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24 agosto 1944: Strage di Vinca
La mattina del 24 agosto 1944 olte cinquanta automezzi carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salgono verso il paese di Vinca, toccando Equi Terme, Monzone e altri paesi.
Gli uomini del maggiore Reder e la Brigata Nera “Mai Morti” arrivano al paese di Vinca nella prima mattinata portandosi dietro anche un cannone salendo dal paese di Monzone, mentre altre colonne di nazifascisti accerchiano la zona salendo dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara.
Il paese e i campi circostanti vengono battuti palmo a palmo per tutta la giornata, di quelli che all’inizio del rastrellamento si trovavano dentro il cerchio solo due si salveranno. Il paese viene occupato da uno dei plotoni fascisti, devastato e poi incendiato. Alla sera i nazifascisti rientrano a valle.
Ma l’esperienza maturata in queste cose suggerisce di riprendere la mattina dopo: difatti gli scampati erano tornati a raccogliere i familiari uccisi e per salvare dalle fiamme quello che potevano. In questo modo riescono ad uccidere altre persone.
173 vittime come era già successo a Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo – Bardine e a Valla i cadaveri spesso sono rinvenuti nudi, decapitati, impalati o comunque in condizioni che permettono di misurare l’accanimento dei loro assassini.
Uno storico lunigianese, il prof. Fabio Baroni, punta i riflettori sulle responsabilità avute nell’efferata strage da parte di alcuni cittadini di Carrara. «Ci sono questioni che non si possono archiviare, purtroppo – scrive Baroni – una di queste è il carattere italiano della strage di Vinca. Ho tralasciato, lo scorso anno (2011), di tornare sull’argomento, che mi aveva prodotto offese e denigrazioni, affidando la dimostrazione della partecipazione massiccia di italiani, e in gran parte carrarini, alla strage ad uno scritto scientifico dal titolo significativo: “La strage di Vinca. Un olocausto che attende verità”, pubblicato sull’ultimo numero di Cronaca e Storia di Val di Magra. Da quello scritto si evince ancor di più la responsabilità dei fascisti carrarini, inviati da una importante autorità, allora, a Carrara, non solo nella strage ma negli atti più efferati di quella strage».
Caro nemico ti scrivo
La lettera dall’altra sponda della fine del mondo impiegò trentacinque anni per essere scritta. Fu il tempo necessario perché un ragazzo quattordicenne con la pelle penzolante dal braccio come una fodera strappata trovasse il coraggio di diventare vecchio e di non odiare più.
Akihiro Takahashi stava andando verso il suo ginnasio, alle 8 e 15 del 6 agosto 1944, quando un uomo di cui ignorava l’esistenza, ai comandi di un aereo che nessuno a Hiroshima aveva mai visto, fece volare da nove mila metri di altezza la prima bomba atomica usata in guerra sopra la sua testa, e sopra quella di altri duecentocinquantamila esseri umani.
Quando finalmente, ormai vicino ai cinquant’anni, le mani sfigurate dalle orrende cicatrici da radiazioni — i cheloidi — le orecchie dissolte nella città altoforno, gli organi interni consumati dal tenace lavoro dell’atomo, Akihiro poté finalmente guardare negli occhi colui che credeva fosse un demonio, il pilota dell’Enola Gay Paul Tibbets, vedette spuntare qualche lacrima. E pensò che fosse un uomo anche lui, al quale poter scrivere, con il quale parlare. Fu da quell’incontro diretto nel 1980, a Washington, che il ragazzo di Hiroshima e il cavaliere dell’Apocalisse cominciarono a scriversi.
Quel carteggio è improvvisamente affiorato dall’immenso serbatoio di rottami, di pezzi di vite umane, di cose e di dolore che ancora giace sotto la crosta della nuova Hiroshima. Fu il giapponese, che sarebbe divenuto direttore del Museo della Pace, costruito a pochi passi dal ponte a «T» che il bombardieredell’EnolaGayusòcome bersaglio, a impugnare il pennino buono, quello per la grafia elegante del kanji, degli ideogrammi, e a scrivere per primo.
