Perché dobbiamo eliminare le armi nucleari e sottoscrivere la mozione del sindaco di Hiroshima che prevede la loro distruzione entro il 2020

the_day_afterUna guerra nucleare. Fu quello che si sfiorò nel 1983, ma che è rimasto all’oscuro. Fino ad oggi. Nel novembre del 1983, gli Usa e i loro alleati della Nato condussero una serie di esercitazioni militari, denominate “Operation Able Archer”, talmente realistiche dal convincere i russi della possibilità di un attacco nucleare sul loro territorio. Quando l’allora governo conservatore britannico venne informato del rischio dai servizi segreti, il premier Margaret Thatcher ordinò ai suoi funzionari di fare pressione sugli americani affinché un simile errore non si ripetesse.

Tutto questo è stato rivelato grazie a una serie di documenti top secret, ora desecretati, ottenuti da Peter Burt, direttore del Nuclear Information Service (Nis), un’organizzazione impegnata contro la proliferazione delle armi nucleari. “Questi documenti testimoniano un momento di svolta nella storia moderna, il punto nel quale un allarmato governo Thatcher si rende conto che bisogna mettere fine alla Guerra Fredda e inizia a convincere gli alleati americani a fare altrettanto”, spiega Burt al quotidiano britannico Guardian.

Able Archer, che prevedeva lo spostamento di 40mila militari Usa e della Nato attraverso l’Europa occidentale ed era coordinato da un sistema criptato di comunicazioni, immaginava uno scenario nel quale le Forze Blu (Nato) intervenivano a difesa dei loro alleati dopo che le Forze Arancioni (Patto di Varsavia) avevano invaso la Jugoslavia a seguito di sommovimenti politici interni. Le Forze Arancioni, secondo lo scenario ipotizzato nell’esercitazione, avevano poi anche invaso la Finlandia, la Norvegia e la Grecia. In breve, il conflitto immaginario subiva un’escalation che prevedeva l’uso di armi chimiche e nucleari.

A quanto riporta l’Adnkronos, secondo Paul Dibb, che in passato è stato direttore della Joint Intelligence Organisation (Jio), gli ex servizi di intelligence australiani, l’esercitazione militare Nato del 1983 costituì per la pace nel mondo una minaccia ancora più grave di quella della crisi dei missili di Cuba del 1962. “Able Archer avrebbe potuto dare il via alla catastrofe definitiva”.

Ad aumentare il rischio di una fatale incomprensione tra i due schieramenti era soprattutto il contesto storico nel quale avvenne l’esercitazione. Due mesi prima, nel settembre del 1983, i russi avevano abbattuto un Boeing 747 delle linee aeree coreane, uccidendo le 269 persone a bordo, credendo che l’aereo fosse un velivolo spia americano. In precedenza, il presidente Usa Ronald Reagan aveva pronunciato il famoso discorso nel quale definiva l’Unione Sovietica “l’impero del male”, annunciando i suoi piani di “Guerre Stellari” per la realizzazione di un sistema di difesa strategico.

La diffidenza reciproca tra i due blocchi era quindi ai massimi livelli. Dopo l’avvio dell’esercitazione della Nato, il Cremlino diede l’ordine di decollo a una decina di bombardieri nucleari dislocati in Germania est e Polonia. Circa 70 rampe di lancio dei missili SS-20 vennero poste in stato di allerta, mentre i sottomarini sovietici armati con missili nucleari vennero inviati sotto i ghiacci dell’Artico, per sfuggire ai sistemi di rilevamento della Nato. All’inizio, i comandanti della Nato pensarono che le mosse sovietiche fossero a loro volta una esercitazione militare ordinata da Mosca.

I documenti ottenuti da Peter Burt indicano invece quanto fatale potesse rivelarsi quell’equivoco. In un rapporto desecretato del Joint Intelligence Commitee (Jic) britannico si legge: “Non possiamo escludere la possibilità che almeno alcuni funzionari e ufficiali sovietici possano avere male interpretato Able Archer 83 e considerino altre esercitazioni nucleari come una reale minaccia”.
L’allora segretario di Downing Street, Sir Robert Armstrong, in un briefing alla Thatcher spiegò che la risposta sovietica non aveva le caratteristiche di un’esercitazione perchè “avveniva durante un’importante festività sovietica, aveva la forma di una reale attività militare e di allerta, non solo di un’esercitazione ed era limitata geograficamente in un’area, l’Europa centrale, coperta dall’esercitazione della Nato”.

In sintesi, l’Unione Sovietica temeva un attacco della Nato mascherato da esercitazione militare. Gran parte delle informazioni di intelligence contenute nel briefing per il primo ministro, inoltre, provenivano da Oleg Gordievskij, l’ex doppio agente segreto al servizio dell’intelligence britannica. La Thatcher, rivelano ancora i documenti, prese talmente sul serio la minaccia derivante da un catastrofico malinteso, che ordinò ai suoi funzionari di “considerare quanto può essere fatto per impedire il rischio che l’Unione Sovietica reagisca in maniera spropositata a causa di una interpretazione sbagliata delle intenzioni occidentali”. Il premier chiese quindi di “prendere urgentemente” misure per convincere gli americani del rischio.

Il ministero della Difesa e quello degli Esteri stesero allora una bozza di documento da sottoporre all’attenzione di Washington, nella quale si proponeva che d’ora in avanti “la Nato dovrebbe informare regolarmente l’Unione Sovietica sulle previste attività di esercitazioni militari che comprendono simulazioni nucleari”. Il briefing che tanto allarmò la Thatcher finì anche sulla scrivania di Reagan, che volle incontrare personalmente la spia Gordievskij. Secondo le ricostruzioni, il presidente Usa rimase talmente colpito dagli argomenti presentatigli, che si convinse della necessità di un approccio diverso con l’Unione Sovietica.

