per il 21 febbraio e in un primo momento doveva coinvolgere solo il triangolo industriale formato da Lombardia, Piemonte e Liguria. Veneto ed Emilia Romagna erano state volutamente escluse dal cosiddetto Comitato di Agitazione perché considerate regioni periferiche: la loro massa, prevalentemente impiegata nell’agricoltura, era considerata priva di preparazione politica e non sufficientemente preparata a forme organizzate di protesta.

Perché l’eccezionalità dimostrata in questo frangente non è riuscita a dare giusta luce alla Resistenza veneta? Da dove pensa che derivi questa tendenza?

Secondo me è perché la memoria della Resistenza, è inutile negarlo, è da sempre stata portata avanti dai partiti di sinistra e dagli intellettuali di sinistra. Il Veneto non ha mai dato grandi espressioni di intellettualità di sinistra e lo stesso vale anche dal punto di vista delle memorie della Resistenza. Noi non possiamo vantare un Beppe Fenoglio, un Cesare Pavese, un Davide Lajolo; abbiamo, è vero, Luigi Meneghello, che però sulla Resistenza ha scritto solo di passaggio, abbiamo Mario Rigoni Stern che però ha parlato della guerra, dell’internamento militare, ma non di Resistenza. A noi in generale tutto questo manca e quindi quando in Italia si parla di Resistenza armata, si parla della Valdossola, delle Langhe, si parla di Sesto San Giovanni se si parla di Resistenza operaia, del Lingotto o di Sanpierdarena, ma mai e poi mai del Veneto: le stesse dirigenze del Partito Comunista hanno sempre guardato con sufficienza questa terra. Delle zone libere tutti ricordano, per esempio, la Valdossola, che aveva alle spalle la Svizzera neutrale; nessuno invece ricorda Posina, che certi hanno considerato un errore perché ha provocato un immane rastrellamento ma che rispondeva comunque a direttive nazionali. Eppure questa, Posina, aveva alle spalle i territori del Terzo Reich, non la Svizzera.

I mesi che precedettero lo sciopero. Nel suo libro assume una certa rilevanza, per questo preciso periodo, una figura della dirigenza comunista veneta: Giuseppe Banchieri «Anselmo». Chi era?

Banchieri era Segretario federale regionale, il numero uno nel Veneto. Venne a Schio ai primi di gennaio per indagare sui fatti di Malga Silvagno, dove erano stati uccisi quattro partigiani garibaldini. Indagando individuò delle lacune nell’organizzazione, lacune che mi sento però di giustificare. Schio era infatti stata fortemente penalizzata nei primi tentativi di imbastire una resistenza, con il rastrellamento del Festaro di metà ottobre e poi con l’arresto di almeno due importanti elementi a novembre: Nello Pegoraro e Pietro Bressan, trasferiti, come altri prima, a Verona. A questo si aggiungeva il fatto che qualcuno si ostinava ancora a rimanere nelle Commissioni interne che nelle fabbriche si erano create dopo il 25 luglio nel clima della ritrovata «democrazia», con tanto di virgolette, dei quarantacinque giorni di Badoglio. Queste Commissioni erano poi divenute uno strumento di controllo del regime e dovevano quindi essere disertate dai lavoratori. Banchieri passò a setaccio l’organizzazione ed effettuò alcune sostituzioni importanti. Tra queste, quella di Domenico Marchioro, che, dopo Pietro Tresso, era stata la figura numero due del comunismo locale: onorevole del PCd’I, era stato arrestato nel 1926 con tutta la dirigenza comunista dell’epoca, con Gramsci e Scoccimarro, e processato. Rientrato dopo quasi diciotto anni di carcere, Marchioro si vide affidare per riconoscenza la gestione della segreteria provinciale, ma si dimostrò ben poco affidabile: era rimasto con la mentalità semilegale della prima metà degli anni ’20 e non capiva le necessità della condizione clandestina del momento. Fu quindi trasferito a Roma con la scusa della salvaguardia personale.

Ed è a questo punto che entra in gioco un’altra importante figura, quella di Antonio Bietolini «Lorenzo».

