Quando nel 2004 venne istituito il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata l’Italia della “seconda repubblica” stava confusamente cimentandosi, attraverso una convergenza bipartisan, nella riscrittura della storia nazionale per legge.
La narrazione del passato aveva da sempre rappresentato un terreno di scontro politico tra i partiti e l’uso pubblico della storia in chiave revisionista aveva segnato non solo la crisi del paradigma fondativo della democrazia, l’antifascismo, ma soprattutto la piena legittimazione di una “dualità memoriale”, quella dei vinti equiparata a quella dei vincitori, nella quale le ragioni e i torti delle parti in conflitto venivano portate a sintesi da una semplificazione di linguaggi, gesti simbolici ed elementi di fatto che lambivano la parificazione di vittime e carnefici.
L’istituzione del “Giorno del ricordo”, impropriamente indicato nella ricorrenza della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947 visto che le violenze delle foibe si verificarono nel settembre ’43 e poi nel maggio ’45, si collocò come fattore di “riequilibrio” memoriale tra la sinistra e la destra come se la storia fosse una coperta con cui avvolgere la propria legittimità politica anziché faticosa verifica di fatti e processi complessi.
La riscrittura “condivisa” delle vicende storiche italiane comportò l’oblio su questioni centrali della nostra identità nazionale come il consenso al fascismo, le leggi razziali o i crimini di guerra compiuti dalle truppe del regio esercito, e rimasti impuniti, in Jugoslavia, Grecia, Albania, Urss e nelle colonie africane.
Le ragioni politiche di quello sciagurato “patto sulla memoria” coincisero con le esigenze dei partiti della seconda repubblica che riaffermarono su quel terreno la rispettiva legittimità a guidare il paese nella democrazia dell’alternanza.
Tutto ciò all’alba della nascente “terza repubblica”, quella senza Senato elettivo e imperniata sul Cancellierato forte, potrebbe apparire addirittura superato. Il fattore storico-memoriale sembra aver perduto da un lato la centralità valoriale della legittimità democratica, rappresentata dall’alterità fascismo-dittatura; antifascismo-libertà, e dall’altro quel significato generale di lettura e senso del rapporto tra passato e presente in grado di connettere tra loro vissuti e vicende generazionali tanto distanti a settant’anni dalla Liberazione.
In questo quadro, con la crisi della rappresentanza acuita da quella economica, il conflitto sulla memoria cambia forma e tende a risolversi in un complesso unificante quanto identitariamente indefinito che forse meglio di ogni altra cosa si identifica con la nozione del “partito della nazione”. L’oblio sui crimini di guerra italiani piuttosto che le strumentalizzazioni politiche delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe sembrano perdere la loro stessa alterità, inglobate da una narrazione a-conflittuale, e tendenzialmente vittimaria, che tutto tiene insieme e dunque tutto equipara in modo indolore.
Così, aperto il settennato con la visita alle Fosse Ardeatine, il neo Presidente della Repubblica celebra pochi giorni dopo il “Giorno del ricordo” e l’immagine complessiva appare sempre più sfocata in un quadro della rappresentazione della storia patria che abbandonando la rielaborazione critica del passato si concentra sulla centralità di un presente senza storia.
Massimo Rendina, comandante partigiano, non c’è più. Aveva 95 anni (era nato a Venezia nel 1920), forse era nell’ordine delle cose, ma è difficile pensare a quello che resta dell’antifascismo senza di lui.
È stato una figura carismatica, un grande cuore e una straordinaria intelligenza, capace di appassionare gli studenti in tante scuole di Roma con la sua eloquenza antica e coinvolgente, con la tangibile passione per la libertà e la giustizia che lo animavano.
Presidente dell’Anpi regionale del Lazio, era stata la sua ostinazione a ottenere da Veltroni la creazione della Casa della Memoria a Roma. Ne era stato a lungo il principale animatore e la vera ispirazione: aveva la visione di un punto di riferimento internazionale, e con la sua competenza di uomo della comunicazione si adoperava (purtroppo con successo limitato) affinché disponesse delle più avanzate tecnologie per collegarsi con il mondo intero.
Ogni conversazione con lui era intessuta di ricordi dei suoi rapporti con figure importanti della storia, da Aldo Moro a papa Wojtyla, sempre raccontati con una prospettiva insolita, piena di rispetto ma mai subalterna.
La storia della sua vita è un filo che attraversa la storia d’Italia (una lunga intervista che facemmo alla Casa della Memoria bastò solo a raccontarne una metà; ne pubblicheremo una parte sul «manifesto» nei prossimi giorni).
Giornalista prima della guerra, poi ufficiale dei bersaglieri in Russia, ne torna ferito e aderisce subito dopo l’8 settembre alla Resistenza, nelle brigate Garibaldi con cui entrerà a Torino liberata il 25 aprile. Nel dopoguerra, lavora a «l’Unità», poi entra alla Rai, dirige il telegiornale, viene cacciato da Tambroni perché reo di antifascismo, e reintegrato da Moro. Continuerà a scrivere su giornali e riviste, e sarà autore di due libri utilissimi: Italia 1943-45. Guerra civile o Resistenza? (Newton, 1995) e il prezioso Dizionario della Resistenza italiana (Editori Riuniti, 1995).
Claudio Costa ha curato nel 2011 un film che porta il suo nome di battaglia, «Comandante Max», in cui Massimo Rendina racconta i suoi anni di guerra, in Russia e nella Resistenza.
Quando finalmente ci mettemmo seduti per un’intervista vera e propria, parlammo a lungo dei rapporti fra cristianesimo e comunismo. Era un cattolico convinto, restato sempre schierato a sinistra, in modo indipendente, critico, e proprio per questo incrollabile.
Per tutta la vita, ha continuato ad aderire non ai partiti, ma ai principi.
