“Una bestemmia”: così Marco Rizzo e Massimo Recchioni del Partito comunista definiscono il paragone tra Berlusconi e Francesco Moranino, il partigiano passato alla storia con il nome di battaglia “Capitano Gemisto”. I due esponenti del Pc, insieme alla figlia di Moranino, ieri mattina hanno organizzato un incontro a Montecitorio per smontare l’analogia tra Moranino e Berlusconi suggerita dal senatore del Popolo delle Libertà. Secondo l’esponente azzurro, il partigiano ed ex parlamentare Pci avrebbe beneficiato della grazia concessa dall’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per evitare il carcere e tornare a Palazzo Madama. La stessa cosa cui punta il leader del Centrodestra. “Berlusconi ha tanti avvocati a libro paga – tuona Recchioni – ma non è ben consigliato. Moranino rinunciò alla grazia di Saragat e rimase esule a Praga. Per ritornare in Italia a fare politica attese l’amnistia, perché solo questa cancella l’interdizione dai pubblici uffici e tutte le altre pene accessorie. E poi Moranino di carcere ne ha fatto tanto durante il ventennio”. Il partigiano era stato condannato per l’omicidio di sette presunte spie fasciste. (da “Il Fatto”)
Il video della conferenza stampa alla Camera dei Deputati:
Dopo il raduno degli skinheads, i fascisti di casapound si ritrovano dal 12 al 15 settembre a Revine Lago, con un programma a base di incontri, concerti nazirock e dimostrazioni “muscolari” varie, il tutto trasmesso via web con il supporto di Radio Bandiera Nera, la radio del gruppo. Fascisti che fanno festa, in un luogo che ha visto nascere diverse Brigate Partigiane, che ha visto la vera natura del fascismo con uccisioni, deportazioni, case distrutte.
Il Comune ha infatti pagato un altissimo contributo di vite umane, di deportazioni, di indicibili distruzioni: 40 case di abitazione (12% del totale) e circa 60 casere e stalle incendiate nei ripetuti rastrellamenti, incursioni e rappresaglie, eseguiti dalle SS e dalle Brigate nere. Revine Lago risulta, dopo Pieve di Soligo, ed in rapporto al numero degli abitanti, il Comune più danneggiato della Provincia. Il 12 marzo del 1945, in uno degli ennesimi rastrellamenti, viene catturato Armando Grava, staffetta della Brigata Partigiana “Tollot”. Il coraggioso e sfortunato giovane viene sottoposto ad ogni sorta di torture e di sevizie. Sotto stringente interrogatorio, si addossa la responsabilità del ferimento del tedesco e, a conferma di quanto dichiarato, si fa condurre nel luogo dove ha nascosto il proprio mitra. Egli, pur conoscendo tutto della formazione partigiana, non si lascia sfuggire neppure una parola. I fascisti non desistono ed usano tutti i sistemi per farlo parlare. Dopo quattro giorni di continui interrogatori e torture, il giorno 17 marzo, mentre continua il rastrellamento, il giovane Armando viene trasferito nel paese di Lago e precisamente nella trattoria di fronte alla chiesa, dove viene sottoposto ad un nuovo terribile interrogatorio. Questa volta, anche alla presenza della madre e della sorella. Su di lui compiono le più efferate sevizie e violenze. Una ausiliaria fascista, con le forbici, gli taglia la carne degli zigomi, delle sopracciglia, dei testicoli; sulle ferite passa poi della tintura di jodio. Sono quattro giorni di inutili ,tentativi, per strappargli qualche notizia su persone e fatti che egli conosceva bene; quattro giorni di incredibili sofferenze per il povero Armando. Il 17 marzo, con il pretesto di condurlo ad una medicazione si dirigono verso Revine e al confine con Vittorio Veneto, il patriota viene ucciso con una raffica di mitra. Gli gettano sopra il capo un grosso macigno e lo abbandonano sulla strada.