da http://www.huffingtonpost.it

http://it.wikipedia.org/wiki/Able_Archer_83

La memoria non va in cenere

indexRosario Bentivegna, medaglia d’argento al Valor Militare e comandante partigiano del Gruppo d’Azione Patriottica “Carlo Pisacane” di Roma non avrebbe voluto essere sepolto in alcun cimitero. Lo lasciò scritto nelle sue «Disposizioni in caso di mia morte» conservate ancora oggi da Patrizia Toraldo di Francia, sua compagna di vita per 38 anni. Alle persone che «mi hanno amato e che ho amato» lasciò scritto «Non mettetemi dietro una lapide». Tanto meno avrebbe pensato ad un monumento o una targa celebrativa, lui che fulminava con lo sguardo chiunque lo chiamasse “eroe”. «Io credo solo -ripeteva quasi pedagogicamente- che in alcuni momenti della storia si verificano condizioni per cui ci sono persone giuste al posto giusto». Ha sempre sentito Roma sulla pelle ed ha amato visceralmente la sua città. La dispersione delle sue ceneri nel Tevere non gli sarebbe affatto dispiaciuta.
Tuttavia la vicenda della sua «mancata sepoltura», e di quella della medaglia d’oro Carla Capponi, interroga di nuovo l’inquieto rapporto tra la città ed i suoi figli partigiani. Un passato prossimo che, fatta salva la retorica d’ufficio delle celebrazioni ufficiali, mantiene a distanza di settantanni tutto il suo carattere di irrequieto ingombro non tanto dinanzi alla storia, che ha già emesso il suo assiomatico giudizio sul valore dei partigiani, quanto di fronte ad una società civile e ad una sfera pubblica refrattarie alle scelte di campo valoriali e permanentemente protese ad alimentare la damnatio memoriae di quegli eventi della guerra partigiana che, segnando una linea di faglia in grado di definire un prima e un dopo, avrebbero dovuto impedire il perpetrarsi di persistenze conservative, continuità istituzionali e autoassoluzioni collettive dopo il fascismo.
In questo senso l’esempio del vissuto resiliente dei gappisti, che dal terrore dell’occupazione nazista seppero trarre il coraggio della lotta di Liberazione, sembra rappresentare ancora oggi un elemento eterodosso della storia recente di Roma, non assimilato, quando non addirittura contestato, nella sua legittimità da parti marginali ma non non esigue della città. Di ciò che stiamo facendo non dovremmo parlare con alcuno né oggi, né domani né dopodomani». Quando Mario Fiorentini, comandante del Gap “Antonio Gramsci”, indicava ai suoi compagni le regole essenziali della lotta armata faceva certamente riferimento alle norme di compartimentazione e segretezza necessarie alla rete clandestina del Pci ma allo stesso tempo cercava di sollecitare il pudore delle coscienze in quei giovanissimi combattenti che nonostante la nobile scelta compiuta non avrebbero dovuto mai dimenticare il peso umano di quelle azioni alle quali avrebbe reso ragione soltanto la straordinarietà del tempo della storia all’epoca della seconda guerra mondiale.                                                                                                                 Lucia Ottobrini, medaglia d’argento dei Gap romani, oggi quasi si ritrae, seppur con tutta la delicata grazia dei suoi modi, di fronte alla necessità di ricordare un’esperienza tanto dura quanto straordinaria per lei cattolica e comunista. Per i componenti dei Gap, donne e uomini che potevano restare mesi senza parlare con nessuno ed attaccare militarmente da soli soldati tedeschi e collaborazionisti fascisti, il peso della solitudine e l’unicità di quel vissuto furono resi sopportabili solo dalla convinzione assoluta della giustezza di quella scelta di vita. Alla nuova repubblica democratica sarebbe poi spettato il compito storico di «fondarsi sulla Resistenza» ovvero non celebrare in stile marziale le vicende di guerra o i loro protagonisti ma esaltare i valori universali che quelle azioni partigiane avevano significato e per cui erano state compiute.                                      I gappisti però, fin dall’immediato dopoguerra rappresentarono il convitato di pietra della riappacificazione nazionale fondata sulla rimozione del passato. Per questo hanno sempre pagato un prezzo. Il primo processo della Roma liberata del 1944 venne celebrato dagli Alleati contro Bentivegna, poi assolto, per il caso Barbarisi mentre già durante il processo Kappler del 1948 i Gap, e finanche il vertice della Giunta militare di Roma Amendola-Bauer-Pertini, furono accusati come fossero loro, e non i nazisti, i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Calunniati dalla stampa neofascista e da molti «maestri del giornalismo», si difesero ottenendo sempre smentite ufficiali, scuse pubbliche e risarcimenti. Nel 1964 furono inseriti nelle liste golpiste del «Piano Solo» di De Lorenzo che disponeva la loro deportazione nei campi di Gladio a Capo Marrargiu.     Negli anni ’70 molti subirono minacce di attentati da parte di gruppi dell’estrema destra, mentre a metà anni ’90, quando solo i tumulti davanti al tribunale militare impedirono a Priebke di tornare libero in Argentina, si trovarono ancora accusati della responsabilità dell’eccidio del 24 marzo 1944. Ad una giornalista francese che gli chiedeva quale fosse il suo giudizio finale tra il dato ed il ricevuto dall’esperienza partigiana Bentivegna rispose: «È una domanda difficile. Perché mi ha tolto molto spazio ma mi ha dato l’orgoglio del dovere fatto in fondo anche a costo della vita. Perché la vita non è solo quella che si può perdere in battaglia». Quella dei Gap è una storia che «divide». Separa la libertà dalla dittatura; il progresso dalla reazione; la modernità dall’oscurantismo.

Per scegliere da che parte stare non servono lapidi.

Davide Conti, Il Manifesto del 27 settembre 2014

Usa, il riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace

20140325_obama1Cinque anni fa, nell’ottobre 2009, il presidente Barack Obama fu insignito del Premio Nobel per la Pace in base alla «sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, e al lavoro da lui svolto in tal senso, che ha potentemente stimolato il disarmo». Motivazione che appare ancora più grottesca alla luce di quanto documenta oggi un ampio servizio del New York Times: «L’amministrazione Obama sta investendo decine di miliardi di dollari nella modernizzazione e ricostruzione dell’arsenale nucleare e degli impianti nucleari statunitensi».
A tale scopo è stato appena realizzato a Kansas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pen­tagono, dove migliaia di addetti, dotati di futuristiche tecnologie, «modernizzano» le armi nucleari, testandole con avanzati sistemi che non richiedono esplosioni sotterranee. L’impianto di Kansas City fa parte di un «complesso nazionale in espansione per la fabbricazione di testate nucleari», comp­osto da otto maggiori impianti e laboratori con un personale di oltre 40mila specialisti. A Los Alamos (New Mexico) è iniziata la costruzione di un nuovo grande impianto per la produzione di plutonio per le testate nucleari, a Oak Ridge (Tennessee) se ne sta realizzando un altro per produrre uranio arric­chito ad uso militare. I lavori sono stati però rallentati dal fatto che il costo del progetto di Los Ala­mos è lievitato in dieci anni da 660 milioni a 5,8 miliardi di dollari, quello di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi.
L’amministrazione Obama ha presentato complessivamente 57 progetti di upgrade di impianti nucleari militari, 21 dei quali sono stati approvati dall’Ufficio governativo di contabilità, mentre 36 sono in attesa di approvazione. Il costo stimato è allo stato attuale di 355 miliardi di dollari in dieci anni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Al costo degli impianti si aggiunge quello dei nuovi vettori nucleari.
Il piano presentato dall’amministrazione Obama al Pentagono prevede la costruzione di 12 nuovi sot­tomarini da attacco nucleare (ciascuno in grado di lanciare, con 24 missili balistici, fino a 200 testate nucleari su altrettanti obiettivi), altri 100 bombardieri strategici (ciascuno armato di circa 20 missili o bombe nucleari) e 400 missili balistici intercontinentali con base a terra (ciascuno con una testata nucleare di grande potenza, ma sempre armabile di testate multiple indipendenti).
Viene così avviato dall’amministrazione Obama un nuovo programma di armamento nucleare che, secondo un recente studio del Monterey Institute, verrà a costare (al valore attuale del dollaro) circa 1000 miliardi di dollari, culminando come spesa nel periodo 2024-2029. Essa si inserisce nella spesa militare generale degli Stati uniti, composta dal bilancio del Pentagono (640 miliardi di dollari nel 2013), cui si aggiungono altre voci di carattere militare (la spesa per le armi nucleari, ad esempio, è iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’Energia), portando il totale a quasi 1000 miliardi di dol­lari annui, corrispondenti nel bilancio federale a circa un dollaro su quattro speso a scopo militare.
L’accelerazione della corsa agli armamenti nucleari, impressa dall’amministrazione Obama, vanifica di fatto i limitati passi sulla via del disarmo stabiliti col nuovo trattato Start, firmato a Praga da Stati uniti e Russia nel 2010 (v. il manifesto del 1° aprile 2010). Sia la Russia che la Cina accelereranno il potenziamento delle loro forze nucleari, attuando contromisure per neutralizzare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno realizzando per acquisire la capacità di lanciare un first strike nucleare e non essere colpiti dalla rappresaglia.
Viene coinvolta direttamente nel processo di «ammodernamento» delle forze nucleari Usa anche l’Italia: le 70-90 bombe nucleari statunitensi B-61, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre, vengono tra­sformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» a guida di precisione, ciascuna con una potenza di 50 kiloton (circa il quadruplo della bomba di Hiroshima), particolarmente adatte ai nuovi caccia Usa F-35 che l’Italia si è impegnata ad acquistare. Ma di tutto questo, nei talk show, non si parla.