Akihiro e Paul si erano conosciuti a Washington, nel giardino dietro al Russell Building, uno dei palazzi per gli uffici dei parlamentari, dove nel giugno del 1980 era stata organizzata una mostra sul bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki. La tv di Hiroshima, la RCC, aveva pagato il viaggio ad Akihiro, uno degli hibakusha, i superstiti, e aveva chiesto al colonnello pilota del B-29 Enola Gay di incontrare il giapponese. Tibbets aveva accettato, molto a fatica, e sei mesi dopo, in novembre, Akihiro Takahashi trova il coraggio di spedire la sua prima lettera. Comincia, con esemplare timidezza ed educata evasività nipponica a parlare del tempo. «È quasi inverno e qui comincia a fare freddo». Ma non è del clima che vuol parlare al bombardiere. In quel novembre, l’America ha eletto Ronald Reagan presidente e la fama, ingiusta, di “cowboy nucleare” terrorizza Akihiro. «Si ricorda che cosa ci dicemmo mentre lei stringeva le mia mani e sentiva con le dita le mie cicatrici? Ci dicemmo che quando la guerra comincia, va avanti secondo i piani e le dinamiche della guerra e per questo non bisogna mai cominciarla. Io le dissi che non provavo più odio verso l’America neppure mentre ogni giorno devo combattere con le sofferenze fisiche lasciate da quel giorno e certamente non verso di lei, che eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere… soprattutto ora che ho visto le lacrime di un cuore umano scivolarle dagli occhi». Ma, e qui viene al punto, «sono profondamente preoccupato per la politica estera del presidente Reagan… temo che si possa ancora intensificare la corsa agli armamenti nucleari. Spero che lei voglia sentire il cuore di Hiroshima e unirsi a noi nel cercare di impedire che quello che avvenne nel 1945 possa ripetersi. Dobbiamo, lei e io, tornare esseri umani, tornare al punto di partenza, dimenticare quello sfortunato evento».
Il colonnello Tibbets, divenuto nel frattempo generale e poi presidente di una società di aviazione civile impiegherà ben otto mesi per rispondergli. Scriverà a macchina, sulla carta intestata della società Aviation Jet, prendendo subito le distanze. «Chiedo scusa per il ritardo, ma molte cose sono accadute. Ho visto un bel documentario della BBC sulla mia missione e mi ha fatto piacere che abbiano rispettato i fatti, senza interpretazioni». Come per dire quello che Tibbets dirà fino alla morte, che lui aveva semplicemente eseguito, e alla perfezione, la mission, il trasporto e lo sganciamento di Little Boy, la Bomba A. Ma non fa passare la tirata su Reagan, anzi. «Sono contento che il signor Reagan sia succeduto al signor Carter. Penso che sarà un leader migliore per il mio Paese. Stia bene e in buono spirito».
La controrisposta arriva a stretto giro, appena tre settimane dopo, il 23 giugno 1982. Akihiro non molla: «Capisco che abbiamo opinioni diverse, ma mi permetta, dopo avere espresso la mia ammirazione per gli Stati Uniti, di dirle che la pace che a Hiroshima e Nagasaki sogniamo non può essere una pace costruita sulla potenza militare e sulla forza…». E qui, sempre con puntiglioso pudore giapponese, annota: «Ora devo andare tutti i giorni all’ospedale, per problemi al fegato, effetto della bomba atomica». Non lo dice, ma non ce n’è bisogno: quella bomba che tu,
Paul Tibbets, mi hai sganciato sulla testa, mentre andavo a scuola una mattina di agosto. Tibbets, il comandante di quell’aereo battezzato col nome della madre, Enola (che è lo spelling alla rovescia di Alone, sola, tratto da romanzo) non abbocca. È ancora più secco. «Le auguro che il suo nuovo incarico di direttore del Museo della Pace le dia grandi soddisfazioni e contribuisca a raggiungere quel traguardo al quale lei aspira».
Ci vuol altro per scoraggiare un uomo che camminò per ore verso il fiume sul quale galleggiavano cadaveri e dove si buttavano zombie in cerca di un impossibile refrigerio allo strazio delle ustioni. Il 5 ottobre 1982 gli scrive sei fogli fitti di ideogrammi, più disordinati, meno calligrafici, per invitare Tibbets ad apparire con lui in uno speciale della NHK, la autorevolissima tv pubblica giapponese. Gli illustra le bellezze della antiche città imperiali, Kyoto e Nara, cerca di convincerlo a vedere quella nazione nella quale Tibbets non mise mai piede dopo aver visto il fungo alzarsi fino a dodicimila
metri. Appena cinque righe: «Dopo lunga riflessione, purtroppo non posso accettare».
Paul Tibbets non risponderà mai più ad Akihiro Takahashi, che gli riscriverà quattro anni dopo, il 7 settembre del 1987, con un pretesto, una richiesta di dettagli tecnici sulla preparazione della bomba e la missione, tutte cose già notissime. È un modo per cercare di riattaccare discorso. Non funziona. Sedici anni passeranno ancora perché il ragazzo di Hiroshima, ormai ultrasettantenne riprenda calamaio, pennino e carta, nel 2003. «Sono passati vent’anni da quando ci stringemmo le mani e fui pieno di felicità e di speranza… ho lasciato il mio lavoro per il Comune di Hiroshima e mi dedico a raccontare ai bambini che cosa accadde e che cosa fare perché non accada più. Ormai ho 72 anni e non credo vivrò ancora molto. Mi farebbe felice sapere che anche lei, che deve averne ormai 90, dedicasse i suoi ultimi anni a costruire la pace». Silenzio.