Casapound, dice il sindaco, non ha chiesto permessi perchè la festa è in un luogo privato, lo stesso del raduno degli skinheads di qualche hanno fa. Belle parole, da un sindaco che rappresenta una comunità che ha provato sulla propria pelle il fascismo e quello che rappresenta. Oggi Umberto Lorenzoni “Eros”, segretario dell’Anpi di Treviso, avrà un incontro con questa persona, e ribadirà che ogni rappresentazione ispirata al fascismo in Italia è vietata dalla Costituzione Italiana. Tutti gli antifascisti dovrebbero mobilitarsi e andare dal sindaco per pretendere il rispetto della Costituzione su cui ha giurato fedeltà.
Questo video mostra le forze ribelli, dette ELS, lanciare un attacco con il gas Sarin su un villaggio siriano:
Quest’altro mostra le forze ribelli siriane caricare una bombola di gas nervino su un razzo da lanciare sui civili e sulle forze governative. Come si vede qui sotto, una ripresa dal video mostra le forze ribelli porre un contenitore blu sospetto su di un lanciarazzi.
C’era un uomo, una spia, prima fascista, poi al soldo dei servizi deviati, che ha attraversato tutta la notte della repubblica italiana e che è stato coinvolto nei più cruenti fatti di sangue che hanno funestato il nostro Paese almeno fino alla metà degli anni ’70, il suo nome era Berardino Andreola, ma in verità ne usava più di uno alla volta. È stato Giuseppe Chittaro e Umberto Rai quando si trattava di indicare la pista rossa di piazza Fontana al giovane commissario Luigi Calabresi; Gunter, quando avrebbe manomesso i timer che hanno fatto saltare in aria Giangiacomo Feltrinelli; Luigi De Fonseca, quando cercava di depistare e confondere le acque di chi cercava il filo che teneva la strategia della tensione e degli opposti estremismi.
A svelarne l’identità e i tanti alias è Egidio Ceccato, storico di Camposampiero che nel suo «L’Infiltrato» disegna un quadro estremamente inquietante della nostra democrazia, per trent’anni almeno tenuta sotto scacco e tutela da un «doppio stato» che ne indirizzava pancia e opinioni al fine di tenere il Paese nel solco della moderazione politica e dell’Alleanza atlantica. In altre parole quella «guerra a bassa tensione» di cui fu ideatore e organizzatore il capo del secret team della Cia Theodore Shackley. E di cui fu strumento in Italia James Angleton, capo del controspionaggio americano a Roma. Un doppio stato che non ha esitato a reclutare servitori fra i reduci di Salò, infiltrare forze armate, polizia, servizi, partiti politici, amministrazioni e aziende pubbliche.
E fino a qui si potrebbe dire che c’è ben poco di nuovo, rispetto ai sospetti e ai troppi segreti che ci trasciniamo dietro da sempre e che lasciano lo spazio alle peggiori delle ipotesi sulla nostra storia recente. La novità sta nell’aver individuato uno dei personaggi che hanno giocato da protagonisti di questa brutta storia: Berardino Andreola, appunto.
Il nostro uomo, secondo Ceccato, giovanissimo ex repubblichino, viene infiltrato tra i gruppuscoli anarchici e dell’estrema sinistra, dopo aver servito per un certo periodo nel Sud Italia.
Ceccato prende le mosse proprio da qui. Sua intenzione era lavorare alla storia di Graziano Verzotto, cittadellese, capo di una formazione partigiana bianca, che nel dopoguerra viene mandato a fare il segretario regionale della Dc siciliana. Senatore, diventa presidente dell’Esm (ente minerario siciliano) e dirigente dell’Eni di Enrico Mattei, di cui sarà il braccio destro in Sicilia. Verzotto è l’uomo indicato recentemente, post mortem, da una sentenza della corte d’Appello del tribunale di Palermo come mandante per l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro. Una sentenza contestata e contro cui si sta battendo l’anziano fratello dello stesso Verzotto, avvocato ed ex sindaco di Santa Giustina, e, secondo Ceccato, non senza ragione.
In ogni caso Graziano Verzotto subì un tentativo di sequestro negli anni ’70 che quasi sicuramente l’avrebbe destinato a finire vittima della lupara bianca, se chi lo aveva messo in atto non si fosse dimostrato inadatto allo scopo.