Manlio Dinucci, Il Manifesto

L’orazione ufficiale del 70° anniversario del rastrellamento del Grappa

OLYMPUS DIGITAL CAMERAQuesta è l’orazione ufficiale della Dott.ssa Sonia Residori, storica e componente del direttivo dell’ISTREVI “Ettore Gallo”, nel giorno del 70° anniversario del rastrellamento del Grappa. Una relazione che ha fatto dimenticare per un momento, le tante assenze di una ricorrenza che dovrebbe essere per l’Anpi e per la popolazione della pedemontana una giornata dedicata alla memoria del sacrificio dei tanti partigiani trucidati. Il sindaco di Crespano, Rampin Annalisa (non vuole essere chiamata “sindaca”) ha sottolineato anche lei la delusione per una giornata che avrebbe dovuto essere ben diversa da come è stata. Per finire il quadro deludente c’era perfino un banchetto di una sezione dell’Anpi che vendeva libri, facendo della memoria semplice mercimonio. E la memoria dei nostri partigiani non merita queste giornate.

Buongiorno a tutti, alle cittadine e ai cittadini presenti, ai rappresentanti delle associazioni partigiane e dei reduci, ai signori Sindaci e alle autorità di tutti i comuni oggi qui intervenuti.
Ringrazio prima di tutto il prof. Vittorio Andolfato, presidente dell’Associazione 26 settembre per avermi invitata a ricordare, in questa celebrazione, quello che è stato uno dei momenti più terribili della Resistenza vicentina e italiana, il rastrellamento del Grappa.
Nell’estate del 1944, il massiccio del Grappa, il “Monte sacro” degli italiani, rappresentava una specie di lembo di terra liberata, una sorta di zona franca, per antifascisti, renitenti e disertori, per i giovani che non intendevano aderire alla Rsi e collaborare con l’occupante tedesco.
Anche per gli ex prigionieri alleati, fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre, il Grappa rappresentava il territorio della salvezza vuoi per la presenza delle brigate partigiane nelle quali in molti si arruolarono, vuoi perché costituiva una tappa importante nel loro lungo viaggio verso la Svizzera.
Tra il 20 e il 21 settembre 1944, ingenti forze militari tedesche portarono l’attacco alle formazioni partigiane che presidiavano il massiccio del Grappa. Le forze della Resistenza ebbero un numero esiguo di perdite, ma non disponendo di armi adeguate e neppure di munizioni sufficienti, dopo un breve tentativo per contrastare il nemico, dovettero abbandonare il terreno. Alle ore 13 del 21 settembre 1944 il Comando partigiano diramò alle formazioni l’inevitabile “si salvi chi può”.
Gli altri giorni, quelli che vanno dal 22 fino alle prime ore del 29 settembre, furono caratterizzati dalla distruzione del territorio e delle case da parte dei rastrellatori, ma soprattutto dalla caccia all’uomo condotta con ogni mezzo. La maggior parte dei partigiani, infatti, era riuscita a sganciarsi e, superando i posti di blocco disposti da centinaia di fascisti italiani attorno al massiccio, a trovare un nascondiglio o a tornare a casa.
Con un piano diabolico il Comando tedesco indusse i genitori, gli amici e i parenti a far presentare i ragazzi partigiani promettendo loro salva la vita. Purtroppo, come cinicamente ebbe a dire l’ex federale Passuello, «in tempo di guerra la parola d’onore non vale nulla», e la promessa era in realtà un inganno.
Per alcuni giorni tutti i paesi della fascia pedemontana del Grappa divennero un grande patibolo, nel quale si susseguirono fucilazioni ai lati delle strade e all’interno della caserma Reatto e impiccagioni di giovani uomini ai pali della luce, agli alberi, ai poggioli delle case.
Il massacro terminò nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944, con l’eccidio avvenuto al quadrivio di Caselle d’Asolo, con l’uccisione degli ultimi partigiani condannati a morte, i 51 uomini ai quali il vescovo, mons. Zinato, credeva di aver salvato la vita con il suo intervento personale e dei quali non è mai stato trovato il corpo.
I reparti che portarono l’attacco al massiccio del Grappa, scontrandosi con i partigiani, erano esclusivamente tedeschi perché ai fascisti italiani collaboratori era riservata in genere una funzione di supporto. Solo la 1a legione d’assalto Tagliamento ebbe il “privilegio” di combattere al loro fianco: si trattava di un reparto di italiani che avevano giurato fedeltà a Hitler e che erano agli ordini esclusivi del Comando SS in Italia, una delle «migliori unità» naziste del gen. Wolff.
Di tale reparto, che si distinse per crudeltà anche in altre zone del Paese, fecero parte alcuni personaggi che divennero poi famosi in varia misura nell’Italia democratica. Giorgio Albertazzi, celebrato e applaudito attore di teatro; Augusto Ceracchini, considerato il «padre delle arti marziali» in Italia; Carlo Mazzantini, padre della più conosciuta Margaret, ma scrittore di successo egli stesso; Giose Rimanelli romanziere, professore emerito d’Italiano e letteratura comparata negli Stati Uniti. Tutti e quattro hanno lasciato le loro memorie ai posteri raccontando diffusamente della loro esperienza di volontari di Salò, ma facendo scendere un pesante silenzio su ciò che successe nel Vicentino, in particolare sul Grappa come se la legione Tagliamento non fosse mai stata nel nostro territorio. Dal momento che i documenti del reparto erano stati distrutti, queste loro memorie sono state storia per diversi anni.