L’ultima lettera di Akihiro Takahashi è del 28 agosto 2003, un altro agosto. Gli ha mosso la mano, una notizia che l’ha sconvolto. Dopo anni di abbandono, l’Enola Gay era stato recuperato, restaurato, esibito, in un hangar-museo in Virginia. La vista di quel gigante di alluminio, tornato lucido e nuovo come brillava nel sole del 6 agosto 1945, trafigge il cuore del superstite. «Fummo usati come cavie, noi abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Quell’aereo è la testimonianza di quello che un pastore americano venuto a trovarmi a Hiroshima chiamò il “peccato mortale” degli Stati Uniti, chiedendomi di perdonare. Lei avrebbe il coraggio di dirmi la stessa cosa? Restaurare ed esibire l’Enola Gay è soltanto ostentazione, glielo ripeto, la
scongiuro, quell’aereo va distrutto». Silenzio.
Paul Tibbets morirà quattro anni dopo avere ricevuto l’ultima lettera, il primo novembre 2007. Akihiro Takahashi era stato pessimista: avrebbe vissuto ancora a lungo, dopo l’ultima lettera, perché il destino che aveva fatto di lui uno dei soli quindici sopravvissuti su settanta compagni di scuola lo avrebbe tenuto vivo fino agli ottant’anni. Morì nel 2011, il primo di novembre. Come Tibbets.
VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica Domenica 18 Agosto 2013
19 agosto 1944: strage di Bardine di S. Terenzio (Fraz. di Fivizzano – Massa)
Il 12 agosto 1944, lo stesso giorno della strage di Sant’Anna di Stazzema, cinquantatré tra uomini, donne e bambini (28 dai 2 ai 17 anni) erano stati rastrellati in Versilia dai soldati del maggiore Reder.
Una settimana dopo, il 19, vengono portati a bordo di camion sulla strada che da Bardine porta a San Terenzio. Vengono fatti scendere dove una lunga rete metallica sostenuta da pali divide due poderi presso i quali alcuni giorni prima i partigiani avevano attaccato con successo un convoglio tedesco.
Tutti vengono legati con filo spinato alle mani e attaccati con lo stesso mezzo ai pali della recinzione in modo che, appesi per il collo, possano a malapena sorreggersi per non soffocare.
Alcuni vengono seviziati, tutti vengono gambizzati con raffiche di mitragliatrice e lasciati morire impiccati o finiti con un colpo di rivoltella.
http://storiedimenticate.wordpress.com/2012/08/19/bardine-di-s-terenzio-fraz-di-fivizzano-massa-19-agosto-1944/
12 agosto 1944: Ricordiamo quella notte in cui morì l’umanità intera
Sono trascorsi 69 anni da quella terribile mattina del 12 agosto del 1944 quando in un piccolo borgo arroccato sulle Alpi Apuane la furia nazista uccise 560 civili di cui 130 bambini. Le atrocità commesse dalle SS furono sconvolgenti. Giunsero a far partorire una donna, Evelina, e prima di ucciderla, dinanzi ai suoi occhi, spararono alla tempia del figlioletto. Furono trovati ancora uniti dal cordone ombelicale. Quella mattina di 69 anni le SS, guidate da alcuni fascisti locali, a Sant’Anna portarono l’inferno in un luogo che si riteneva fosse lontano dai venti di guerra. Ma quel giorno oltre all’eccidio delle 560 vittime, avvenne un crimine ancora maggiore che è la morte dell’uomo, della sua umanità. Un crimine, o meglio un suicidio, che la storia ci ricorda troppe volte accadere, basti pensare ai campi di concentramento, alle tante guerre che incendiano il mondo.
L’atrocità di certi atti è difficile da elaborare e così si commette l’errore di non ricordarla, è come se si innescasse nella mente un meccanismo di difesa. Freud sosteneva: “La mente allontanerà sempre, ancorché inconsciamente, la realtà dolorosa”. La realtà è che troppo doloroso concludere che in potenza ognuno di noi, se inserito in ideologie malvagie, se cresciuto in sistemi di violenza , può trasformarsi in un mostro. Ma la storia dovrebbe servire proprio a indicarci delle linee da seguire per evitare certe deviazioni. Purtroppo questo non sempre accade e l’uomo necessita di rivivere certe brutalità, spesso, invece di proporre dei modelli diversi alle violenze che si è subito, le vittime diventano carnefici.
