30 marzo 1939: Strage di Zeret

142055_2350346_ETIOPIA_PR_11009321_displayE’ il 30 marzo del 1939 e la guerra in Etiopia è ormai in corso da tre anni. L’areonautica italiana ha intercettato un consistente numero di “ribelli” e fornito le coordinate a una colonna di militari che si mettono all’inseguimento. Ma non si tratta di un’operazione di ordinaria controguerriglia. Non che tra gli etiopi in fuga non vi siano combattenti: c’è ad esempio Tesciommè Sciancut, un capo cui gli italiani danno la caccia da tempo. Ma la maggior parte dei fuggiaschi – un fatto che gli avieri devono aver notato – è composta di feriti, anziani, donne e bambini parenti degli uomini in arme. Quelli che oggi definiremmo “sfollati”, civili in fuga dall’orrore della guerra.
Trovano rifugio in una grande grotta nella regione di Gaia Zeret-Lalomedir. La caverna sembra un rifugio sicuro, non solo per l’ampiezza ma per la difficoltà di penetrarne gli anditi più reconditi, dove è facile nascondersi nell’oscurità del vasto labirinto sotterraneo. Ma, dopo un lungo assedio, con un accorto e spericolato operativo, gli italiani hanno la meglio. Calano dall’alto sull’imboccatura dell’anfratto alcuni bidoncini di iprite, gas che provoca morte e ampie lacerazioni, già ampiamente usato dalla nostra aviazione. “Il mio compito – scrive nel suo diario il sergente maggiore Boaglio che, nel commando italiano, ha il compito di calare e poi far detonare l’iprite all’ingresso della grotta – era far scendere e scoppiare i bidoncini…nel punto di entrata della caverna, in modo da ypritare tutto il terreno, impedendo così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente….”. Ma quando, dopo una notte, gli etiopi ancora non si sono arresi “si scatenò l’inferno”, scrive ancora Boaglio. Mitragliatrici, lanciafiamme, granate e proiettili lacrimogeni. Gli etiopi si arrendono, uscendo in massa dalla grotta, almeno quelli che già non sono stati uccisi dal gas e dai proiettili.
Paradossalmente Sciancut e una quindicina di partigiani riescono a scappare mentre gli italiani dividono, all’uscita, gli uomini da donne e bambini. I primi vengono mitragliati a gruppi di cinquanta sull’orlo del burrone (in pratica vengono infoibati, tanto per usare un termine che in questo caso non è usato a sproposito) che farà loro da tomba. Gli altri vengono risparmiati, ma su di loro marcia inesorabile l’effetto dell’iprite, gas vietato dalle convenzioni internazionali. L’11 aprile è tutto finito. Il bilancio delle vittime si stima tra i 1200 e i 1500.  Una storia rimasta ignota fino a qualche anno fa, quando un giovane storico, Matteo Dominioni, non si imbatte nei documenti che descrivono la strage all’Ufficio storico dello stato maggiore a Roma e, in seguito, nel diario inedito di Boaglio. Il suo lavoro di ricerca (anche sul campo) è testimoniato dal libro “Lo sfascio dell’Impero – Gli italiani in Etiopia 1936-1941” con la prefazione di Angelo Del Boca.
Matteo Dominioni, per questo libro, è stato violentemente attaccato dall’Associazione Nazionale Alpini e dal presidente della Camera di quei tempi, Gianfranco Fini: uno di quelli che attaccarono le grotte di Zeret alla testa del XX battaglione Eritreo, era un illustre eroe della prima guerra mondiale e un “eroe del Polo” come veniva chiamato dalla sua gente, il maggiore degli alpini Gennaro Sora. Questa la descrizione del massacro in una delle pagine “vergogna” di wikipedia:
“Nell’aprile del 1939 al comando del XX Battaglione Eritreo eliminò, nella cosiddetta Battaglia della Grotta Cajá-Zeret, un grosso gruppo di combattenti Etiopici guidato da Teshome Sciancut, tra i luogotenenti di Abebe Aregay, un fedele del Negus. La battaglia fu aspra e culminò con la resa degli assediati dopo la fuga di Teshome, dopo che pezzi d’artiglieria caricati con fosgenina e iprite avevano contaminato tutta l’acqua a disposizione dei circa 1500 assediati.” Non si parla di morti e sembra che gli italiani fossero impegnati in un operazione contro militari ben armati, sorvolando sugli effetti dell’iprite sui corpi umani.
A Foresto Sparso (BG), comune di nascita del maggiore, il comune ha dedicato una statua a Sora e ogni anno gli alpini vengono ad omaggiare il loro “leggendario” comandante. Di Affile in Italia ce ne sono molte.

Un intervista a Matteo Dominioni