Eppure secondo le denunce delle vittime, recuperate fortunosamente, i legionari della Tagliamento devastarono il Grappa ovunque: razziarono e bruciarono le casere della zona, si impossessarono di centinaia di capi di bestiame, arrestarono tutti i civili incontrati sul cammino stuprando le ragazze, uccidendo con indifferenza.
La presenza dei legionari è confermata sul luogo dove si consumò il dramma a Bassano il 26 settembre 1944, quando 31 giovani tra partigiani e civili, furono appesi agli alberi delle vie cittadine, con il cartello “Bandito” sul petto. L’esecuzione, allestita su tre vie alberate della cittadina trasformate in improvvisati patiboli, venne eseguita, tra gli altri, anche da legionari della Tagliamento.
Così come i legionari fecero parte altresì dei plotoni di esecuzione all’interno della caserma Reatto.
Nelle loro memorie Albertazzi, Mazzantini, Rimanelli e Ceracchini non nominano mai, neppure per errore, nessuna località del Vicentino.
Giorgio Albertazzi ha minimizzato tutta la sua partecipazione di ufficiale volontario alla repubblica di Salò, con una frase, ormai molto nota: «Io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Nel suo romanzo autobiografico, quando si tratta di raccontare il soggiorno vicentino della legione Tagliamento, il filo della memoria s’interrompe con un blak-out, e sposta direttamente il reparto da Pesaro Urbino alla Val Camonica, come se avere il comando di uno dei tre plotoni di cui era composta la 3a Compagnia, e aver partecipato al massacro del Grappa, fosse stato un fatto del tutto accidentale.
Lo scontro in cui fu ucciso l’eroico comandante Vico Todesco, il cap. Giorgi, assieme a Giuseppe Andriolo, Giampaolo Arsié, Antonio Cadorin e Giuseppe Dalla Zanna, avvenne nei pressi di Monte Oro, a Busa delle Càvare, tra i partigiani della Brigata “Italia Libera Campo Croce” e i legionari della 3a Compagnia della Legione “Tagliamento” nella quale era inquadrato con il grado di sottotenente anche Giorgio Albertazzi, allora comandante del 2° Plotone Fucilieri.
Eppure “Ah, sia chiaro: io sul monte Grappa non c’ero proprio” così rispondeva Albertazzi al giornalista del Giornale di Vicenza, Stefano Ghirlanda, che lo intervistava il 7 febbraio 2007.
Questa “dimenticanza” unita alla distruzione di tutta la documentazione attuata dal reparto al momento della resa, ricorda il comportamento delle truppe SS che quando si ritiravano dai campi di concentramento, distruggevano il più possibile, proprio per uccidere la memoria, sostenendo che tanto nessuno avrebbe creduto…
Lo storico francese Jacques Le Goff osserva come la commemorazione del passato abbia conosciuto un vertice nella Germania nazista e nell’Italia fascista in quanto «la memoria collettiva ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali. Impadronirsi della memoria e dell’oblìo è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degl’individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia sono rivelatori di questi meccanismi di manipolazione della memoria collettiva».
Offende il mio senso civico ed etico il sapere che Albertazzi, Ceracchini, Mazzantini e Rimanelli hanno vissuto a lungo e indisturbati, senza mai assumersi la responsabilità delle loro azioni, anzi talora sventolando spavaldi la militanza in un reparto assassino, tal altra protestando indignati per la propria buona fede e ancora affermando la validità della propria idea nonostante abbia ridotto l’Europa intera ad un gran cimitero.
Come possiamo costruire una società civile e democratica se nessuno è mai responsabile di niente? Distruggere ma anche solo intaccare la memoria di un individuo o di un gruppo umano, significa attentare alle sue radici e mettere a repentaglio la sua stessa identità pregiudicando la capacità di progettare il futuro.
Il recupero della memoria, la sistemazione e l’interpretazione del passato possono contribuire tanto alla costituzione dell’identità, individuale o collettiva, quanto alla formazione dei nostri valori.
Nel dopoguerra nessuno pagò per un massacro costato circa 300 vite umane e l’assenza di giustizia ha reso il dolore ancora più straziante. Lo storico non è un giudice, non ha il compito di stabilire chi è colpevole e chi è innocente, ma stabilisce lo svolgimento dei fatti, a volte con lacune perché è impossibile riparare alla distruzione dei documenti, in ogni caso contribuisce, se fa bene il suo mestiere, alla ricostituzione più corretta della memoria collettiva e, parzialmente, al risarcimento per l’assenza di giustizia, individuando le responsabilità e riconoscendo le vittime.
Io credo che siamo debitori, per dirla con le parole del filosofo Ricoeur, nei confronti di coloro che ci hanno preceduto di una parte di ciò che siamo e nella misura in cui il passato contribuisce a fare di noi ciò che siamo, dobbiamo rispondere del passato. Se oggi noi viviamo in un Paese con molte storture sulle quali possiamo lavorare, ma democratico e libero, lo dobbiamo alle vittime del massacro del Grappa, al sacrificio di questi giovani resistenti verso i quali deve andare tutta la nostra gratitudine. E queste mie parole vogliono essere un piccolo tributo di riconoscenza. Grazie.

 