Quello che sta patendo il popolo palestinese ne è un’aberrante prova. Per le recenti guerre che ci hanno visti anche direttamente coinvolti come in Iraq e Afghanistan, addirittura ci si erige a paladini della libertà e con questo vessillo si bombardano Paesi, si spolpano di ricchezze territori uccidendo migliaia di civili. Per non parlare poi dell’ipocrisia, anche violando l’articolo 11 della Costituzione, allorquando si parla di missioni di pace. L’ultima, in ordine di tempo, uccisione di un soldato italiano raccoglie questa incongruenza in una foto di Repubblica in cui una frase di un conoscente del caduto affermava in virgolettato che quest’ultimo era un portatore di pace, che amava la pace e in basso c’era la foto di un nostro militare armato fino ai denti pronto all’assalto.
Su questo occorre essere chiari: la pace, quella vera, la si conquista con il paziente dialogo, seminando il bene e non con le armi!
È fondamentale, specie per i più giovani, tenere viva la memoria. Ma ancora più importante è insegnare ad attualizzare ciò che è successo 69 anni fa, capire oggi dove, in che forme e per quali motivi si eserciti il male della guerra. Occorre capire insieme ai giovani il perché siamo così succubi dei potentati militari tanto che, nel nostro Paese, investiamo quotidianamente 70 milioni di dollari in armamenti e dobbiamo acquistare dei cacciabombardieri difettosi per i quali ogni singolo casco costa due milioni di dollari.
Occorre capire perché questo Sistema mondiale investa ogni anno 1.753 miliardi di dollari in armamenti quando ne basterebbero circa 40 per porre fine alla fame nel mondo.
Alla nuova generazione deve essere chiaro che le armi come deterrente e la guerra per accaparrarsi sempre crescenti risorse, per questo sistema neoliberista, sono linfa vitale. Questo Sistema della crescita infinita in un mondo finito è portatore sano di ineguaglianze come mai si sono avute in passato (ogni anno muoiono circa 50 milioni di persone per fame). Se non si cambia questo sistema le ricorrenze per ricordare il male di ieri saranno solo sterili cerimonie per ripulirsi l’anima dei crimini di oggi.
(di Gianluca Ferrara da “Il Fatto”)
10 agosto 1944: Strage di Piazzale Loreto
Il 10 Agosto 1944, su ordine degli occupanti nazisti, la Legione Muti fucilò in Piazzale Loreto a Milano 15 partigiani lasciando i corpi esposti al calore ed alle mosche per l’intera giornata. Nell’Agosto del ’44 Milano è sotto occupazione nazista da ormai quasi un anno. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 Settembre nel quadro dell’occupazione nazista dell’Italia, tesa a rallentare l’avanzata degli Alleati a Sud ed a garantire l’esistenza della Repubblica Sociale Italiana, la città è stata occupata dalla tristemente nota divisione Waffen-SS Leibstandarte SS Adolf Hitler.
Milano era già stata teatro degli scioperi del 1943 e del 1944, che erano costati la deportazione di moltissimi operai e di molte azioni partigiane tra la quali l’assalto all’aeroporto di Taliedo, l’eliminazione del Federale di Milano Aldo Rasega, l’assalto alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni e tante altre. La reazione nazista e fascista fu dura con rastrellamenti e deportazioni di massa. Nel Dicembre del ’43 tra l’Arena ed il Poligono di Milano vennero fucilati 13 partigiani.
Nel Febbraio del 1945 il movimento partigiano riprese forza anche grazie all’arrivo da Torino del Comandante Visone, Giovanni Pesce. A Giugno, in fuga da Roma liberata dagli Alleati, giunsero a Milano i tristemente noti torturatori fascisti della Banda Koch che si insediarono presso la Villa Fossati in Via Paolo Uccello.
Il mesi di Luglio ed Agosto videro una recrudescenza repressiva con diverse fucilazioni di partigiani in città ed in provincia.
Del resto, tra il 21 Luglio e il 25 Settembre 1944 i Tedeschi lamentarono 624 caduti, 993 feriti e 872 dispersi a causa di attacchi della Resistenza che, a propria volta, ebbe nello stesso periodo 9250 caduti. Questo poneva la Resistenza italiana ai primi posti come livello di efficienza solo dietro a quella sovietica ed a quella jugoslava. Il 10 Agosto su ordine del Comando della Sicurezza (SD) tedesca a Milano furono prelevati da San Vittore 15 partigiani. La loro fucilazione avvenne all’alba.
I nazisti, al comando del capitano delle SS Theodor Saevecke, giustificarono la strage come risposta all’attentato contro un camion tedesco avvenuto in Viale Abruzzi l’8 Agosto 1944. Quell’attentato, mai rivendicato, non fece alcuna vittima tra i Tedeschi.
Si trattò quindi di un’operazione di puro terrore poiché il famigerato Bando Kesselring (comandante delle truppe tedesche in Italia) prevedeva la fucilazione di 10 Italiani per ogni soldato tedesco caduto. I corpi, lasciati esposti per l’intera giornata ed insultati dai militi della Muti furono rimossi solo in serata.