Per quel delitto finì arrestato Berardino Andreola, assieme ai complici. Da qui Ceccato si ritrova a scrivere un altro libro che lo porta a seguire le tracce di Andreola fino a incrociare Pinelli, Calabresi e Feltrinelli. Il primo, com’è noto caduto dalla finestra del quarto piano della questura di Milano all’indomani della bomba alla banca dell’Agricoltura nel 1969. Gli altri due morti a pochi mesi di distanza nella primavera del 1972, proprio quando, grazie alle inchieste trevigiane dei giudici Stiz e Calogero, gli inquirenti scoprono e cominciano a seguire la pista nera veneta che conduce a Franco Freda e Giovanni Ventura; da notare che la carta d’identità falsa trovata a Feltrielli dilaniato sotto il traliccio di Segrate era stata rubata dai neri nel municipio di Preganziol, Treviso, nel dicembre del 1969; mentre i famosi timer di piazza Fontana furono venduti in via Facciolati a Padova.
Secondo Ceccato, il commissario Calabresi si sarebbe reso conto di essere stato “usato” dai servizi e che a colpire a Milano fu «una mente di destra con manovalanza di sinistra». Le stesse responsabili della sua di morte, forse.
E lo stesso Feltrinelli fu un ingenuo strumento nelle mani dei servizi e della destra, che lo fecero saltare letteralmente in aria mettendo in mano all’editore-bombarolo dei timer difettosi preparati appunto da quel Gunter che si era conquistato la fiducia tanto incondizionata quanto malriposta dell’imprenditore rivoluzionario.
Non è un libro facile quello di Ceccato, tra guerra sporca, complotti internazionali, servizi deviati, ossessioni anticomuniste, sgherri, sbirri infedeli, doppi e triplogiochisti, in cui rosso e nero si confondono e si scambiano ruoli, ferro e fuoco in una nuvola di fumo in cui è complicatissimo orientarsi. È un libro ardito che solleverà dubbi e polemiche, ma è un tentativo coraggioso e onesto di gettare un po’ di luce nel pozzo nero della nostra vita pubblica. (di Giorgio Sbrissa da “La Nuova Venezia”)
Al Poligono di Tiro di Bologna vengono fucilati 12 partigiani come rappresaglia per l’uccisione del colonnello Zambonelli della Guardia Nazionale Repubblicana. L’annuncio della avvenuta fucilazione appare il giorno 31 sul Resto del Carlino Antefatto
… qualche settimana dopo, una nostra squadra in perlustrazione sulla Persicetana, in pieno giorno, avvistò la macchina del colonnello Zambonelli, uno dei più pericolosi comandanti fascisti. I nostri riuscirono a bloccarla e fecero prigioniero lo stesso colonnello, con il proposito di scambiarlo con dieci compagni detenuti nelle carceri fasciste. II comando della brigata nera, anziché aderire alla nostra richiesta, due giorni dopo a Bologna fucilò i partigiani di cui si chiedeva il rilascio. Tale rappresaglia, che rappresentava anche un’aperta sfida, esigeva una nostra immediata risposta e fu così che poco tempo dopo, sullo stesso luogo, venne ad opera nostra giustiziato il colonnello Zambonelli. Testimonianza di Vito Giatti
Le vittime della rappresaglia al Poligono di tiro:
Atti Floriano, «Nome di battaglia Gianni», nato il 16/9/1922 a Bentivoglio. Prestò servizio militare negli autieri dal febbraio 1942 all’ʼ8/9/43. Militò nel Veneto nella div Belluno e successivamente nella 7a brg GAP Gianni Garibaldi e nella 1a brg Irma Bandiera Garibaldi a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro.
Bentivogli Renato, «Nome di battaglia Renè», nato il 14/6/1912 a Malalbergo. Militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi ed operò a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. Al suo nome a Bologna è stato intestato un giardino.