Borgata Paraloup, la montagna viva

paraloupSotto le lose di pietra, senza la paglia su cui dormire. E, ogni giorno, a tirar la cinghia. A Paraloup, la più alta borgata di Rittana, Valle Stura (Cuneo), la vita era sacrificio. La guerra saliva dalla pianura. Ma, a 1.361 metri dal livello del mare, succedeva qualcosa di diverso: «Fra le povere baite tutto è vivo, in movimento: partigiani che puliscono le armi, che spaccano la legna, che tornano dalle corvées con i muli. Strano esercito. Uomini senza gradi, senza divise, sbrindellati: gente che parla tutti i dialetti, dal piemontese al siciliano. Molti i colori: maglioni e giubbotti rossi, gialli, con il grigioverde di sfondo, proprio come apparivano i campi di sci prima della guerra». A scrivere è Nuto Revelli (La guerra dei poveri, Einaudi), che a Paraloup arrivò solo nel febbraio del 1944, dopo la tragica esperienza della Russia, che aveva decimato gli alpini italiani, suoi compagni, in nome del patto d’acciaio tra Italia fascista e Germania nazista. Paraloup, che letteralmente significa «difesa dai lupi», è uno sparuto gruppo di baite. Così raccolto, ma pieno di storia da essere uno dei luoghi fondativi della nostra Repubblica.
Torniamo, allora, alla fine dell’estate del 1943, quando i lupi non avevano il pelo, ma elmetti, scarponi chiodati, mitra e croci uncinate sul petto e percorrevano quelle montagne a caccia di ebrei, soldati sbandati e disertori. Era passato poco più di un mese dalla caduta di Mussolini e dal famoso discorso che il giovane avvocato cuneese Tancredi Galimberti, chiamato da tutti Duccio, pronunciò, il 26 luglio, alla finestra del suo studio rivolgendosi alla folla gremita in piazza Vittorio: «La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista». La sera dell’8 settembre, il giorno in cui con l’armistizio crollavano le istituzioni dello Stato italiano, un gruppo di cittadini si riunì nello studio di Duccio. La decisione era stata presa. Si partiva per le montagne. Lassù su quelle cime che Giorgio Bocca descrisse, poi, come «il sostituto della sfida civile», un luogo «fuori dal fascismo», imperante in pianura, si preparava la nuova Italia.
Partirono da Cuneo diretti a Valdieri, in Valle Gesso, con al seguito un camion carico di armi e masserizie. Erano in dodici, come gli apostoli, solo uno di loro aveva maneggiato munizioni. «Strano gruppo di improbabili guerrieri, che avrebbe senza dubbio fatto arricciare il naso a più d’uno dei numerosi ufficiali di Stato maggiore che rifiutavano la collaborazione con i “ribelli”, perché non la consideravano una cosa seria» ha notato Marco Revelli (Resistenze, quelli di Paraloup, Edizioni Gruppo Abele). Il 12 settembre, si spostarono a Madonna del Colletto, sul valico che congiunge la Valle Stura e la Grana. Ma il luogo era indifendibile. Ecco perché scelsero Paraloup, sull’altro versante, dove arrivarono intorno al 20, il giorno dopo l’eccidio nazista di Boves, il primo nel Nord. Quello era il luogo ideale, a guardalo, oggi, si resta col fiato sospeso. Collocato sotto una cima pelata, dove frassini, faggi e betulle, dopo essersi fatti stretti, si allargano in una balconata naturale, da cui si può controllare tutta la pianura cuneese. La vista spazia per decine di chilometri.
I dodici, tra cui Dante Livio Bianco e Duccio Galimberti, non sono gli unici, giovani o meno, che salirono in montagna in quei giorni convulsi. Ma, con la fondazione del nucleo della banda «Italia libera», costituirono — secondo lo storico e partigiano Mario Giovana (La storia di una formazione partigiana, Einaudi) — la prima formazione partigiana militarmente organizzata e politicamente inquadrata. Facevano riferimento a Giustizia e libertà. Così, proprio qui, in Valle Stura, in un alpeggio dimenticato, un antro povero e remoto del Piemonte meridionale, iniziò la Resistenza al nazifascismo. Paraloup è stato, per alcuni mesi tra il 1943 e il 1944, un microcosmo di democrazia diretta e mescolamento sociale, in una montagna tradizionalmente restia al palcoscenico della Storia. In questa singolare enclave alpina si incontrarono magistrati e operai, avvocati e contadini, professori, commercianti e montanari. Tra le asprezze della guerra nasceva la coscienza civile, base dell’Italia libera, e — parallelamente — si organizzavano le azioni contro l’occupazione nazifascista del territorio.
Col tempo, nel dopoguerra, la montagna si spopolò, e così pure Paraloup. I tetti incominciarono a crollare, l’erba a crescere. E quel luogo cadde nel dimenticatoio, andando ad aggiungersi al lungo elenco di borghi fantasma. Paraloup incarna Il mondo dei vinti (Einaudi) raccontato da Nuto. Una montagna spopolata e abbandonata, che ha custodito fino a oggi una cultura «altra», da cui si dovrebbe recuperare un rapporto consapevole con la natura. Per 50 anni, le case dei pastori sono rimaste vuote e preda dell’incuria. Fino a quando la Fondazione Nuto Revelli, presieduta dal figlio Marco, storico e sociologo, dopo aver acquistato le baite, ha completato nel 2013 il lungo progetto di ristrutturazione, elaborato dagli architetti Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis, che hanno preservato i tessuti murari delle baite con la costruzione di un involucro di legno. L’obiettivo è stato quello di ridare vita alla «Pompei dei partigiani», non per farne un museo o un luna park per cittadini, ma un luogo aperto e vivo, simbolo della memoria e modello della civiltà alpina. A partire da un nuovo spazio per la comunità di Rittana, per tentare così il riscatto dei vinti. Come ha spiegato Marco Revelli: «Non sarebbe giusto limitare il messaggio che Paraloup è in grado di comunicare, con le sue case e le sue pietre, i suoi sentieri e i suoi pascoli, ai soli «venti mesi» di vita partigiana. Recuperare Paraloup significa anche farne un luogo di conoscenza (e «riconoscenza») di generazioni montanare».
Da giugno, tre mesi fa, Paraloup e le sue baite sono un rifugio alpino a tutti gli effetti. Lo gestiscono tre giovani, che hanno preso zaino e scarponi e sono saliti fin qui: Sara Gorgerino, 32 anni impiegata di Santo Stefano Roero, Manuel Ricca, studente universitario di 27 anni di Bernezzo, e Chiara Goletto, 27 anni, della vicina Rittana. Dodici posti letto, in ampliamento, e 30 coperti per lo spazio ristoro. Nella baita del comando partigiano adesso c’è il locale per la reception. «Paraloup non è solo un rifugio, è un villaggio della libertà e della memoria. All’inizio — racconta Sara — avevo timore nell’assumermi una grande responsabilità come questa. Ma ora la vivo più tranquillamente. Posso dire che Paraloup sia diventata la mia casa. Si incontrano persone diverse, giovani, famiglie, anziani, vengono qui richiamati da motivazioni varie. Ogni volta è un confronto arricchente». Manuel spiega alcuni progetti: «La memoria è parte di questo borgo. Non è semplice il rapporto con il passato. Ini- zieremo a lavorare con le scuole e a ripercorrere insieme i sentieri tra i boschi che gli ebrei facevano per nascondersi dai nazifascisti. Anche questo è rinsaldare la nostra memoria e trasmetterla».
Le baite ospitano mostre, incontri, proiezioni, reading e conferenze, organizzati dalla Fondazione Revelli. Nella sala più ampia è stata recentemente esposta la mostra fotografica La Spoon River contadina con le immagini di Paola Agosti. Fotografa indipendente ha viaggiato per il mondo raccontando grandi e piccoli eventi. Come nel 1977, quando con la macchina fotografica accompagnò Nuto alla ricerca di quella campagna povera che stava scomparendo. Rifece lo stesso itinerario geografico e umano ritratto con l’obiettivo. Pietro, Giovanna, Paolina, Giuseppe, volti asciutti, scavati, divennero testimoni dei saperi decaduti della montagna. «Collegare l’antico al nuovo è il progetto che anima il recupero di Paraloup, per far dialogare i due mondi, traghettando la memoria del passato scolpita nella materia più resistente (almeno nella simbologia della durata): la pietra» scrive la storica Antonella Tarpino in Spaesati (Einaudi).
Presto arriverà la neve. «Abbiamo fatto provvista di legna — conclude Sara Gorgerino — sperando che basti. Diverse iniziative sono in cantiere. Vorremmo, per esempio, rimettere in sesto il forno della borgata. Cercheremo di coinvolgere il più possibile la Valle Stura e la comunità di Rittana. Poi, quando tornerà il sole, organizzeremo una rassegna di cinema all’aperto».
Paraloup non è più un fantasma.