Me lo ricordo dopo un 25 aprile particolarmente difficile, a Porta San Paolo, quando Renata Polverini, allora presidente della Regione Lazio, ebbe la sfacciataggine di salire sul palco e alcuni dei partecipanti pensarono di punirla tirandole uova o qualcosa del genere – e colpirono Massimo invece. Lui questo gesto lo disapprovava e diceva: è quasi un fatto simbolico, certe forme di protesta, invece di colpire il bersaglio reazionario, finiscono per fare male a noi. Forse aveva ragione, forse no; ma ci stava male.
Un libro fon-da-men-ta-le, che deve circolare, che va diffuso con ogni mezzo necessario e letto dal maggior numero di persone possibile. La lettura spalanca il mondo davanti agli occhi. Questo saggio è uno strumento di lotta, è un’ascia di guerra dissepolta, alfine.
Claudia Cernigoi, dopo anni di ricerche, ha riscritto e ampliato la sua opera del ’97, Operazione “Foibe” a Trieste. Ora il libro parla anche dell’Istria e si chiama Operazione “Foibe” tra storia e mito, lo ha pubblicato la Kappa Vu di Udine nella collana “Resistenza storica”. Trecento pagine fitte e documentatissime, costa sedici euro e sono ben spesi. Mooolto ben spesi.
Cernigoi ha passato a pettine tutti gli archivi consultabili di qua e di là del confine. Il suo libro smantella con rara e lucida spietatezza le dicerie, le falsificazioni, le leggende contemporanee e le buffonate che, modellate dalla propaganda nazionalista sul confine orientale, si sono fatte strada nell’opinione pubblica senza mai essere messe in questione, fino a spingere il Parlamento a istituire una giornata commemorativa. Nel mentre, si è realizzata una fiction campionessa d’ascolti basandosi su fandonie che i vari “foibologi” hanno preso di pacca da “Questo è il conto!”, opuscolo in lingua italiana diffuso dai nazisti sul Litorale Adriatico, subito dopo i venti giorni del “potere popolare”, nel 1943.
Operazione “Foibe” tra storia e mito deve diventare IL testo di riferimento per chi voglia occuparsi di “foibe” in modo scientifico, e non sto parlando di geologi.
Cernigoi dimostra che le liste degli “infoibati” sono state oggetto di pesanti manipolazioni. In quegli elenchi, gli pseudo-storici delle “foibe” (molti dei quali neofascisti: chi proveniente da “Ordine Nuovo”, chi coinvolto nel golpe Borghese etc.) hanno infilato tutti i dispersi, compresa gente che nel frattempo era tornata a casa, non con le gambe in avanti o dentro un’urna bensì viva e vegeta. I “foibologi” hanno aggiunto anche i nominativi di partigiani e civili uccisi dai nazifascisti. Come spiega molto bene l’autrice, l’infoibamento fu teorizzato, evocato, minacciato dal nazionalismo italiano fin dall’inizio del secolo, per esser poi messo in pratica durante l’occupazione nazifascista. Va aggiunto che molti nomi di “infoibati” sono doppi o addirittura tripli, sovente la stessa persona figura “infoibata” in posti diversi, e in un caso tre nominativi di presunti “infoibatori” (Malvagi Partigiani Slavo-Comunisti) figurano pure nella lista dei relativi “infoibati”! Della serie: se la cantano e se la ridono.
Una lista in particolare, quella degli “infoibati” (in realtò comprensiva di tutti i dispersi) della provincia di Trieste, dopo attento esame registra una percentuale d’errore superiore al 65%. Su 1458 nomi, ben 961 si rivelano sbagliati!
Tutti gli altri caduti (e nemmeno questi furono tutti “infoibati”) erano torturatori della Milizia di Difesa Territoriale o della X Mas, massacratori vari, collaborazionisti, delatori, etc. Di molti di costoro Cernigoi fornisce il cursus honorum, ricavato da documenti e fonti d’epoca. A conti fatti, viene smentita la propaganda sugli ammazzati “solo perché italiani”. I motivi erano ben altri. Il “feeling” non era antitaliano, ma antifascista.
Quanto alla soppressione del CLN di Trieste da parte dei “titini”, spesso citata come esempio di politica fratricida tra nemici del fascismo, Cernigoi spiega in modo chiaro che – a causa della repressione tedesca – in città si susseguirono ben tre CLN, molto diversi l’uno dall’altro, l’ultimo dei quali composto da loschi figuri di destra, anche ex-X Mas. Col paravento dell’antifascismo, costoro cercavano addirittura alleanze con residui del regime fascista in funzione nazionalista e anti-slava, inoltre preparavano – e in alcuni casi eseguirono – attentati e azioni armate contro i partigiani di Tito. Risulta abbastanza normale che questi ultimi abbiano deciso di arrestarli, portarli a Lubiana e colà processarli.
Per quanto riguarda i finti “infoibati”, è particolarmente buffo (si fa per dire) il caso di Remigio Rebez, “il boia di Palmanova”, tenente della X Mas e feroce torturatore. Condannato a morte dopo la Liberazione, gode dell’amnistia di Togliatti (o meglio, della sua interpretazione estensiva da parte dei magistrati) e si trasferisce a Napoli, dove muore addirittura nel 1996. La stampa triestina dà notizia del suo decesso, gli dedica distici elegiaci, ma si guarda bene dal dire ai lettori che il suo nome figura sulle liste degli “infoibati” fornite da vari storici di destra come Papo, Pirina etc.
Un altro esempio di chi e cosa si possa trovare in quegli elenchi: viene presentato come “vittima degli slavi” tale Eugenio Serbo, “capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14/12/44 a Leitmeritz”.
Lapidaria, Cernigoi: “Leitmeritz è però il nome tedesco di Litomerice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin, praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificato ‘Slavi’ nominati da Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco”.
Anche soffiando e gonfiando e gonfiandosi, come la rana che vuol competere col bue, i “foibologi” non sono mai riusciti a presentare elenchi plausibili. L’ammontare complessivo delle “vittime” non superebbe le 500 persone tra Venezia Giulia e Litorale Adriatico. Il resto (“decine di migliaia di vittime” etc.) è fantasy, non c’è nessun riscontro documentale. L’anno scorso il ministro Gasparri parlò addirittura di “milioni di infoibati”, ma la verità è che siamo ben lontani da quel “genocidio per mano rossa” cercato disperamente dalla destra per contrapporlo alla Shoah e poter ricorrere al “benaltrismo” ogni volta che si parla di leggi razziali, Salò, stragi etc.