Esatto, nel posto che fu di Domenico Marchioro fu inserito Antonio Bietolini. Se devo dire la verità, Bietolini mi ha sempre dato l’impressione del funzionario che sentenzia dall’alto senza calarsi nella realtà locale di altri quadri politici; di quei quadri cioè che lavorano in fabbrica, che sono esposti agli occhi di tutti e che devono gestire la loro attività in una situazione diversa dalla clandestinità dell’elemento di partito venuto da fuori sotto falso nome. Non era l’unico: lo stesso Giorgio Amendola si comportò così, dando un giudizio sprezzante dell’organizzazione delle brigate Garibaldi in tutto il Veneto, osservato però dalla sola Padova. Ma ciò che di Bietolini mi ha infastidito di più è stata una certa arroganza a volersi attribuire l’organizzazione dello sciopero, cosa che non considero vera almeno in relazione a Schio. A Vicenza infatti dovette insistere perché Vicenza non era una realtà industriale pari a Schio, dovette insistere anche a Valdagno, realtà industriale, sì, ma più isolata, meno incline ad avventure rispetto a Schio; a Schio però trovò le cose già fatte. Eppure lui rivendicò il merito dichiarando che nel più grande stabilimento scledense, il lanificio Rossi, aveva trovato solo cinque operai comunisti e neppure organizzati in cellula. Non mi sembra proprio possibile.

Perché le affermazioni di Bietolini sul numero di operai comunisti al Rossi non le sembrano plausibili?

Dal 1873 fino al 1921 Schio aveva espresso una lunga tradizione di scioperi, forti a tal punto da paralizzare la città per settimane, nel 1921 addirittura per mesi dall’estate fino a metà autunno: tutte le fabbriche furono paralizzate. Mi riesce difficile credere allora che nel 1944 al Rossi ci fossero solo cinque comunisti. I documenti dell’Archivio Centrale dello Stato mostrano che a metà degli anni ’30 a Schio c’erano 188 schedati come sovversivi: comunisti, anarchici e socialisti. Unendo a Schio i paesi del circondario – quindi Marano Vicentino, Santorso, Torre Belvicino e San Vito di Leguzzano – si arriva a 329. In occasione di una retata del novembre del 1937, un’indagine dell’OVRA portò alla denuncia di una cinquantina di attivisti che finirono in carcere al confino per sei anni, ma ciò nonostante l’attività sovversiva continuò. No, non credo alla cifra riportata da Bietolini, che nelle sue relazioni sembra il dirigente di partito che viene e bacchetta gli scolaretti. Non fu così e lo dimostra il fatto che in tutti i suoi andirivieni tra Vicenza, Schio e i paesi vicini, quando arrivò a Schio lo sciopero era già stato anticipato perché si era diffusa la notizia delle cartoline precetto: la scritta domani nei volantini già stampati dovette essere corretta a penna con la scritta oggi. No, nell’organizzazione dello sciopero furono direttamente coinvolti i comunisti scledensi: Antonio Canova, Arturo Rigoni, Giuseppe Scala, Livio Cracco, Pierfranco Pozzer, Igino Manea, Giambattista Cavaliere. Tutti nomi che poi hanno proseguito nella resistenza civile: Canova diventò per esempio comandante del battaglione territoriale «Fratelli Bandiera».

Come si svolse lo sciopero in paese e come reagì la controparte?

Le fabbriche furono subito circondate da truppe di SS provenienti da Vicenza. Ci fu un primo tentativo di mediazione del Commissario Prefettizio Giulio Vescovi, tentativo che però fu giudicato dallo stesso Capo dell’Ufficio Annonario del Comune di Schio, il cattolico Igino Rampon, con l’aggettivo «evanescente». Fu allora deciso di inviare una delegazione di operai di Schio, circa una quindicina, nella sede dei sindacati fascisti a Vicenza. Bisogna capire che questo fu uno sciopero politico, diversamente da quelli precedenti cui avevano partecipato anche quei fascisti non contenti dell’entrata in guerra. Qui non si trattava, come prima, di migliorie del vitto: non si voleva andare in Germania. Era uno sciopero contro la Repubblica Sociale, contro l’occupazione tedesca, contro la guerra e la risposta del popolo lavoratore alla socializzazione.
A Vicenza poi i delegati trattarono direttamente con un ufficiale tedesco di elevato grado venuto, sembra, da Brescia, che accettò di ritirare le precettazioni a patto che il lavoro ricominciasse subito. A differenza che altrove non vi furono rappresaglie naziste per questo sciopero e questa è un’altra eccezionalità.