Questo feroce episodio aumentò a dismisura l’odio ed il risentimento dei Milanesi contro tedeschi e fascisti.
Questi i nomi dei 15:
–Gian Antonio Bravin, 36 anni
–Giulio Casiraghi, 44 anni
–Renzo del Riccio, 20 anni
–Andrea Esposito, 45 anni
–Domenico Fiorani, 31 anni
–Umberto Fogagnolo, 42 anni
–Tullio Galimberti, 21 anni
–Vittorio Gasparini, 31 anni
–Emidio Mastrodomenico, 21 anni
–Angelo Poletti, 32 anni
–Salvatore Principato, 51 anni
–Andrea Ragni, 22 anni
–Eraldo Soncini, 43 anni
–Libero Temolo, 37 anni
–Vitale Vertemati, 26 anni
Questo è un brano dell’ultima lettera di Umberto Fogagnolo alla moglie:
“Ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene tu sia al corrente di tutto. Qui ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto. Tu Nadina mi perdonerai se oggi gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso ed amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere ed abbandonare le parole”
6 agosto 1945 – 9 agosto 1945: Hiroshima e Nagasaki
L’Anpi di Mirano ricorda il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, crimine contro l’umanità, avvenuto il 6 e 9 agosto 1945 e invita tutti i cittadini ad essere presenti, venerdì 9 agosto alle ore 11, presso la sede municipale in piazza Martiri a Mirano, alla commemorazione di questa tragedia che ha colpito non solo il popolo giapponese ma tutto il genere umano e gli esseri viventi.
Alla cerimonia sarà presente la sindaca Maria Rosa Pavanello.
Il Centro Pace e la Rete degli Studenti Medi del comune di Mirano aderisce e fa propria questa iniziativa.
Agli scettici, agli agnostici, a tutti coloro che: ”ci si sporca le mani ad essere partecipi delle cose del mondo” diciamo: “al nostro posto abbiamo collocato altri, anzi pochi altri, questi, attraverso un uso sofisticato delle immagini e delle parole, stanno imprimendo alla vita del mondo un corso da loro voluto, un corso da cui dipende l’essere e il non essere dell’umanità.” (Gunther Anders)
E non dite che non lo sapevate
Come da qualche anno a questa parte, la Città di Busto Arsizio commemora l’anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, dove nel 1945 vennero sganciate le bombe atomiche che provocarono decine di migliaia di morti.
Alle 11.30 di martedì 6 agosto, anniversario del lancio della prima bomba su Hiroshima, il Tempio civico Sant’Anna ospiterà un momento di riflessione: l’iniziativa, che raccoglie l’insegnamento del cittadino benemerito Angioletto Castiglioni, è promossa dall’Amministrazione comunale, dal Comitato Amici del Tempio Civico, e dalla sezione varesina di JCI (Junior Chamber International).
Nel 2009 la Città è stata tra le prime in Italia a promuovere, grazie ad Angioletto Castiglioni, al Comitato e alla Jci, il ricordo della tragedia nucleare. Un impegno nato dalla visita al Tempio Civico e alla Città effettuata nel 2008 da Kentaro Harada, nel 2011 presidente internazionale della JCI, originario della Prefettura di Hiroshima.
Questa collaborazione ha portato a molteplici iniziative, tra cui seminari per l’educazione degli studenti alla pace e l’adesione della Città di Busto Arsizio alla rete internazionale dei Mayors for Peace, un’organizzazione non governativa fondata dalle città di Hiroshima e di Nagasaki con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari.
Un’altra iniziativa è quella dei “Beati i costruttori di pace” che dal 6 al 9 agosto, i giorni di Hiroshima e Nagasaki, organizza un percorso con gli Amici della bicicletta per sensibilizzare le popolazioni e coinvolgere gli amministratori delle Comunità locali, promuovendo anch’essa l’adesione all’ associazione mondiale Mayors for Peace. Il percorso inizia a Cormons il 5 agosto e si conclude il 9 ad Aviano, l’aereoporto militare americano dove c’è uno dei depositi degli ordigni nucleari in Italia, con la cerimonia di commemorazione di Nagasaki alla quale tutti sono invitati a partecipare.
Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
Sono di Hiroshima
e là sono morta
tanti anni fa.Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi anche il vento ha disperso la cenere.
Apritemi, vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso,
non chiedo neanche lo zucchero, io,
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.