Cernigoi non nega che vi siano state vendette personali ma, ricostruendo il contesto e riportando alla luce materiali d’archivio, dimostra che si trattò di azioni individuali e sporadiche, non certo di una politica di sterminio o “pulizia etnica” da parte dei partigiani jugoslavi.
Altre truffe sono i resoconti degli scavi avvenuti nel dopoguerra, a opera di società speleologiche che stavano alla destra fascista come il negozio di fiori sta al Gruppo TNT. Più ci si allontana nel tempo, più si moltiplicano i morti trovati nella data foiba. Se, putacaso, nel ’46 erano otto, si può star sicuri che oggi si dice che erano ottanta, e così via. La stessa foiba di Basovizza, divenuta monumento nazionale e frequente location di picchetti e commemorazioni, è più un oggetto di propaganda che di seri studi storici. Non è stato dimostrato in alcun modo che in fondo a quella cavità carsica sia finito “un numero rilevante di vittime, civili e militari, in maggioranza italiani, uccisi ed ivi fatti precipitare”. Alla sola Basovizza, Cernigoi dedica un capitolo che pare la messa in scena di una lunga, macabra pochade.
La “tragedia delle foibe” è una truffa ideologica, e la cosa peggiore è che studiosi come Cernigoi e Sandi Volk (autore di un altro saggio importante e recensituro, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, 2005) sono praticamente i soli a confutarla con gli strumenti della storiografia. La propaganda di destra viene accettata a cresta bassa anche a “sinistra”, Bertinotti compreso. Tutt’al più si tratteggia vagamente il contesto, si fanno dei distinguo, gli eredi del PCI se ne chiamano fuori dicendo “Noi coi titini non c’entriamo niente” etc.
Invece andrebbe smantellato tutto, ma proprio tutto, e senza alcun indugio.
Chi va in visita oggi al villaggio di Podhum, distante una decina di chilometri da Fiume, può ottenere informazioni sulla tragedia consumatasi in quel luogo il 12 luglio 1942 dal signor Branko Cargonja, nato nel 1941. Aveva un anno di età quando, insieme a sua madre, finì in un campo di concentramento nei pressi di Palermo in Sicilia.
Oggi è presidente dell’UAB, associazione dei combattenti antifascisti di Cavle, una borgata della quale quanto resta di Podhum è una frazione. Nelle immediate vicinanze di Podhum, costruito nell’immediato dopoguerra, si può visitare un Parco della Rimembranza, circondato da un alto muro, al cui interno sorge un altissimo monumento a forma di fiore i cui petali sono formati da lastre di ottone: una per ciascun fucilato. Al centro del Parco, in fila, si vedono tombe ricoperte da lastre di marmo: tante quanti furono i fucilati. Tutto intorno al Parco, sul muro di cinta, all’interno, sono murate lapidi di bronzo con i nomi e la data di nascita di ciascun fucilato. Molti cognomi si ripetono. Ban, Barak, Baretincic, Brnja, Burul, Caval, Cucic, Grabar, Hatezic, Juricic, Kukuljan, Marsanic, Matejcic, Petrovic, Reljac, Rozic, Stancic, Stipic, Skaron, Supak e Zezelic: sono i cognomi delle persone che persero la vita, fucilate dai soldati italiani quel 12 luglio, in un campo ai piedi di una collina non lungi da Podhum. Le vittime di quel massacro, compiuto per ordine del prefetto della Provincia del Quarnero Temistocle Testa ed eseguito sotto il comando del maggiore Armando Giorleo, erano tutti abitanti di Podhum che fu poi dato alle fiamme. I fucilati erano maschi per lo più dai 16 ai 64 anni. I bambini, i vecchi e le donne, l’intera popolazione del paese, furono deportati nei vari campi di internamento in Italia, dai quali parecchi di loro non fecero più ritorno.
L’eccidio fu compiuto, secondo Testa, per vendicare “sedici soldati uccisi dai ribelli di Podhum” nella prima decade di luglio, mentre fonti del Fascio di Fiume puntarono il dito, all’epoca, sulla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, mandati dal regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare i “barbari slavi”. Nel caso concreto dovevano essere snazionalizzati i bambini di un villaggio, Podhum appunto, che insieme all’intera vasta regione alle spalle di Fiume, era stato annesso alla nuova Provincia del Carnaro. La quale, dopo essere stata una delle più piccole provincie del Regno sabaudo, si gonfiò a tal punto con l’incorporazione del Gorski Kotar fino al fiume Kupa, da diventare una delle maggiori dell’Italia, ma al tempo stesso la meno italiana, con una popolazione al 90 per cento “allogena”, e cioè croata e slovena. Le fonti italiane non hanno mai fornito informazioni precise sui due coniugi, dei quali non indicano neppure le date di nascita, né le loro professioni, limitandosi a recitare: “soppressi a Podhum da parte jugoslava” il 16 giugno 1942 (cfr. “Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni: 1939 1947”, ediz. Società di Studi Fiumani, Roma, 2002). Secondo le fonti partigiane i due maestri elementari vennero fucilati il 14 giugno, dopo un processo sommario, “per attività di spionaggio” condotta dai coniugi Renzi contro il Movimento di Liberazione. In particolare Giovanni Renzi viene indicato come “organizzatore e capo di una banda di miliziani belogardisti al soldo dei servizi segreti militari italiani”. I due maestri, peraltro, erano malvisti, anzi odiati dalla popolazione di Podhum per le dure e immeritate punizioni e i maltrattamenti inflitti ai bambini loro affidati solo perché non riuscivano ad esprimersi in italiano. Da parte mia ho appurato che la donna, nativa di Patti in provincia di Messina, aveva cinquantanni, mentre lui, nativo di Trieste e “di qualche anno più anziano”, era “seniore” della Milizia fascista (MVSN).