Bracci Luciano, «Nome di battaglia Toro», nato l’11/2/1926 a Bologna. Militò nella 62a brg Camicie rosse Garibaldi. Cadde prigioniero dei tedeschi mentre tentava di portare in salvo un compagno ferito. Fu rinchiuso nel carcere di San Giovanni in Monte e sottoposto a torture e sevizie. Venne fucilato al Poligono di tiro di Bologna
Bussolari Gaetano, «Nome di battaglia Maronino», nato il 19/9/1883 a S. Giovanni in Persiceto. Discendente da antica famiglia persicetana, partecipò vivamente fin dalla giovinezza alla vita politica della sua città, della quale studiò per tutta la vita la storia passata in tutti i suoi aspetti (aveva in animo di elaborare unʼamplissima «enciclopedia persicetana»). Fu uno spirito ribelle, originale, polemico, libero: ciò spiega anche il passaggio da posizioni socialistiche ed anarchiche ad una temporanea, breve militanza fascista. Ben presto passò allʼantifascismo che manifestò senza cautela tanto da attirarsi l’odio dei gerarchi locali, dei quali denunciò il malgoverno e le sopraffazioni, specialmente nell’amministrazione del consorzio dei partecipanti. Fu confinato e carcerato. Durante la lotta di liberazione venne arrestato e prelevato dal carcere per essere fucilato al poligono di tiro di Bologna
Garagnani Arturo, nato il 3/5/1907 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Garagnani Celestino, nato il 18/10/1913 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Musi Giocondo, nato il 16/10/1914 a Bologna. Prestò servizio militare in fanteria a Bologna. A seguito di una vasta azione di propaganda svolta dal PCI e dalla gioventù comunista a Bologna e nei comuni della provincia, venne arrestato alla fine del 1930. Deferito al Tribunale speciale, con sentenza del 28/9/31, venne condannato (assieme ad altri dodici compagni) a 1 anno di carcere, per costituzione del PCI, appartenenza allo stesso e propaganda. Durante la lotta di liberazione militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di comandante di btg. Il 19/8/44, mentre si accingeva a far saltare il ponte ferroviario in località Due Torrette, fu arrestato ed incarcerato nel carcere di S. Giovanni in Monte (Bologna). venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. E’ stata dedicata una strada di Bologna a lui e a suo fratello.
Nanni Luciano, nato l’8/2/1923 a Bologna. Militò nel 1° btg Busi della 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di ispettore organizzativo di compagnia e operò a Bologna. Già rinchiuso in carcere dal 20/8/44, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Pietrobuoni Agostino, nato il 24/7/1894 a S. Agata Bolognese. Capolega dei braccianti dal 1915, al termine della grande lotta agraria nel Bolognese fu arrestato il 31/10/20 in seguito all’uccisione di Gaetano Guizzardi. Fu processato e condannato nel 1923. Dimesso dal carcere, espatriò a Domont (Francia), dove lavorò e svolse attività antifascista. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu internato nel campo di concentramento di Vernet dʼAriège. Tradotto in Italia, il 29/9/41 la Commissione provinciale lo condannò al confino per 5 anni a causa dellʼattività antifascista svolta allʼestero. Venne liberato il 18/8/43; lasciò Ventotene e fece ritorno al paese natio. Dopo 1’8/9/43 fu animatore della lotta di liberazione a S. Agata Bolognese, assieme ai fratelli Quinto e Ottavio. Partecipò all’attività del btg Marzocchi della 63ª brg Bolero Garibaldi con funzione di commissario politico con grande intensità nonostante stesse perdendo la vista. Fu arrestato a seguito di una delazione il 27/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e trasferito a Bologna. Venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Sghinolfi Alfonso, nato il 10/3/1907 a Monteveglio. Prestò servizio militare in artiglieria a Bologna dal 1942 all’ʼ8/9/43. Militò ad Anzola Emilia nel btg Tarzan della 7a brg GAP Gianni Garibaldi. Catturato il 15/8/44, venne fucilato al poligono di tiro.