Nâzım Hikmet (Poesie, Editori Riuniti)
Lo storico Luciano Canfora: “Uguaglianza davanti alla legge? È diventata roba da comunisti”
Con le parole costruisci un sogno, un mondo nuovo o solo un fraintendimento. Le parole possono essere piallate, manipolate, riempite d’aria come quei palloncini che s’innalzano al cielo. Le parole sono alberi dritti che puoi far divenire storti. E trasformare in nero ciò che è bianco. La filologia è la compagna di vita di Luciano Canfora, storico dell’età antica e saggista.
C’è il potere e c’è la manipolazione.
È del tutto evidente. Il linguaggio politico è dichiaratamente artefatto. Promuove l’inganno, lo pianifica.
Sa in che menti deve essere somministrata la dose quotidiana di manipolazione.
Nel dopoguerra era ricorrente la divisione del mondo in due parti: qui i liberi, lì gli schiavi. Tra gli eroi della libertà, del mondo libero, erano ricompresi i razzisti del-l’Alabama, Francisco Franco, i torturatori francesi.
Difendevano la libertà contro il comunismo. Berlusconi è sceso in campo proprio con questo intento.
Naturalmente lui non ci crede assolutamente. Avendo però avuto percezione che la bubbola funzionava ha proseguito con l’inganno.
Comunisti i comunisti, e comunisti un po’ tutti gli altri.
Fino al punto parossistico di ripeterlo davanti a Enrico Letta che, poverino…
Comunisti i magistrati.
Dal suo punto di vista è comprensibile. L’applicazione del principio della legge uguale per tutti è all’evidenza un processo comunista. E quindi, correlata, la proposizione: bisogna respingere la sentenza per difendere la democrazia.
Altri parlamentari si sono spinti più in là.
Ho sentito Cicchitto e mi pare Lupi conseguentemente affermare che l’unico rimedio per riportare la democrazia è cassare la Cassazione. C’è una logica, in qualche misura.
Ci sarebbe il popolo da rispettare
Mah. Votare non ha più peso, non ha più senso. Il potere politico prende ordini da quello economico che si trova altrove, a Bruxelles o Francoforte. Il Parlamento è degradato a un organo tecnico. Certo, può liberamente dibattere sulla legge animalista. Anti e pro, fatevi sotto e discutete.
Io voto ma tu fai come ti pare.
Direi meglio: quando la legge elettorale falsifica così dichiaratamente i rapporti in campo ecco che la rappresentanza politica perde ogni legittimazione. C’è una ragione per cui il Pd non riesce a dar corso alla forza parlamentare che detiene. Ha la maggioranza assoluta dei deputati frutto di una disponibilità in voti inferiore, e di molto, al trenta per cento degli elettori.
La politica è dunque inganno?
Nel poker c’è l’azzardo, il bluff. Il paragone non è irriverente.
Si dice sempre: siamo nel pieno di una democrazia incompiuta.
E si dice un’ovvietà, una sciocchezza. La democrazia è incompiuta per definizione.
E che la nostra sia una democrazia anomala.
Sarebbe anomala se altrove il diritto fosse totalmente rispettato. Lei crede che in Grecia il diritto di quel popolo sia rispettato? Hanno chiuso in due ore la televisione pubblica solo perché dava fastidio al governo di Samaras. Nessuno ha fiatato, e neanche i giornali italiani, neanche il suo, ha approfondito questa monumentale ingiustizia.
Ma sarà pur vero che Berlusconi, e il potere che ha dettato, rende singolare e unica la vicenda italiana.
Non c’è alcun dubbio.
E non c’è dubbio che il declino morale della classe dirigente italiana abbia avuto un peso anche nel linguaggio.
Cavour parlava di connubio, descrivendo la necessità di trovare un’adesione tra diversi. Oggi si parla di inciucio.
Espressione dialettale napoletana con cui si intende per la verità il pettegolezzo minuto, il vicolo che mormora.
I due termini misurano la differenza di valore culturale tra le classi dirigenti di ieri e di oggi. Non è un caso che ciclicamente si chiamano al governo i professori.
Sì, i professori sono diventati come la Misericordia. Compagnia di protezione civile.
La Rai dei professori, ricorda? In quella convocazione l’idea di portare alla guida persone migliori di quelle elette per guidare il Paese.
Mettiamo in circolazione persone migliori di noi.
E qui il professor Monti.
Poi l’abbiamo cacciato. Abbiamo idee confuse come le parole che utilizziamo.
Assolutamente sì. Prenda gli inviti alla coesione del presidente della Repubblica. Si invita alla coesione, dunque alla ricerca del punto comune, un sistema formalmente bipolare, dunque estraneo al punto comune.
Amiamo l’uno e il suo opposto.
Vorremmo essere bipolaristi e insieme però coesi.
Hanno capito che siamo tele-elettori e usano le parole a casaccio, un po’ come capita.