In un resoconto telegrafico del prefetto Testa, rimasto nel ricordo della popolazione come “il boia del Fiumano e dei Territori Annessi della Kupa”, non vengono menzionati i Renzi come coloro che furono all’origine della repressione per vendetta delle truppe italiane. Il “caso” di Podhum si inserisce, in verità in un disegno generale di sterminio delle popolazioni slave sui territori annessi della Slovenia e della Croazia nel quadro, cioè, di un’operazione preparata accuratamente. Risale al 1° marzo 1942 la malfamata Circolare “3-C” del generale Mario Roatta comandante della II Armata operante in quei territori, un documento programma (riassunto in un opuscolo di circa 200 pagine e distribuito a tutti gli ufficiali dell’esercito), grazie al quale nel solo mese di luglio 1942 furono deportati diecimila civili dai territori coinvolti in una cosiddetta Operazione Primavera. Le direttive di quella circolare assunsero come cardine operativo il principio di spopolamento tramite la deportazione dei civili e il massacro dei “ribelli”. In altre parole, la “3C” di Roatta, contenente tra l’altro la formula “non dente per dente ma testa per dente”, rappresentò il paradigma di una normativa repressiva di tipo coloniale nei confronti delle popolazioni dei territori annessi destinati alla bonifica etnica con i mezzi più brutali, facendo terra bruciata, in vista di una imminente colonizzazione italiana. Con documenti alla mano lo spiega lo studioso Davide Rodogno nel suo volume “Il Nuovo Ordine Mediterraneo” (2003) e in un saggio sui territori occupati in Slovenia e Croazia apparso sulla rivista triestina “Qualestoria” (2004) dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia.
Piani di sgombero della popolazione
Le operazioni per lo “sgombero di intere popolazioni” mediante distruzione di villaggi, fucilazioni e internamenti erano cominciate in Slovenia e Dalmazia in aprile, ramificandosi col passare delle settimane. Stando al Rodogno, il 23 maggio, a Fiume, Roatta incontrò Mussolini, il quale ribadì che “la migliore soluzione si ha quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario”. A sua volta Roatta “espose al duce il suo personale metodo per risolvere la situazione”. Bisognava innanzitutto “chiudere la frontiera con la (nuova) provincia di Fiume e con la Croazia, sgomberare tutta la popolazione che abitava ad oriente del vecchio confine, sgomberare tutta la regione per una zona di profondità variabile da 3 a 4 chilometri”. Mussolini concordò “nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone”. Nello stesso mese di maggio, infatti, furono dati ordini per approntare campi di internamento per ventimila persone, alle quali si sarebbero unite in seguito alcune centinaia di migliaia per far posto a coloni italiani (un piano che non sarà realizzato per la capitolazione dell’8 settembre 1943), sicché il numero complessivo dei campi di internamento distribuiti lungo l’intero territorio del Regno d’Italia, senza considerare quelli costruiti nelle regioni occupate dell’Adriatico orientale, raggiungerà la cifra di duecento. Nel giugno 1942 si passò alla fase esecutiva con la benedizione di Mussolini, secondo il quale si doveva reprimere la popolazione “con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri”. Parole alle quali va accostata, per la regione dei Territori Annessi alla Provincia di Fiume, la definizione del Prefetto Testa, secondo il quale l’occupazione italiana di quei territori era “il più efficiente esempio di colonizzazione (…) di un popolo che ogni giorno di più sta dimostrando di essere quello che è sempre stato, cioè una razza inferiore che deve essere trattata come tale e non da pari a pari”. Era razza inferiore solo perché si ribellava all’asservimento (cfr. Teodoro Sala “Guerra e amministrazione in Jugoslavia 1941-43: un’ipotesi coloniale” in Annali della Fondazione Luigi Micheletti, l’Italia in guerra, N. 5/1990-1991). Leggi tutto “12 luglio 1942: Strage di Podhum”
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, intervengo sul provvedimento “Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milosevic; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.
Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di riaprire qualche libro di storia e di riascoltare le versioni ed i racconti di alcuni rappresentanti dell’Associazione nazionale partigiani. Da questo punto di vista è senz’altro utile – lo suggerisco – la lettura dei “Quaderni della Resistenza” pubblicati da parte del Comitato regionale dell’ANPI del Friuli-Venezia Giulia.
La memoria storica va sottratta alla speculazione. Quando parliamo di seconda Guerra mondiale, di fascismo e di Resistenza vi è un’unica storia. Questa storia riguarda tutti gli italiani ma – direi – anche tutti gli europei. È una storia che non può essere né ignorata né oltraggiata. È incontestabile, allora, che la Germania nazista e l’Italia fascista, scatenando la seconda Guerra mondiale, si macchiarono della responsabilità di causare all’umanità oltre 50 milioni di morti, la metà dei quali, circa 25 milioni, civili.
Tra il 1940 e il 1945 si verificò un vero e proprio scontro di civiltà. La libertà e la democrazia alla fine prevalsero, ma il prezzo pagato fu senz’altro immane. Né la “riconciliazione” di cui oggi si parla può comportare il riconoscimento di valori comuni fra chi combatté per restituire il mondo alla libertà e alla democrazia e chi propugnò la cosiddetta civiltà dei cimiteri, dei reticolati e del cono d’ombra dell’Olocausto.
A quasi sessant’anni di distanza, guardiamo con sentimento di cristiana pietà a tutti i morti. Di fronte alla morte, il giudizio si interrompe! La morte rende tutti uguali! Ma fermo e dirimente rimane il giudizio sulle vite consumate. Quelle vite possiamo continuare a giudicare: le vite per la libertà e le vite per il regime. “Tutti uguali davanti alla morte, non davanti alla storia”, scrisse Italo Calvino.