Sordi Renato, nato il 14/1/1924 ad Ancona. Già rinchiuso in carcere venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Zanasi Cesare, «Nome di battaglia Cesarino», nato il 15/9/1923 a Bentivoglio. Militò nella 7ª brg GAP Gianni Garibaldi, con funzione di vice comandante di compagnia, ed operò a Bologna. Arrestato il 25/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio: e l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
La mattina del 24 agosto 1944 olte cinquanta automezzi carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salgono verso il paese di Vinca, toccando Equi Terme, Monzone e altri paesi.
Gli uomini del maggiore Reder e la Brigata Nera “Mai Morti” arrivano al paese di Vinca nella prima mattinata portandosi dietro anche un cannone salendo dal paese di Monzone, mentre altre colonne di nazifascisti accerchiano la zona salendo dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara.
Il paese e i campi circostanti vengono battuti palmo a palmo per tutta la giornata, di quelli che all’inizio del rastrellamento si trovavano dentro il cerchio solo due si salveranno. Il paese viene occupato da uno dei plotoni fascisti, devastato e poi incendiato. Alla sera i nazifascisti rientrano a valle.
Ma l’esperienza maturata in queste cose suggerisce di riprendere la mattina dopo: difatti gli scampati erano tornati a raccogliere i familiari uccisi e per salvare dalle fiamme quello che potevano. In questo modo riescono ad uccidere altre persone.
173 vittime come era già successo a Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo – Bardine e a Valla i cadaveri spesso sono rinvenuti nudi, decapitati, impalati o comunque in condizioni che permettono di misurare l’accanimento dei loro assassini.
Uno storico lunigianese, il prof. Fabio Baroni, punta i riflettori sulle responsabilità avute nell’efferata strage da parte di alcuni cittadini di Carrara. «Ci sono questioni che non si possono archiviare, purtroppo – scrive Baroni – una di queste è il carattere italiano della strage di Vinca. Ho tralasciato, lo scorso anno (2011), di tornare sull’argomento, che mi aveva prodotto offese e denigrazioni, affidando la dimostrazione della partecipazione massiccia di italiani, e in gran parte carrarini, alla strage ad uno scritto scientifico dal titolo significativo: “La strage di Vinca. Un olocausto che attende verità”, pubblicato sull’ultimo numero di Cronaca e Storia di Val di Magra. Da quello scritto si evince ancor di più la responsabilità dei fascisti carrarini, inviati da una importante autorità, allora, a Carrara, non solo nella strage ma negli atti più efferati di quella strage».
La lettera dall’altra sponda della fine del mondo impiegò trentacinque anni per essere scritta. Fu il tempo necessario perché un ragazzo quattordicenne con la pelle penzolante dal braccio come una fodera strappata trovasse il coraggio di diventare vecchio e di non odiare più.
Akihiro Takahashi stava andando verso il suo ginnasio, alle 8 e 15 del 6 agosto 1944, quando un uomo di cui ignorava l’esistenza, ai comandi di un aereo che nessuno a Hiroshima aveva mai visto, fece volare da nove mila metri di altezza la prima bomba atomica usata in guerra sopra la sua testa, e sopra quella di altri duecentocinquantamila esseri umani.
Quando finalmente, ormai vicino ai cinquant’anni, le mani sfigurate dalle orrende cicatrici da radiazioni — i cheloidi — le orecchie dissolte nella città altoforno, gli organi interni consumati dal tenace lavoro dell’atomo, Akihiro poté finalmente guardare negli occhi colui che credeva fosse un demonio, il pilota dell’Enola Gay Paul Tibbets, vedette spuntare qualche lacrima. E pensò che fosse un uomo anche lui, al quale poter scrivere, con il quale parlare. Fu da quell’incontro diretto nel 1980, a Washington, che il ragazzo di Hiroshima e il cavaliere dell’Apocalisse cominciarono a scriversi.
Quel carteggio è improvvisamente affiorato dall’immenso serbatoio di rottami, di pezzi di vite umane, di cose e di dolore che ancora giace sotto la crosta della nuova Hiroshima. Fu il giapponese, che sarebbe divenuto direttore del Museo della Pace, costruito a pochi passi dal ponte a «T» che il bombardieredell’EnolaGayusòcome bersaglio, a impugnare il pennino buono, quello per la grafia elegante del kanji, degli ideogrammi, e a scrivere per primo.