Ci sono bubbole indicibili, alcune volte è veramente troppo. (Intervista di Antonello Caporale da “Il Fatto”)
2 Agosto: “Il mio urlo su quella barella oggi serve per non dimenticare”
«Ai ragazzi delle scuole dico sempre: ottantacinque morti e duecento feriti non sono un mantra da recitare all’anniversario. Dietro ci sono storie, vite perdute, famiglie distrutte. Domandate, informatevi, cercate e fatevi voi un’opinione».
Marina Gamberini è la ragazza della foto simbolo di quel giorno maledetto in Stazione, trasportata su una barella mentre urla il suo sgomento. Solo pochi minuti prima era con le colleghe della Cigar nell’ufficio che stava proprio al piano sopra la sala d’aspetto di seconda classe. Un bell’ambiente, ragazze tutte giovani, complici, che nelle pause pranzo gironzolavano in stazione con le loro divise. «Ci sentivamo delle hostess, conosciute da tutti, il caffè e una passeggiata sul primo binario, così per staccare un po’ dall’ufficio. E’ un ricordo ancora bellissimo».
Dopo le lunghe cure in ospedale, furono mesi, e anni, difficili. Covando la voglia irreale di potersi sostituire alle amiche perdute. «Volevo andare ad abitare nella casa di una di loro, comprare i mobili che lei aveva scelto e mi aveva fatto vedere». Poi, finalmente, di nuovo un lavoro: in Comune, insieme ad una vita quasi normale. Adesso, uscita da una convalescenza, c’è di nuovo l’impegno. Della sua vita da sopravvissuta, Marina vuole fare un modo per continuare a cercare il perché di quella strage: lo fa andando nelle classi. Ed è difficile, dice: ogni volta è un dolore che riemerge, ma lei adesso si sente forte, batte la fatica. E allora racconta di lei, delle colleghe, ma vuole andare oltre.
«Incontro ragazzi puliti, che non sanno nulla di quella storia. Ma è meglio così. Quante volte, anche adesso, in altri contesti sento che ci sopportano, passiamo per pesanti, e solo perché siamo ancora qui, con tenacia, a chiedere la verità, perché adesso ne conosciamo solo un pezzettino. I ragazzi no, invece: vedo che ci ascoltano, perché sono interessati davvero e non per obblighi d’ufficio. Vogliono capire e non hanno verità che ogni tanto qualcuno pretende di confezionare».
C’è un documentario adesso, che racconta di una mattina all’Itis Belluzzi, parlando coi ragazzi della IV B: Marina si tortura le mani, fa qualche pausa, prende il respiro. Ascolta, e racconta. «Sembra assurdo capire che di quel giorno si possa dire tutto e il contrario di tutto, la tristezza è questa. Tutti ne parlano, ma manca ancora la verità. Successe, ma perché?».
Anni di silenzio, per mascherare un dolore e un senso di colpa, per essere lei sola uscita viva da quell’ufficio di ragazze che svanì dentro un’esplosione. «Se sono qui ancora a parlarne, è anche per quietare quel sentimento che tra noi feriti è molto diffuso». Marina è nel comitato direttivo dell’Associazione familiari, ed è quasi una figlia per Lidia Secci, la moglie di Torquato che fu il primo presidente. «Quanti momenti anche di sconforto abbiamo passato in questi anni, delusioni atroci, come non bastasse già quello che avevamo passato. Quando annullarono la sentenza di primo grado del processo, quando il nostro avvocato di parte civile si schierò improvvisamente contro di noi. E, ancora oggi, ogni volta che sentiamo insinuare altre ipotesi. Per questo sosteniamo Paolo (Bolognesi, ndr) nella sua richiesta per avere il reato di depistaggio. Noi queste cose le abbiamo già vissute, è una cosa tremenda pensare che qualcuno apposta metta in piedi una falsità. Ma non si mette un punto interrogativo davanti a una sentenza».
Il sindaco Merola, accogliendo una proposta apparsa su “Repubblica”, da parte dell’associazione “Piantiamolamemoria”, ha promesso che presto sedici vie e piazze saranno dedicate alle vittime bolognesi della strage alla Stazione. «Ben venga. Abbiamo bisogno di tutto, se serve per capire e ricordare che dietro a quelle lettere di metallo che compongono i nomi sulle lapidi, c’erano delle vite, una storia. A Katia (Bertasi, ndr) hanno dedicato un centro sociale». Marina sarà venerdì in piazza, accompagna sempre Bolognesi fin sotto il palco, poi si allontana. «Nella sala d’aspetto faccio ancora fatica ad entrarci, ho paura di non controllare i nervi, e preferisco così. Ma a volte penso che non dovrei avere pudore».