E ancora, possiamo interrogarci non sulle ragioni, ma sulle motivazioni di chi quasi per un soffio o per un impennamento dell’anima, scelse, giovanissimo, di stare dall’altra parte della barricata. Rispondere a queste motivazioni significa trovare una spiegazione storica, non una giustificazione. E comunque nessuna revisione storica potrà mai cancellare gli orrori di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e della Risiera di San Sabba. Nessuna revisione storica potrà mai cancellare i campi di sterminio di Dachau, di Auschwitz e le tante altre stazioni di un’interminabile via crucis di dolore e di vittime innocenti.
La nuova Europa, della quale l’Italia è parte importante e integrante, e che andrà via via comprendendo gran parte dei Paesi dell’Est europeo, nasce dalla Resistenza e dalla liberazione dal nazismo e dal fascismo. Dobbiamo avvertire in modo forte la necessità di ravvivare il ricordo di una storia di cui si rischia di perdere traccia.
Ai giovani andrebbe spiegato che c’è una differenza sostanziale tra dittatura e democrazia e che la forza di una Nazione come la nostra, ma direi la forza dell’intera Europa, sta proprio nella sua memoria storica, non come eredità di un odio e di una vendetta, ma come memoria costitutiva della sua vita civile e politica. L’Europa unita non potrà permettere che rinascano gli orrori del passato.
La nuova Europa ha davanti a sé grosse responsabilità: i problemi enormi di interi popoli che devono riorganizzare il loro futuro sulla democrazia e sulla libertà, affermando il valore universale della pace e della convivenza tra gli uomini come attuale e vitale esigenza, ricostruendo una cultura che sappia ascoltare e che sia in grado di considerare le diversità come una ricchezza.
Nelle zone della frontiera orientale, nelle terre istriane e dalmate, per secoli italiani e slavi hanno vissuto in pace, senza violenza alcuna. L’equilibrio tra le diverse etnie fu mantenuto prima, e per diversi secoli, dalla Repubblica di Venezia, successivamente dalla stessa Austria.
A rompere questo equilibrio è stato il nazionalismo fascista, che introdusse ogni sorta di violenza, compreso un vero e proprio genocidio culturale. Si può dire che la spirale d’odio fu innescata dal discorso di Mussolini a Pola, già nel 1920: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.
Fu così! All’avvento del fascismo seguì una politica di “snazionalizzazione” nei confronti di oltre mezzo milione di slavi incorporati nel Regno d’Italia dopo la prima Guerra mondiale. Il fascismo proibì a queste popolazioni di parlare la loro lingua e di stampare i propri giornali; si chiusero le loro scuole, si sciolsero le loro organizzazioni culturali, sportive e ricreative; si bruciarono le loro sedi.
Si volle, in questo modo, italianizzare e fascistizzare tutta la Venezia Giulia, eliminando ogni espressione politica e culturale slava. Si italianizzarono persino i cognomi. Si trattò di una sistematica opera di colonizzazione dei territori slavi della Venezia Giulia; molti contadini slavi furono cacciati e le loro terre affidate a contadini italiani. Il tribunale speciale emanò sentenze di condanna a morte anche nei confronti degli sloveni, colpevoli – si dice – di cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni italiane.
Il 5 aprile 1941 l’Italia dichiarò guerra al Regno di Iugoslavia. Fu un’aggressione, come si sa, assolutamente immotivata. La Iugoslavia soccombette alle 56 divisioni italiane, tedesche, ungheresi e bulgare. Fu l’inizio di una violenza inaudita, di massacri di civili, di fucilazioni di partigiani. Lo Stato iugoslavo fu smembrato e diviso tra la Germania e l’Italia. In Croazia il Governo fu affidato ad un fascista croato, Ante Pavelic, e agli ustascia. Vennero armati cetnici e ustascia, che iniziarono una lunga lotta intestina che causò quasi 800.000 morti.
Iniziarono anche le deportazioni di massa: decine di migliaia di civili, vecchi, donne e bambini, vennero rinchiusi in tanti lager gestiti da italiani, come quello di Arbe, l’attuale Rab. È questa un’altra pagina vergognosa dell’occupazione italiana della Slovenia che contribuì ad allargare la spirale d’odio.
Dopo l’8 settembre il Friuli e la Venezia Giulia escono dalla sovranità italiana per essere affidati a un commissario nazista. Con ordinanza di Hitler si costituì la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana; territori destinati a diventare una marca del Terzo Reich tedesco, qualora la Germania avesse vinto la guerra.
Le formazioni fasciste della Repubblica Sociale vennero usate per l’attività poliziesca, delatoria e antipartigiana sotto il comando delle SS. Questo fu il vero ruolo dei fascisti, del Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” e dei battaglioni della X MAS, tanto cari all’onorevole Menia da citarli – come dicevo – nella relazione al provvedimento in esame!
La resistenza iugoslava agli aggressori fascisti e nazisti iniziò già nel luglio del 1941; come si sa, fu guidata dai comunisti di Tito unitamente alle diverse espressioni del nazionalismo iugoslavo. Si fece valere l’equazione “italiano uguale fascista”, equazione che le migliaia di italiani che morirono combattendo al fianco delle formazioni partigiane slave riuscirono solo in parte a mettere in discussione. Del resto, tale equazione era stata introdotta e diffusa proprio da Mussolini.
Qui va ricercata la ragione per cui le foibe del 1943 in Istria furono la tomba anche di qualche innocente che aveva il torto di essere italiano.
Dopo l’8 settembre molte regioni iugoslave insorsero contro gli invasori perpetrando persecuzioni particolarmente violente. Le vittime furono, a volte, semplici impiegati comunali, simbolo del potere dominante italiano, commercianti e piccoli gerarchi locali, sacrificate sull’altare di vendette personali che poco c’entravano con la politica e la guerra.
Tristemente esemplare – lo voglio ricordare – è l’uccisione della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole unicamente di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. L’allora rettore dell’università di Padova, il grande antifascista professor Concetto Marchesi, volle apporre una targa in ricordo della studentessa presso la sua università.