Leggendo i rapporti che lei trascrive nel suo libro, si ha la sensazione che Bietolini non avesse gradito troppo la soluzione della Commissione mandata a Vicenza. Per i comunisti scledensi la Commissione poté dirsi un successo?

Io la vedo come un successo. Torno a dire: il dirigente che viene da Roma e giudica le cose dall’alto avrebbe voluto magari lo scontro all’ultimo sangue, nessuna trattazione e lo sciopero a oltranza. Con il rischio, poi, delle deportazioni? Questi erano i paraocchi del dirigente, del rivoluzionario avulso dalla realtà quotidiana. Gli operai scledensi non potevano spingere oltre, sono convinto che passarono veramente, e comunque, due brutte giornate: avevano persino preparato le vie di fuga nel caso di arresti o attacchi. Non dimentichiamo che ad Arzignano in quel periodo uno sciopero costò la vita a quattro operai, fucilati. Credo che in questo, nel non voler cioè arrivare allo scontro finale, abbia giocato un grande ruolo l’importanza strategica di Schio e delle sue industrie per l’economia di guerra tedesca: si parla di un patrimonio industriale valutato all’epoca circa 80 miliardi di lire.

Bietolini parla di un solo comunista all’interno della Commissione, entrato giusto per permettere sulla stessa una qualche influenza. Quanto contarono effettivamente i comunisti al suo interno?

Difficile dirlo, bisognerebbe conoscere i nomi di tutti i componenti. Secondo me evitarono di farne parte gli antifascisti più in vista, quelli più ricercati e rientrati dal confino. I nomi che si conoscono – Giuseppe Sandonà, Domenico Rigoni, Vittorio Negrizzolo per esempio – non erano nomi di antifascisti schedati, potevano presentarsi e trattare per conto degli operai. Non potevano certo altrettanto un Alessandro Cogollo o un Livio Cracco appena rientrati da sei anni di carcere: e sono cose come queste che Bietolini dimostrava di non capire.

Emilio Trivellato, lo storico che prima di lei scrisse alcune pagine sugli eventi, ricorda un incontro tra Giuseppe Sandonà, che gli rende anni dopo la testimonianza, e proprio Alessandro Cogollo: i due si incontrano alla trattoria La Pergola, noto ritrovo dell’antifascismo scledense. Sostiene Sandonà che le preoccupazioni per l’evolversi della situazione erano visibili da entrambe le parti, quella tedesca e quella antifascista. Che idea si è fatto del clima che si poteva respirare in quei momenti?

Doveva essere brutto, pessimo. Bisogna sempre ricordare che il primo sciopero dichiaratamente politico a Schio era avvenuto il 10 settembre 1943, quando erano stati portati via i militari della Caserma «Cella». L’attacco avvenne di notte, ma quando al mattino giunse la colonna di autocorriere e a Schio si sparse la voce che i tedeschi avevano occupato la città aprendo il fuoco e uccidendo quattro persone, deportando gli altri, le fabbriche scesero in sciopero, i negozi chiusero e la gente in strada tentava di bloccare le autocorriere. Quindi c’era l’intuizione che a mettersi contro i tedeschi si rischiava di essere caricati su una corriera per un viaggio verso il vuoto. Non è poi vero che nel 1944 nessuno sapesse cosa succedeva in Germania. Certo, camere a gas e forni crematori non li aveva visti nessuno, però prima dell’8 settembre ci fu qualche fortunato che, espatriato da volontario, riuscì poi a rimpatriare con qualche stratagemma e che una volta tornato raccontò come venivano tenuti non solo gli operai specializzati italiani, ma soprattutto i civili russi. Oltretutto dal 25 luglio erano state bloccate le rimesse e qua a Schio non era più arrivato nemmeno un centesimo dai lavoratori volontari divenuti, dopo il colpo di Stato di Badoglio, schiavi. Sapendo tutto questo, come potevano gli operai accettare la cartolina di precetto coatto? Ma nemmeno portare la sfida all’estremo conveniva. Dal punto di vista tedesco, invece, bisogna tenere conto che tutte queste industrie erano state requisite proprio da loro, dai tedeschi: deportando gli operai, chi ci avrebbe lavorato? I tedeschi finirono infatti col comprendere che conveniva cambiare tattica: portare le commesse qua, in fabbriche funzionanti e attive al loro servizio, piuttosto che deportare gli operai in Germania. Anche perché le minacce di arrivo di cartoline spingevano gli operai a lasciare le fabbriche e andare in montagna.