Invece non ha più paura, e se la ha, la vince. E vuole continuare ad andare nelle scuole. «A volte mi viene un frizzo di ottimismo. E se qualcuno un giorno raccontasse quale era il disegno? Se da un’indagine esce qualcosa che spieghi chi decise di fare quella strage? Ma non vorrei fosse un’illusione. Una speranza invece ce l’ho: goccina per goccina, nel passaparola tra i ragazzi che ascoltano e poi raccontano le nostre storie, vorrei che il 2 Agosto non resti una formuletta. “85 morti, 200 feriti”. E’ invece una storia, ancora senza il perché». (di Luca Sancini da “Repubblica”)
Meno garanzie per la Carta solo per tenere in vita il governo
Non vedo nessuna ragione di derogare all’articolo 138, accelerando i tempi. Se non una, forse: mantenere in vita questo governo”. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, fa parte della commissione dei saggi che lavora, molto sotto traccia, a una proposta di riforma della Carta. Istituita nello scorso giugno, è composta da 34 tra giuristi ed esperti di discipline politiche ed economiche. Settimane fa la commissione ha perso Lorenza Carlassare, dimessasi per protesta contro la sospensione del-l’attività parlamentare voluta dal Pdl (e accettata dal Pd) come ritorsione per la fissazione in calendario della sentenza Mediaset. Ultimati i lavori, a ottobre i saggi consegneranno le loro relazioni sulla riforma, che verranno poi inoltrate al comitato dei 42: i parlamentari a cui il ddl costituzionale affida il compito di riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Costituzione.
Professoressa, partiamo dallo stravolgimento dell’articolo 138. Che ne pensa e cosa ne pensano gli altri saggi?
La commissione non se ne è mai occupata, perché non rientra nel suo ambito di intervento. Non parlo per gli altri, e dico la mia opinione da cittadina: non c’è nessun motivo di modificarlo. Se non uno: prolungare la vita di questo governo, legandola alla riforma costituzionale. Finché questo processo è in corso, il treno va.
Molti costituzionalisti sono contrari alla deroga: definiscono questa norma come “la valvola di sicurezza” della Carta.
Sono assolutamente d’accordo: il 138 è la clausola di salvaguardia, perché regola tempi e modi delle modifiche alla Costituzione. Ridurre l’intervallo tra le due deliberazioni delle Camere sulle leggi costituzionali (da tre mesi a 45 giorni, ndr) è sicuramente un passo che comporta dei rischi. Non c’è nessuna emergenza che lo giustifichi.
Veniamo alla commissione dei saggi. Sul vostro lavoro circolano pochissime informazioni. Sembra quasi che lavoriate in modo carbonaro.
Proprio per rimediare, nei giorni scorsi ho proposto e ottenuto che i resoconti delle nostre riunioni venissero pubblicate su Internet (sul sito rifor mecostituzionali.gov.it ). Ci deve essere trasparenza su quello di cui discutiamo.
Alcuni, tra cui i Cinque Stelle, avevano proposto la diretta streaming dei lavori.
Sono contraria. Con la diretta tv tutti rimarrebbero troppo influenzati. Nessuno parlerebbe in modo sincero, perché penserebbe ai possibili effetti sul pubblico.
Di cosa state discutendo?
Gli argomenti sono quattro: bicameralismo, Titolo V (Regioni, Province, Comuni, ndr), forma di governo e legge elettorale.
È vero che lavorate a una riforma presidenzialista?
Stiamo discutendo con ampia diversità di opinioni. Vi sono posizioni semipresidenzialiste e altre che vogliono il rafforzamento e la razionalizzazione del Parlamento.
Lei è contraria al semipresidenzialismo?
Sì, perché ritengo rappresenti una forma di sfiducia verso la politica, come luogo di mediazione e rappresentanza delle diverse opinioni. Inoltre, nel semipresidenzialismo il potere esecutivo ha un peso eccessivo. Preciso anche un’altra cosa. Molti spingono per una riforma di questo tipo, sostenendo che dobbiamo armonizzarci con il resto d’Europa. Ma il semipresidenzialismo negli altri Paesi è l’eccezione, non la regola.
Ci sono punti su cui voi saggi concordate?
Molti di noi sono concordi sul-l’esigenza di passare da un bicameralismo perfetto, come quello attuale, a un sistema con un Senato delle autonomie. Due Camere con le stesse competenze esistono solo in Italia. Inoltre siamo d’accordo sulla necessità di ridurre il numero di parlamentari. Anche se su questo punto non bisogna esagerare.
Il ddl costituzionale prevede un comitato dei 42 che preparerà la riforma. Poi dovrà essere approvata dal Parlamento, ma con poche possibilità di intervento: per esempio, ci saranno grandi limiti agli emendamenti. Non teme una riforma blindata?
Sì, e per questo spero che venga dato ampio spazio al dibattito. La Costituzione è troppo importante per essere oggetto di tentativi di forzatura. (di Luca De Carolis da “Il Fatto” del 31 luglio 2013)