È indubbio che tra gli insorti vi fu anche la presenza di autentici criminali. La vicenda delle foibe è stata, sicuramente, una grande tragedia. È comunque da rifiutarsi, perché aberrante, un accostamento tra foibe da una parte e Shoah dall’altra che, con la Risiera di San Sabba, visse sul confine orientale una pagina particolarmente drammatica. Quest’ultima fu il frutto razionale e scientifico dell’ideologia nazista, la stessa che produsse Auschwitz, Mathausen e Dachau.
I partigiani slavi e italiani non hanno mai avuto tra le loro finalità la purezza della razza, così come risulta fra l’altro dalla relazione finale della commissione mista italo-slovena che recentemente ha concluso i propri lavori.
Diversamente i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati inferiori: ebrei, slavi, zingari. Stessa sorte era ovviamente riservata agli oppositori politici. Il metodo adottato dai nazisti era il ricorso agli eccidi di massa, alle stragi, alle rappresaglie contro ostaggi innocenti. Ecco allora che usare le foibe come contraltare dell’Olocausto per dimostrare che tutti sono stati ugualmente colpevoli e operare, così, una indiretta rivalutazione del fascismo è un esercizio da evitarsi.
Rimane la gravità degli infoibamenti anche come conseguenza dello scoppio di odi e rancori collettivi a lungo repressi.
Alle foibe del 1943 seguirono le foibe dell’aprile-maggio 1945. Anche in questo caso vi furono coinvolti non solo fascisti e nazisti, ma altresì persone che con il fascismo non c’entravano: è ragionevole pensare, allora, che qualcuno c’entrasse in quanto italiano. Fu sicuramente la conseguenza dell’odio che permeava il confine orientale; fu la conseguenza dell’imbarbarimento dei costumi, dello stravolgimento dei valori, degli odi nazionali.
Nelle foibe finirono anche esponenti del CLN che si opponevano all’annessione dei territori italiani di confine da parte di Tito, il quale, sul finire del conflitto, assunse l’antico comportamento di tutti i vincitori di guerra: annettere parti, anche consistenti, del territorio degli sconfitti, proprio nella logica del nazionalismo espansionistico.
E, infine, è possibile collegare le foibe con l’esodo, è possibile, cioè, considerare l’esodo come la conseguenza della paura delle foibe?
Un illustre istriano, il professor Diego de Castro, autore di due pubblicazioni (“La questione di Trieste” e “Memorie di un novantenne”) lo esclude. Se si fosse trattato di pulizia etnica i morti sarebbero dovuti ammontare a centinaia di migliaia. Le motivazioni erano, piuttosto, politiche e non etniche.
Si può dire, in riferimento all’esodo, che solo le persone fuggite nel maggio 1945 lo fecero per paura dell’infoibamento: si trattava di persone compromesse con i fascisti e con i nazisti. Sicuramente i grandi esodi, da Fiume nel 1946 e da Pola nel 1947, non sono ascrivibili a questa paura.
Non è certamente ascrivibile alla paura delle foibe l’ultimo esodo, quello del 1955, conseguente all’Intesa di Londra dell’ottobre 1954 che definì la spartizione del territorio libero: Trieste all’Italia e la zona B, comprendente fra le altre le cittadine di Pirano, Umago, Porto Rose, Isola e Capodistria alla Iugoslavia. L’esodo fu la conseguenza di una precisa scelta di libertà: vivere sotto il regime comunista di Tito, con un confine chiuso e una frontiera invalicabile, o, invece, scegliere l’Italia.
Si trattava di optare per la cittadinanza italiana o per quella iugoslava. Per la grande maggioranza degli istriani era impensabile vivere separati da Trieste, considerata la vera capitale dell’Istria.
Questa è stata la vera tragedia dell’Istria, assieme, ovviamente, a quella degli infoibati, che vanno ricordati con pietà e ai familiari dei quali è doveroso conferire una medaglia in ricordo, escludendo coloro i quali hanno compiuto efferati delitti contro la persona e hanno giurato fedeltà e volontaria sudditanza al supremo commissario del Terzo Reich.
L’esodo è stato un’immane tragedia umana. Una ferita che, così come è stato scritto, inciderà fino alla morte nell’animo di tutti coloro i quali abbandonarono la propria terra. Per questo l’abbandono non rappresentò l’ultimo momento del dolore, ma soltanto il suo inizio.
Una tragedia, dicevo, immane che, come sostiene Mario Bonifacio, istriano, classe 1928, antifascista, andatosene con la famiglia da Pirano nel 1955 e che oggi vive a Venezia ed è attivo nell’Istituto storico della Resistenza di quella città, determinò la scomparsa dei cosiddetti istro-veneti, la popolazione veramente autoctona dell’Istria, almeno da 2.500 anni. Si tratta dei discendenti degli Istri, affini ai Venetici e, al pari degli altri veneti, culturalmente latinizzati da Aquileia.
Questa è storia! Io voterò questo provvedimento! Lo farò perché ritengo giusto ricordare chi è morto in modo orrendo nelle profondità delle foibe carsiche. Lo farò perché ritengo sia inderogabile ricordare il dramma dell’esodo istriano-dalmata; vorrò farlo, però, nella chiarezza più assoluta.
Delle nefandezze e delle violenze perpetrate anche dall’esercito italiano in Iugoslavia mi ha parlato a lungo un artigliere, mio padre. La sua divisione, nel Sud della Iugoslavia, dopo l’8 settembre 1943, si riscattò combattendo non contro, ma assieme alle partigiane e ai partigiani di Tito; non facendosi prendere dai tedeschi, ma facendo prigioniera un’intera divisione tedesca. Poi, gli artiglieri italiani si imbarcarono per Bari e da lì, assieme agli Alleati, parteciparono alla liberazione totale dell’Italia. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).