Akihiro e Paul si erano conosciuti a Washington, nel giardino dietro al Russell Building, uno dei palazzi per gli uffici dei parlamentari, dove nel giugno del 1980 era stata organizzata una mostra sul bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki. La tv di Hiroshima, la RCC, aveva pagato il viaggio ad Akihiro, uno degli hibakusha, i superstiti, e aveva chiesto al colonnello pilota del B-29 Enola Gay di incontrare il giapponese. Tibbets aveva accettato, molto a fatica, e sei mesi dopo, in novembre, Akihiro Takahashi trova il coraggio di spedire la sua prima lettera. Comincia, con esemplare timidezza ed educata evasività nipponica a parlare del tempo. «È quasi inverno e qui comincia a fare freddo». Ma non è del clima che vuol parlare al bombardiere. In quel novembre, l’America ha eletto Ronald Reagan presidente e la fama, ingiusta, di “cowboy nucleare” terrorizza Akihiro. «Si ricorda che cosa ci dicemmo mentre lei stringeva le mia mani e sentiva con le dita le mie cicatrici? Ci dicemmo che quando la guerra comincia, va avanti secondo i piani e le dinamiche della guerra e per questo non bisogna mai cominciarla. Io le dissi che non provavo più odio verso l’America neppure mentre ogni giorno devo combattere con le sofferenze fisiche lasciate da quel giorno e certamente non verso di lei, che eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere… soprattutto ora che ho visto le lacrime di un cuore umano scivolarle dagli occhi». Ma, e qui viene al punto, «sono profondamente preoccupato per la politica estera del presidente Reagan… temo che si possa ancora intensificare la corsa agli armamenti nucleari. Spero che lei voglia sentire il cuore di Hiroshima e unirsi a noi nel cercare di impedire che quello che avvenne nel 1945 possa ripetersi. Dobbiamo, lei e io, tornare esseri umani, tornare al punto di partenza, dimenticare quello sfortunato evento».
Il colonnello Tibbets, divenuto nel frattempo generale e poi presidente di una società di aviazione civile impiegherà ben otto mesi per rispondergli. Scriverà a macchina, sulla carta intestata della società Aviation Jet, prendendo subito le distanze. «Chiedo scusa per il ritardo, ma molte cose sono accadute. Ho visto un bel documentario della BBC sulla mia missione e mi ha fatto piacere che abbiano rispettato i fatti, senza interpretazioni». Come per dire quello che Tibbets dirà fino alla morte, che lui aveva semplicemente eseguito, e alla perfezione, la mission, il trasporto e lo sganciamento di Little Boy, la Bomba A. Ma non fa passare la tirata su Reagan, anzi. «Sono contento che il signor Reagan sia succeduto al signor Carter. Penso che sarà un leader migliore per il mio Paese. Stia bene e in buono spirito».
La controrisposta arriva a stretto giro, appena tre settimane dopo, il 23 giugno 1982. Akihiro non molla: «Capisco che abbiamo opinioni diverse, ma mi permetta, dopo avere espresso la mia ammirazione per gli Stati Uniti, di dirle che la pace che a Hiroshima e Nagasaki sogniamo non può essere una pace costruita sulla potenza militare e sulla forza…». E qui, sempre con puntiglioso pudore giapponese, annota: «Ora devo andare tutti i giorni all’ospedale, per problemi al fegato, effetto della bomba atomica». Non lo dice, ma non ce n’è bisogno: quella bomba che tu,
Paul Tibbets, mi hai sganciato sulla testa, mentre andavo a scuola una mattina di agosto. Tibbets, il comandante di quell’aereo battezzato col nome della madre, Enola (che è lo spelling alla rovescia di Alone, sola, tratto da romanzo) non abbocca. È ancora più secco. «Le auguro che il suo nuovo incarico di direttore del Museo della Pace le dia grandi soddisfazioni e contribuisca a raggiungere quel traguardo al quale lei aspira».