Mauro Ravarino, Il Manifesto del 17 settembre 2014

12 settembre 2014: “Assalto al Monte Grappa”

manifestoprovamanifestoprova4Il 21 settembre del 1944 iniziava “la più sanguinosa azione militare antipartigiana che abbia avuto luogo durante i 20 mesi della guerra di Liberazione” e “la più grave disfatta militare della Resistenza e di tutta la storia”: così Sergio Luzzato, storico e giornalista definisce il rastrellamento del Monte Grappa, organizzato e attuato da 8000 uomini di cui 5000 nazisti e 3000 fascisti. La legione M Tagliamento (con Giorgio Albertazzi comandante della 2° compagnia fucilieri), le brigate nere di Treviso e Vicenza, la decima mas, il CST trentino, ucraini, cosacchi, SS tedesche, contro i 1200 partigiani componenti le brigate partigiane “Campocroce”, “Archeson”, “Matteotti”, “Gramsci” e numerosi prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento. 40 partigiani caduti in combattimento, 260 impiccati o fucilati, 250 deportati che non fecero più ritorno, malghe incendiate, paesi interi dati alle fiamme, migliaia di capi di bestiame trasferiti in Germania per essere macellati e i 51 cadaveri mai più ritrovati di Casella d’Asolo. Un massacro attuato mediante un progetto infame che sconvolse intere comunità e che fece sentire i suoi effetti per molti anni, visto anche la totale impunità dei colpevoli.

Il 12 settembre alle ore 20.45 a Mirano, nella Sala Conferenze di Villa Errera, cercheremo di far luce su questa strage che è ancora sconosciuta a molti di noi.
Interverranno Federico Maistrello e Lorenzo Capovilla, autori del libro “Assalto al Monte Grappa – Settembre 1944, il rastrellamento nazifascista del Grappa, nei documenti italiani, inglesi e tedeschi” e Catia Costanzo Boschieri con una storia di Resistenza per immagini, oggetti, documenti e parole: “Il racconto di una scelta, Antonio Boschieri, il comandante D’Artagnan”.

http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2012/PATRIAluglio_Biblioteca_pag43-44.pdf

http://anpimirano.it/2013/antonio-boschieri-dartagnan/

«La situazione è disperata, siamo di fronte a una nuova Somalia»

imageLe vicende libiche hanno ormai preso una traiettoria complicata e di non facile lettura. Complice anche la difficoltà a reperire informazioni di prima mano, capaci di non essere smentite o negate nel giro di pochi minuti, come capitato nei giorni scorsi, quando gli Usa hanno accusato l’Egitto e gli Emirati arabi di bombardare Tripoli. Ipotesi smentita seccamente, nel giro di pochi istanti, dal Cairo. Abbiamo chiesto ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e biografo di Ghed­dafi, alcune opinioni sull’attuale crisi libica.

Intanto, come potremmo defi­nire e rac­con­tare quanto sta acca­dendo in que­ste ultime ore in Libia

La situazione è disperata, non ho mai usato un termine così violento, ma oggi possiamo ampiamente dirlo. La morte di Gheddafi invece di risolvere la situazione, come qualcuno aveva erroneamente sperato, ha accentuato la divisione del paese.
Gheddafi era stato capace di tenere sotto controllo e far dialogare 140 tribù, ripeto il numero, perché è importante, 140. Nei suoi anni di dittatura era riuscito a intrattenere buoni rapporti con tutti questi gruppi tribali, quindi in fondo la Libia, poteva essere considerato un paese tranquillo, anzi se vogliamo ricordare le cose per bene, si può affermare che fosse un paese piuttosto disponibile nei confronti dell’Occcidente e capace di costituire una copertura contro gli islamisti.

Qual è stato l’errore da cui è partito tutto?

L’errore non è stato casuale, secondo me è stato voluto, ed è consistito nel decidere di attaccare Gheddafi.
La decisione faceva parte di interessi europei e in modo particolare della Francia, che come sappiamo aveva buoni rapporti con Gheddafi, anzi pare che il leader libico avesse addirittura prestato 50 milioni di euro per la campagna elettorale di Sarkozy e forse per celare questa informazione è stato ucciso non solo dai droni partiti dalla Sicilia, ma dai raid aerei dei francesi.

Come si è arrivati a questo caos odierno?

Il generale Haftar, già sconfitto in Ciad, ha vissuto gli ultimi vent’anni della sua vita negli Stati uniti e mi pare chiaro che non stia riuscendo ad avere il sopravvento sugli islamisti. Oggi in Libia non c’è una forza che possa vincere con le armi, perché ci sono almeno un centinaio, alcuni dicono 300, piccole repubbliche diciamo libiche che si contendono il loro piccolo territorio e il denaro che esce dal petrolio e in un certo senso non vogliono accordarsi.
Finché queste forze non sono disarmate e non nasce una Libia davvero indipendente con un esercito e una polizia validi…non ci sono possibilità di soluzione politiche.

Ieri sul manifesto abbiamo ospitato un intervento di Jean Ping, ex ministro degli esteri gabonese e soprattutto ex presidente della Commissione dell’unione africana, nel quale viene tratteggiato il percorso politico che portò all’eliminazione di Gheddafi. Oggi può avere un ruolo l’Unione africana? E quale potrebbe essere l’impatto delle milizie islamiste in Libia?

Credo sia completamente fuori gioco, come del resto lo fu durante la guerra civile, quando non era riuscita a determinare l’esito di tutto quanto stava avvenendo. Oggi possiamo dire che la Libia è una nuova Somalia, divisa, con un’enormità di armi in giro. Perché anche questo fa parte della tragedia: in Libia ci sono molte armi, anche pesanti, perché Gheddafi ha sempre pensato di arricchire in continuazione il suo patrimonio bellico.
È vero che alcune di queste armi vennero vendute in giro, in Africa, ma molte sono ancora lì. Per quanto riguarda le milizie islamiste, credo siano molto forti e penso che Haftar non abbia le forze per contrastarli davvero.

Come provare a risolvere la situazione, quindi?