Nei rapporti di Bietolini si percepisce una certa attenzione al problema della stampa e della mancanza di informazione, che secondo il dirigente comunista isolò l’ambiente scledense e rese l’esito dello sciopero diverso da quello da lui sperato. Che influssi ebbe, secondo lei, questo aspetto nella vicenda?

Non è che a Schio girasse all’epoca chissà quale stampa, al massimo qualche copia clandestina dell’Unità passava di nascosto tra i telai. Ma le maggiori informazioni arrivavano dalle radio, per esempio Radio Londra. Durante lo sciopero si erano fatti saltare i tralicci del telefono per impedire le comunicazioni dei tedeschi, ma così anche gli operai erano rimasti isolati. I collegamenti migliorarono semmai dopo, nei mesi successivi, con l’evolversi della situazione delle formazioni partigiane in montagna e i collegamenti via radio degli Alleati, ma all’epoca degli scioperi si era ancora agli inizi e le radio erano state tutte requisite. Non è un caso che si fosse puntato molto su questo isolamento per tentare di far fallire lo sciopero. In generale comunque continuo a pensare che le valutazioni di Bietolini debbano essere lette tenendo presente questo carattere del dirigente che non giudica dal basso.

Di solito, quando si parla di Resistenza, si ha sempre in mente la figura del ribelle armato che combatte in montagna; sotto tono sembra passare invece la resistenza civile espressa per esempio dagli scioperi. Come mai, secondo lei?

La figura del guerrigliero che vive in montagna e fa uso delle armi, che si scontra e partecipa a sabotaggi e azioni di fuoco, è senza dubbio più epica. Ma io ricordo anche i racconti di mia nonna, operaia al lanificio Rossi, che mi diceva di come tra di loro operai raccogliessero soldi, imboscassero garze, lana per fare un paio di calzettoni da mandare a un partigiano che nemmeno sapevano chi fosse. E questo è anche il motivo per cui la figura della donna è sempre rimasta in secondo piano: perché ha compiuto migliaia di azioni rischiose ma non lo scontro a fuoco, il sabotaggio del ponte o il disarmo della guarnigione. Per ciò che non è lotta armata o si ha la fortuna di avere un memoriale di qualcuno che ha partecipato alla Resistenza civile o altrimenti si rischia di perderne la memoria. Azioni come fare una calza di lana la sera dopo il lavoro possono sembrare banali, ma è anche grazie a queste che i partigiani in montagna sono sopravvissuti.

Ci furono altri scioperi dopo quelli di marzo?

Sì. Nel Quaderno lo cito di sfuggita [pp. 58-59], ma nell’ottobre del 1944 ci fu per esempio un altro sciopero molto importante e ugualmente passato sotto tono, sciopero che fu una risposta alla violenza carnale cui furono oggetto alcune operaie scledensi, precisamente di San Ulderico, da parte di alcuni elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Quello sciopero segnò definitivamente l’incapacità del fascismo scledense di gestire l’ordine pubblico, perché un’altra volta dovettero intervenire i tedeschi. Il Commissario Prefettizio, Vescovi, si recò subito al lanificio Cazzola, sceso immediatamente in sciopero perché le operaie in questione lavoravano lì: tentò di mediare chiedendo anche i nomi dei colpevoli, ma la notizia si diffuse in città e tutte le fabbriche scioperarono per tre giorni. Ancora una volta dovette venire qui a Schio un ufficiale tedesco che patteggiò il ritorno al lavoro con l’allontanamento della guarnigione della GNR. Questo fu un ulteriore punto a favore dell’antifascismo civile scledense, che però nella storia nazionale, con tutta la sua città, raramente viene citato. La storiografia di matrice comunista, così come le stesse brigate Garibaldi, hanno sempre marginalizzato il Veneto: considerato «la parrocchia d’Italia», a loro non interessava.