Ci vuol altro per scoraggiare un uomo che camminò per ore verso il fiume sul quale galleggiavano cadaveri e dove si buttavano zombie in cerca di un impossibile refrigerio allo strazio delle ustioni. Il 5 ottobre 1982 gli scrive sei fogli fitti di ideogrammi, più disordinati, meno calligrafici, per invitare Tibbets ad apparire con lui in uno speciale della NHK, la autorevolissima tv pubblica giapponese. Gli illustra le bellezze della antiche città imperiali, Kyoto e Nara, cerca di convincerlo a vedere quella nazione nella quale Tibbets non mise mai piede dopo aver visto il fungo alzarsi fino a dodicimila
metri. Appena cinque righe: «Dopo lunga riflessione, purtroppo non posso accettare».
Paul Tibbets non risponderà mai più ad Akihiro Takahashi, che gli riscriverà quattro anni dopo, il 7 settembre del 1987, con un pretesto, una richiesta di dettagli tecnici sulla preparazione della bomba e la missione, tutte cose già notissime. È un modo per cercare di riattaccare discorso. Non funziona. Sedici anni passeranno ancora perché il ragazzo di Hiroshima, ormai ultrasettantenne riprenda calamaio, pennino e carta, nel 2003. «Sono passati vent’anni da quando ci stringemmo le mani e fui pieno di felicità e di speranza… ho lasciato il mio lavoro per il Comune di Hiroshima e mi dedico a raccontare ai bambini che cosa accadde e che cosa fare perché non accada più. Ormai ho 72 anni e non credo vivrò ancora molto. Mi farebbe felice sapere che anche lei, che deve averne ormai 90, dedicasse i suoi ultimi anni a costruire la pace». Silenzio.
L’ultima lettera di Akihiro Takahashi è del 28 agosto 2003, un altro agosto. Gli ha mosso la mano, una notizia che l’ha sconvolto. Dopo anni di abbandono, l’Enola Gay era stato recuperato, restaurato, esibito, in un hangar-museo in Virginia. La vista di quel gigante di alluminio, tornato lucido e nuovo come brillava nel sole del 6 agosto 1945, trafigge il cuore del superstite. «Fummo usati come cavie, noi abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Quell’aereo è la testimonianza di quello che un pastore americano venuto a trovarmi a Hiroshima chiamò il “peccato mortale” degli Stati Uniti, chiedendomi di perdonare. Lei avrebbe il coraggio di dirmi la stessa cosa? Restaurare ed esibire l’Enola Gay è soltanto ostentazione, glielo ripeto, la
scongiuro, quell’aereo va distrutto». Silenzio.
Paul Tibbets morirà quattro anni dopo avere ricevuto l’ultima lettera, il primo novembre 2007. Akihiro Takahashi era stato pessimista: avrebbe vissuto ancora a lungo, dopo l’ultima lettera, perché il destino che aveva fatto di lui uno dei soli quindici sopravvissuti su settanta compagni di scuola lo avrebbe tenuto vivo fino agli ottant’anni. Morì nel 2011, il primo di novembre. Come Tibbets.
VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica Domenica 18 Agosto 2013
Il 12 agosto 1944, lo stesso giorno della strage di Sant’Anna di Stazzema, cinquantatré tra uomini, donne e bambini (28 dai 2 ai 17 anni) erano stati rastrellati in Versilia dai soldati del maggiore Reder.
Una settimana dopo, il 19, vengono portati a bordo di camion sulla strada che da Bardine porta a San Terenzio. Vengono fatti scendere dove una lunga rete metallica sostenuta da pali divide due poderi presso i quali alcuni giorni prima i partigiani avevano attaccato con successo un convoglio tedesco.
Tutti vengono legati con filo spinato alle mani e attaccati con lo stesso mezzo ai pali della recinzione in modo che, appesi per il collo, possano a malapena sorreggersi per non soffocare.
Alcuni vengono seviziati, tutti vengono gambizzati con raffiche di mitragliatrice e lasciati morire impiccati o finiti con un colpo di rivoltella. http://storiedimenticate.wordpress.com/2012/08/19/bardine-di-s-terenzio-fraz-di-fivizzano-massa-19-agosto-1944/
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