Il Giorno del ricordo: nessun accenno ai campi e agli aguzzini del fascismo. Da Arbe a Gonars al Veneto e alla Toscana: migliaia di deportati e di vittime (di MARIO QUAIA )
Per loro non c’è spazio nel calendario. Sono stati privati sia della memoria che del perdono. Sono i morti – qualche migliaio – nei campi di concentramento italiani. A opera degli aguzzini del Duce. La maggior parte erano sloveni e croati, ma tra le vittime si contano anche ebrei e zingari. Moltissimi i bambini. Di loro nessuno ne vuole parlare. Forse erano scomodi anche per la propaganda politica che da sempre ha accompagnato le campagne elettorali su queste terre di confine. Il tema è sempre stato ben delimitato: le violenze titine e le foibe. Su tutto il resto, cioè gli antefatti, soltanto oblio.
Eppure, a distanza di settantanni, la documentazione è imponente. Gli archivi hanno restituito rapporti, statistiche, verbali, testimonianze e perfino fotografie. Il giudizio degli storici è pressoché unanime: si è trattato di veri e propri lager con efferatezze inaudite. Il loro parere, semmai, diverge sul numero dei campi e sul numero degli internati.
Secondo Fabio Galluccio, il numero dei diversi luoghi di detenzione (campi di concentramento, campi per l’internamento militare, colonie di confino, campi per l’internamento civile) era 200; Luciano Casali ne conta 259. A giudizio dello storico Carlo Spartaco Capogreco (I campi del Duce, Einaudi) gli sloveni e i croati deportati dalla primavera del 1942 all’8 settembre 1943 furono non meno di 25 mila.
Domenica è stato celebrato il Giorno del ricordo per rendere un doveroso omaggio alle vittime delle foibe, istituito dal presidente Carlo Azeglio Ciampi e sostenuto dal presidente Giorgio Napolitano. Una scelta felice e condivisa dopo gli anni dell’oblio, della contrapposizione ideologica, delle accuse e dei rancori. E sulle recenti e numerose manifestazioni si è fatto leva sui sentimenti di pietà, sulla riappacificazione e sulla verità quale monito per il futuro.
Sui lager, però, ancora silenzio. Tombale. Perché? Perché negare ancora? Perché nascondere ancora le nostre responsabilità quando anche la Germania, per bocca del cancelliere Angela Merkel, ha sostenuto che «la nostra responsabilità nei crimini nazisti è perenne?». E la nostra responsabilità? Sulle torrette di guardia, nei nostri campi di concentramento, c’eravamo noi “italiani brava gente”.
Ad Arbe (Rab), nella provincia di Fiume; a Melada (Molat), nel Governatorato della Dalmazia; a Gonars (Udine), a Monigo in provincia di Treviso; a Chiesanuova in provincia di Padova; a Colfiorito, in provincia di Perugia e a Renicci, in provincia di Arezzo. È in questi luoghi che si è compiuto un altro genocidio. Settemila sloveni non tornarono più e i croati furono più numerosi.
Sull’isola di Arbe il lager più importante. I prigionieri alloggiavano in tende all’interno di quattro campi distinti, più un cimitero dove finivano i tanti che morivano per fame e freddo. Su circa 7.500 internati i morti accertati furono 1.435, tra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai dieci anni, con un tasso di mortalità superiore a quello registrato a Buchenwald.
La responsabilità di tutta l’organizzazione era affidata al comandante Mario Rabotti, di cui è trapelata dagli archivi una sua celebre frase: «Qui si ammazza troppo poco». Il campo era affidato alle dirette responsabilità del colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, «un mostro dalle sembianze umane», come si legge nel sito della comunità ebraica di Milano: «Sadico e fascista fanatico portava sempre con sé una frusta che utilizzava volentieri». A futura memoria la testimonianza di padre Odorico Badurina, ospite nel convento di Kampor sull’isola: «Gli italiani volevano distruggere gli internati con la fame».
Su quel periodo terribile e buio ha dedicato molte ricerche Alessandra Kersevan, storica e insegnante di questa regione, che ha poi dato alle stampe Lager italiani (Nutrimenti). Fonte principale, gli archivi della Prefettura di Udine dove, in quegli anni, ha operato l’ufficio censura dell’esercito di Mussolini. Documenti ma soprattutto testimonianze. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
«Non c’era niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente»; “Ad Arbe dormivamo sulla paglia, come le bestie. I bambini morivano di fame, nascondevamo i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri». Del resto, gli ordini erano ordini.
Cosi Benito Mussolini, durante un incontro con i suoi generali che si tenne a Gorizia alla fine del luglio ’42: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria va interrotta. È incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. Questa popolazione (sloveni e croati, ndr) non ci amerà mai».
A distanza di settant’anni che non sia il caso di chiedere scusa? Ricomporre anche questa pagina di storia strappata? E andare in delegazione a Rab e deporre una corona di fiori?
“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”
Martedì 10 febbraio 2015 alle ore 17.30, presso la sede della C.G.I.L. di Mirano via Porara, sarà indetta, dalla sez. ANPI “Martiri di Mirano”, un’assemblea organizzativa per valutare i tempi e i modi per una serie di iniziative, di informazione e mobilitazione, riguardo le proposte di revisione costituzionale e di riforma della legge elettorale in discussione in Parlamento.
Sono invitate tutte le forze democratiche che operano all’interno della società civile che, in questi mesi, stanno assistendo, con grande preoccupazione, ai pericolosi tentativi di alterare gli equilibri tra la libera volontà degli elettori e le forme parlamentari di rappresentanza e governo sino ad ora sancite dalla Costituzione, nata dalla Resistenza.
L’assemblea è organizzata in collaborazione con la “Rete per la Costituzione” di Venezia
Mirano, 2 febbraio 2015
Il segretario Bruno Tonolo
Oggi un Parlamento dichiarato illegittimo il 13 gennaio 2014 dalla Corte Costituzionale, massimo organo dell’ordinamento statale, sta per modificare la Costituzione Italiana.
Tutto questo pone alcune domande a cui cercheremo di dare una risposta:
1. Cosa sanno i cittadini della discussione in corso in Parlamento sulla modifica della Costituzione e sulla nuova legge elettorale che dovrebbe sostituire l’incostituzionale Porcellum?
Essere informati per esercitare i propri diritti civili e politici: è questa la premessa dell’agire democratico.