Lei sostiene nel suo Quaderno [p. 2] che lo sciopero si proponeva di ottenere alcuni traguardi, sia a livello locale che nazionale: danneggiare i tedeschi, sottrarre gli operai al fascismo e dimostrare agli Alleati la popolarità dell’antifascismo. Possiamo dire oggi che ci riuscì?

Sì. Lo sciopero del Nord ebbe risonanza mondiale, perché fu la più partecipata e clamorosa manifestazione di protesta a livello europeo. Si aveva l’impressione, allora, che la Liberazione fosse una cosa imminente e bisognava quindi dare un segnale che il popolo italiano era antifascista e antitedesco: cosa che fu recepita e commentata dai comandi alleati e dalle loro radio, perché nessun Paese aveva mai messo in campo una protesta di quelle dimensioni. E questo fu lo scopo principale della dimostrazione.

Il titolo del suo scritto sull’argomento è Gli scioperi del marzo 1944 a Schio (Quaderni di storia e cultura scledense, Libera Associazione Culturale «Livio Cracco», Schio, ottobre 2011, pp. 60, 3 euro).

Intervista a cura di Alessandro Pagano Dritto

(da www.vicenzapiu.com)

1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia

p.-2-scioperi_grandeLo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì  l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre.
Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece “le lotte operaie assunsero un carattere differente” perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del “triangolo industriale”, si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell’arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell’ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe “una grandissima importanza”:
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell’anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto “a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell’occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato”.
Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali”, fece capire che “ormai il tempo degli scioperi era passato”. La “scena dello scontro” quindi “si trasferì sui monti” e apparve chiaro che “soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo”.  Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di “agganciare”, attraverso la “socializzazione”, i lavoratori.

Torino in sciopero

A Torino lo sciopero scatta il 1° marzo 1944, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, abbia comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche.
Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l’indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che hanno l’obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d’Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti in modo che alcuni dei più importanti complessi industriali della regione vengono paralizzati.
Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decreta la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrae fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decide la ripresa del lavoro.
La lotta, estesasi successivamente in altre regioni del Nord, assume un significato politico: tradurre sul piano della fabbrica la dichiarazione di guerra consegnata dall’antifascismo torinese al regime fascista fin dall’8 settembre 1943. Al termine degli eventi si stringono le maglie della repressione nazifascista attraverso arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento tedeschi: circa 400 operai, 178 alla sola Fiat, sono prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. Pochi di loro riescono a fare ritorno.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.

Testo del volantino clandestino diffuso nelle fabbriche torinesi:

SCIOPERO GENERALE CONTRO LA FAME E CONTRO IL TERRORE

Ancora una volta le masse operaie, strette attorno al COMITATO PROVINCIALE DI AGITAZIONE, scenderanno in lotta per difendere il diritto alla vita e alla libertà di tutto il popolo italiano. Le masse operaie ancora una volta passeranno all’attacco contro i nemici di ogni civiltà, contro i barbari nazifascisti. Le masse operaie scenderanno in lotta contro il terrore e la fame, scenderanno cioè in lotta per difendere la vita di tutti.
L’ora è giunta per dimostrare ai nostri nemici spietati come i torinesi, come i piemontesi formino un solo blocco. Non soltanto gli operai, ma tutti i professionisti, tutti gli impiegati, tutti i cittadini debbono scioperare.

Evviva lo sciopero generale di tutto il grande tenace eroico popolo piemontese.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Questa sera alle ore 20.45 a Schio all’osteria “Due Mori”, Ugo de Grandis e Beppe traversa faranno conoscere una storia poco conosciuta: il 29 febbraio 1944 Schio fu la prima città d’Italia a incrociare le braccia contro il fascismo e la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Uno dei tanti primati della città che la storia ufficiale ignora.

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