Non credo che dopo l’esperienza di tre anni fa, dopo la guerra civile, ci siano ancora paesi occidentali che si vogliono impegnare in una guerra sul terreno in Libia. Non credo che possano arrivare forze straniere, è una questione assolutamente interna, con due parlamenti uno a Tripoli e uno a Dobruk, se ci si potesse ridere sopra la situazione appare addirittura comica.

intervista di Simone Pieranni da “Il Manifesto” del 27/08/14

Gli immigrati in prima fila nella liberazione di Parigi e della Francia dal nazismo

missak-manouchian-portrait Mémorial_de_l'affiche_rouge wiki

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi ricorre il 70° anniversario della liberazione di Parigi dal nazismo e dal vichysmo. Non mancheranno le grandi commemorazioni e già si può visitare la video-mostra all’Hotel de Ville e un’altra al Musée Carnevalet con foto e diversi materiali della mostra che fu realizzata subito dopo la Liberazione grazie all’allora direttore del museo che era stato partigiano.
Ma ecco l’amara sorpresa per chi conosce un minimo la storia della Resistenza a Parigi e in Francia: invano troverà qualche ricordo delle migliaia e migliaia di immigrati che si batterono in prima fila per questa causa. Lo sciovinismo francese (di destra e di sinistra) sembra inossidabile, grottesco e quanto mai miserabile. Con il massimo rispetto per i quasi trecentomila (secondo alcuni forse cinquecentomila) francesi che parteciparono alla Resistenza, ricordiamo che sono comunque noti i documenti di archivio riguardanti l’importanza a volte decisiva che ha avuto l’impegno combattente degli immigrati stranieri: italiani, spagnoli, ebrei, polacchi, belgi e di quasi tutte le nazionalità (spesso nella competizione sciovinista fra gaullisti e comunisti francesi i loro nomi furono anche francesizzati). Purtroppo, questa pagina di storia è alquanto ignorata anche nei Paesi di origine. Numerosi fra questi resistenti erano prima andati a combattere in Spagna contro il franchismo e dopo la sconfitta erano passati in Francia. L’arrivo del fascismo al potere in Italia aveva provocato la fuga in Francia di circa un milione di persone, fenomeno che continuò sino al 1939 e anche durante la guerra. La guerra antifascista era continuata dappertutto: i fascisti perseguitavano i fuorusciti, uccisero i fratelli Rosselli, trasformarono le missioni cattoliche bonomelliane in Francia, create per gli emigrati italiani, in case del fascio sostenendo ovviamente i preti che inneggiavano ai “santi manganelli del 1922”.
Non è esagerato dire che però la stragrande maggioranza degli italiani in Francia era antifascista e che i militanti socialisti, comunisti, anarchici e “popolari” erano assai numerosi: in particolare a Parigi, nella banlieue, oltre che a Marsiglia e in altre città.
Sino al 1939 la polizia francese aveva concesso loro un récépissé valido come documento d’identità e come permesso di soggiorno rinnovato ogni mese (il che lasciava queste persone in balia delle minacce d’espulsione se non collaboravano con gli sbirri e se si ostinavano a rifiutare l’arruolamento nella Legione straniera). Ma nell’aprile 1940 il ministro della Giustizia socialista Serol firmava il decreto che condannava a morte tutti i responsabili (o solo sospetti) della ricostruzione delle organizzazioni comuniste e di sinistra sciolte già prima.
I Francs Tireurs et Partisan de la Main d’Oeuvre Immigrée (Ftp-Moi) fu la organizzazione che già negli anni trenta aveva cominciato a inquadrare gli immigrati militanti i quali sin dal 1940 passarono alla lotta armata contro il nazismo e i vichysti collaborazionisti. E’ vero che la maggioranza erano comunisti, ma è sbagliato dire che erano comandati dal Partito comunista francese il quale “brillava” per il suo stalinismo mentre la maggioranza degli immigrati combattenti non sembra proprio che fossero forgiati per le vie nazionali al socialismo e l’obbedienza cieca all’Urss. Prova ne è che in diversi casi combatterono anche con anarchici, socialisti, cattolici e “senza partito”. L’adesione ai Ftp-Moi era quasi sempre dovuta al caso, a incontri amichevoli e soprattutto grazie alle relazioni fra immigrati originari della stessa zona o comunque dello stesso Paese o anche di Paesi diversi proprio perché i francesi in maggioranza erano sciovinisti e spesso razzisti. Nella regione parigina, il gruppo Ftp-Moi che diventerà più famoso sia per le sue azioni temerarie e particolarmente efficaci sia perché i nazisti ne fecero il principale bersaglio della loro controffensiva, fu il gruppo “Manouchian” creato nel 1942 (dal cognome del capo che era un armeno). Questo è l’unico gruppo che resta attivo poiché tutte le altre formazioni partigiane erano state sterminate dalla Gestapo grazie alla collaborazione di quasi tutta la polizia francese e dei “cittadini collaborazionisti”. Del gruppo fanno parte 65 combattenti fra i quali alcuni avevano acquisto la nazionalità francese prima dell’occupazione nazista e dell’arrivo al potere di Pétain – governo di Vichy – o perché nati in Francia (la più vecchia immigrazione era quella di ebrei provenienti da diversi Paesi, polacchi, armeni, italiani e spagnoli; gli italiani erano la maggioranza degli immigrati rimasti con nazionalità straniera). 200 sbirri della Brigata speciale della Préfecture de Police di Parigi insieme alla Gestapo si misero a caccia di questi tenacissimi resistenti. Secondo alcuni il numero di combattenti e loro affiliati era molto più grande se si pensa a quanti li aiutavano per il trasporto di armi ed esplosivi, per i nascondigli, per tutte le diverse necessità di cui abbisogna un gruppo armato che si spostava in una grande città e riusciva a fare attentati nelle caserme dei nazisti, negli hotel dove stavano gli ufficiali e anche a distribuire volantini un po’ ovunque. Fra il 1942 e la fine del ‘43, il gruppo compie 229 azioni denunciate dai nazisti (ma non tutte venivano registrate, tanto meno quelle in cui i nazisti erano stati messi in ridicolo). Secondo alcune fonti riescono a realizzare un attentato ogni due giorni, senza contare i piccoli sabotaggi che in realtà sono opera anche di semplici simpatizzanti. Fra le azioni più spettacolari si ricorda l’eliminazione fisica in rue Pétrarque di Parigi, del generale delle SS Julius Ritter, responsabile della deportazione di circa 500 mila francesi in Germania per il Servizio del Lavoro Obbligatorio (di quest’azione sono accusati Celestino Alfonso, Spartaco Fontano, Léo Kneler e Marcel Rayman).
All’inizio del 1944 i nazisti, con la tortura, riescono a far parlare alcuni fermati e quindi arrestano 23 del gruppo che il 21 febbraio 1944 sono messi a morte alle porte di Parigi (Mont Valérien).
Volendo screditare tutta la Resistenza, i nazisti pubblicizzano il processo contro il gruppo Manouchian attaccando in tutte le strade della città la famosa “affiche rouge”, ossia un manifesto con le facce e i nomi di alcuni arrestati del gruppo, per far leva sullo sciovinismo razzista francese mostrando che i cosiddetti liberatori non erano altro che stranieri, “disoccupati” (“parassiti”) e terroristi che mettevano a rischio la vita della pacifica e buona popolazione parigina: “un’armata del crimine contro la Francia”. Oltre all’affiche furono diffuse in tutta la città decine di migliaia di volantini con un testo che dettagliava l’accusa ai criminali stranieri che avevano cercato di farsi passare per “liberatori”. Ecco i loro nomi, in maggioranza sono giovanissimi: Joseph Boczov (ebreo ungherese, 38 anni, 20 attentati e capo dei deragliatori), Thomas Elek (ebreo ungherese, 18 anni, accusato di 8 deragliamenti di treni), Maurice Fingercwajg (ebreo polacco, 19 anni, 3 attentati e 5 deragliamenti), Szlama Grzywacz (ebreo polacco, 34 anni, accusato di 2 attentati), Missak Manouchian (il capo, armeno, 37 anni, accusato di 56 attentati, 150 morti, 600 feriti), Marcel Rayman (ebreo polacco, 21 anni, 13 attentati), Wolf Wajsbrot (ebreo polacco, 18 anni, 1 attentato e 3 deragliamenti), Robert Witchitz (ebreo polacco, 19 anni, accusato di 15 attentati).
Ed ecco gli altri condannati a morte: Celestino Alfonso (spagnolo, 27 anni), Olga Bancic (rumena, 32 anni, uccisa a Strasburgo), Georges Cloarec (francese, 20 anni), Rino Della Negra (italiano, 19 anni), Spartaco Fontanot (italiano nato a Monfalcone, 22 anni), Jonas Geduldig (polacco, 26 anni), Emeric Glasz (ungherese, 42 anni), Léon Goldberg (polacco, 19 anni), Stanislas Kubacki (polacco, 36 anni), Césare Luccarini (italiano, 22 anni), Armenak Arpen Manoukian (armeno, 44 anni), Roger Rouxel (francese, 18 anni), Antonio Salvadori (italiano, 24 anni), Willy Schapiro (polacco, 29 anni), Amédéo Usséglio (italiano, 32 anni).
Si noterà che sull’affiche sono messi solo gli ebrei di origine straniera, anche se hanno la nazionalità francese, e il capo del gruppo, Missak Manouchian, accusato di una quantità enorme di attentati.
Sull’“affiche rouge” Frank Cassenti ha girato il film con tale nome nel 1976.