2. Può un Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, approvare una nuova legge elettorale che ripropone i difetti della precedente? Può questo Parlamento modificare il sistema istituzionale espresso dalla seconda parte della Costituzione?
La sovranità appartiene al popolo e deve essere esercitata nelle forme e nei limiti sanciti dalla Costituzione: è questa la prima regola di uno Stato costituzionale. In uno Stato costituzionale la volontà del popolo deve trovare espressione in un legittimo Parlamento.
3. L’organo legislativo che è espressione della nostra Repubblica parlamentare può garantire la rappresentanza dei cittadini se proviene da liste bloccate e da un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione più votata? In una democrazia è accettabile che in nome della “stabilità di governo” venga sacrificato il principio della rappresentanza?
L’uguaglianza dei cittadini nel diritto di voto è necessariamente al centro di una democrazia rappresentativa. E’ il voto di ogni cittadino a garantire una democrazia, non lo sono né un meccanismo matematico né la scelta dei candidati fatta in altre sedi. Il rispetto della rappresentanza permette la stabilità di governo.
4. Quali conseguenze potrebbero ripercuotersi sui diritti dei cittadini con le modifiche alla Carta costituzionale e con una legge elettorale fondata su liste bloccate e sul premio di maggioranza?
Questa è la ricevuta e buono di restituzione per il finanziamento del movimento Giustizia e Libertà durante il periodo clandestino. Interessante l’appassionato appello contenuto sul retro del buono. Il possesso di questo documento veniva considerato dai fascisti come prova e giustificazione per la fucilazione immediata del possessore. (Grazie a Renzo Tonolo)
Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo. In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ‘900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hoffmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario. Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone». La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fascista emana l’ordine di arresto di tutti i Rom e Sinti italiani e non, e il loro trasferimento in specifici campi di concentramento. «Se non fosse arrivato l’8 settembre quelle persone sarebbero sicuramente transitate verso i campi di sterminio tedeschi, i collegamenti c’erano e i documenti provano questa linearità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fascisti salta completamente, riescono a fuggire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di competenza della Repubblica sociale, vengono arrestati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathausen». Qualcuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai partigiani, come dimostrano le storie del piemontese sinto Amilcare Debar o di Walter Vampa Catter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre circensi, giostrai e teatranti trucidati dalle Ss tra i dieci martiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza». Una memoria taciuta
Eppure del Porrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza.
I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».
Eleonora Martini, Il Manifesto del 25 gennaio 2015
Stiamo uscendo dalla democrazia parlamentare, ma la cosa sembra non interessare a nessuno.
Anche le opposizioni, interne ed esterne al partito di maggioranza relativa, agitano emendamenti su questioni abbastanza secondarie, come le preferenze, ma sembrano accettare il principio di fondo, lo stravolgimento della rappresentanza, il considerare le elezioni come pura e semplice investitura di un potere assoluto e senza controllo.
Mi pare che l’opposizione all’Italicum, in Parlamento come nel discorso pubblico, guardi all’albero senza vedere la foresta, come si usava dire. L’evidenza è quella di una legge-truffa che dà a un solo partito, che rappresenterà in ogni caso una minoranza relativa sempre più esigua di fronte al crollo della partecipazione popolare, una consistenza parlamentare spropositata, che può consentire di fare il bello e il cattivo tempo, di nominare tutte le cariche istituzionali, di correggere e stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza.
Distruggere insomma la divisione e l’equilibrio dei poteri che nell’esperienza repubblicana furono comunque salvaguardati.
La democrazia parlamentare è stata riconosciuta, da tutte le culture democratiche, come il quadro istituzionale in cui le lotte sociali potevano svolgersi liberamente e potevano ottenere conquiste durature, in un clima che pur nell’asprezza dello scontro poteva garantire condivisione di princìpi e ascolto di istanze. A maggior ragione ciò è stato compreso dopo le esperienze del Novecento, e la Costituzione repubblicana recepiva il lascito di quella consapevolezza.
Ma in Italia sembra essersi smarrita, nell’ultimo quarto di secolo, la nozione di cosa sia e a cosa debba servire il Parlamento: rappresentare fedelmente il paese, dibattere liberamente, elaborare e scrivere le leggi, non votare a comando i decreti del governo.
Si sta per abolire il Senato, trasformato in un “dopolavoro” di consiglieri regionali. Perché non abolire anche il Parlamento, a questo punto? Il contraente più anziano del Patto del Nazareno proponeva di far votare soltanto i capigruppo, col loro pacchetto di voti, e il ducetto di contado che domina questa fase terminale della democrazia italiana non sembra avere idee molto diverse quanto ad autonomia e libertà dell’istituzione parlamentare.
Il partito di notabili che si appresta a questo scempio del principio costituzionale sembra aver rinnegato tutta la sua esperienza repubblicana, e sembra oscuramente far riemergere dal suo lontanissimo passato solo l’antica propensione alle dittature di minoranza, dove il segretario di partito comandava su tutto (ma almeno si aveva il buon gusto di differenziare la carica di primo ministro).
Andiamo verso tempi durissimi, ancor più oscuri di quelli che abbiamo vissuto recentemente, nei quali sarebbe fondamentale avere istituzioni rappresentative che rispecchino realmente e fedelmente la società, pur nella sua frammentazione a volte caotica. Si procede invece verso la negazione di ogni forma di limpida rappresentanza, verso l’instaurazione di un rigidissimo principio oligarchico, che nega alla radice qualunque interlocuzione con la società.
Tutto questo è drammaticamente pericoloso, è una china che andrebbe arrestata in qualunque modo, prima che sia troppo tardi. Bisogna che qualcuno, anche tra i “corpi intermedi” così vilipesi e umiliati, cominci a mettere in dubbio la stessa legittimità di un potere minoritario che vuole spadroneggiare col sopruso, a contestare il delirio di onnipotenza di un’accozzaglia di parlamentari eletti con una legge incostituzionale e che pretende di riscrivere a suo piacimento la Costituzione.
Gianpasquale Santomassimo (Il Manifesto 21 gennaio 2015)