(dal blog http://danielebarbieri.wordpress.com)

L’ultima lettera di Manouchian

http://quotidien-parisiens-sous-occupation.paris.fr/index.php

Le foto di Robert Capa sulla liberazione di Parigi

23 agosto 1944: strage del Padule di Fucecchio

padufucIl 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese, Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).
Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.
In quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.
In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità, almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofi al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi volevano proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.
L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.
L’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani.
Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.
Tutte le vittime furono ritrovate durante la stessa giornata o nel corso della notte fra il 23 e il 24 dai familiari o dai parroci dei paesi; vennero trasportati con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in un primo momento in fosse comuni.
Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani. Fascisti locali furono riconosciuti nelle varie località.
La sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese che a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”. (dal sito http://www.eccidiopadulefucecchio.it/)

Umberto Lorenzoni: “La sinistra non si indigna più”

2mZbPv8La Resistenza non è finita 70 anni fa. Oggi continua nella lotta in difesa della Costituzione. “Non chiamatemi più ex partigiano – scandisce perentorio Umberto Lorenzoni, 88 anni, presidente Anpi Treviso – Io sono ancora un difensore della libertà e della democrazia, ora più che mai dalla fine della guerra”. Non è un caso che l’Anpi, come il nostro giornale, all’inizio di giugno ha lanciato una raccolta firme contro la riforma del Senato voluta dal patto Renzusconi. “È uno schifo – s’indigna Lorenzoni -, hanno rotto l’equilibrio dei padri costituenti”.

Quindi va lasciata così come è?

Una proposta seria è ridurre a 200 il numero di senatori e a 400 quello dei deputati, affidare ai secondi la funzione legislativa e ai primi quella di controllo. Invece, hanno combinato un pasticcio e garantito un risparmio di solo 50 milioni di euro.

Un’altra Resistenza.

Purtroppo sì, non voglio il ritorno del regime. Uno come me, che ha combattuto contro i fascisti, come fa a dire di sì a un piano del genere? Così indecente anche il sistema elettorale: l’Italicum è solo una brutta copia del Porcellum. Chi vince le elezioni, potrà decidere il capo dello Stato, no più super partes ma uomo della maggioranza. Si sta realizzando insomma il sogno della P2 e di Licio Gelli.

Ci sono già le premesse?

Il divieto del voto di preferenza. I parlamentari rispondono solo a chi li ha nominati, cioè i leader di partito, non ai cittadini.

La conseguenza?

Per esempio, il Pd per anni ha criticato il Porcellum, ora invece accetta senza fare una piega l’italicum, solo perché il capo bastone è cambiato. Renzi ha confuso l’Italia con un accampamento di boy scout, con tutto il rispetto per coccinelle e lupetti.

L’Anpi è rimasta senza eredi ai governo?

In pratica è così. Tra i nostri iscritti ci sono parecchi giovani (a Treviso mille su 1500 tesserati), ma si sentono spaesati, senza punti di riferimento.

L’opposizione esiste ancora?

Guardi, la sinistra è morta e sepolta. Se B. avesse fatto quello che oggi sta facendo Renzi avrebbe riempito le piazze. Il Movimento Cinque stelle si è perso per strada, eppure all’inizio avevo fiducia in loro.

Perché la gente non reagisce?

Renzi ha approfittato della crisi per distruggere la Costituzione perché la maggior parte degli italiani è distolto dalla preoccupazione di portare il pane a casa.

Qual è il fraintendimento più grande?

Quello che solo andando d’accordo con B. si può governare. Uno scandalo, ma tutti ne sono convinti.

A luglio il Miur ha siglato con l’Anpi un accordo per promuovere i valori della Costituzione nelle scuole. Una presa in giro?

Sì, ma almeno il progetto è andato in porto.

Lei ha un’energia invidiabile. Spera ancora in un futuro migliore?

Quando a 17 anni decisi di fare il partigiano, ci dicevano che eravamo “bambini pazzi” e “troppo pochi” ma poi abbiamo vinto. Anche oggi dobbiamo resistere un minuto in più dei nemici. Staccai da un albero un morto impiccato. Questo ricordo, ogni volta, mi carica per la battaglia a favore della democrazia.

Intervista di Chiara Diana da “Il Fatto” del 19 agosto 2014