Borgata Paraloup, la montagna viva

paraloupSotto le lose di pietra, senza la paglia su cui dormire. E, ogni giorno, a tirar la cinghia. A Paraloup, la più alta borgata di Rittana, Valle Stura (Cuneo), la vita era sacrificio. La guerra saliva dalla pianura. Ma, a 1.361 metri dal livello del mare, succedeva qualcosa di diverso: «Fra le povere baite tutto è vivo, in movimento: partigiani che puliscono le armi, che spaccano la legna, che tornano dalle corvées con i muli. Strano esercito. Uomini senza gradi, senza divise, sbrindellati: gente che parla tutti i dialetti, dal piemontese al siciliano. Molti i colori: maglioni e giubbotti rossi, gialli, con il grigioverde di sfondo, proprio come apparivano i campi di sci prima della guerra». A scrivere è Nuto Revelli (La guerra dei poveri, Einaudi), che a Paraloup arrivò solo nel febbraio del 1944, dopo la tragica esperienza della Russia, che aveva decimato gli alpini italiani, suoi compagni, in nome del patto d’acciaio tra Italia fascista e Germania nazista. Paraloup, che letteralmente significa «difesa dai lupi», è uno sparuto gruppo di baite. Così raccolto, ma pieno di storia da essere uno dei luoghi fondativi della nostra Repubblica.
Torniamo, allora, alla fine dell’estate del 1943, quando i lupi non avevano il pelo, ma elmetti, scarponi chiodati, mitra e croci uncinate sul petto e percorrevano quelle montagne a caccia di ebrei, soldati sbandati e disertori. Era passato poco più di un mese dalla caduta di Mussolini e dal famoso discorso che il giovane avvocato cuneese Tancredi Galimberti, chiamato da tutti Duccio, pronunciò, il 26 luglio, alla finestra del suo studio rivolgendosi alla folla gremita in piazza Vittorio: «La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista». La sera dell’8 settembre, il giorno in cui con l’armistizio crollavano le istituzioni dello Stato italiano, un gruppo di cittadini si riunì nello studio di Duccio. La decisione era stata presa. Si partiva per le montagne. Lassù su quelle cime che Giorgio Bocca descrisse, poi, come «il sostituto della sfida civile», un luogo «fuori dal fascismo», imperante in pianura, si preparava la nuova Italia.
Partirono da Cuneo diretti a Valdieri, in Valle Gesso, con al seguito un camion carico di armi e masserizie. Erano in dodici, come gli apostoli, solo uno di loro aveva maneggiato munizioni. «Strano gruppo di improbabili guerrieri, che avrebbe senza dubbio fatto arricciare il naso a più d’uno dei numerosi ufficiali di Stato maggiore che rifiutavano la collaborazione con i “ribelli”, perché non la consideravano una cosa seria» ha notato Marco Revelli (Resistenze, quelli di Paraloup, Edizioni Gruppo Abele). Il 12 settembre, si spostarono a Madonna del Colletto, sul valico che congiunge la Valle Stura e la Grana. Ma il luogo era indifendibile. Ecco perché scelsero Paraloup, sull’altro versante, dove arrivarono intorno al 20, il giorno dopo l’eccidio nazista di Boves, il primo nel Nord. Quello era il luogo ideale, a guardalo, oggi, si resta col fiato sospeso. Collocato sotto una cima pelata, dove frassini, faggi e betulle, dopo essersi fatti stretti, si allargano in una balconata naturale, da cui si può controllare tutta la pianura cuneese. La vista spazia per decine di chilometri.
I dodici, tra cui Dante Livio Bianco e Duccio Galimberti, non sono gli unici, giovani o meno, che salirono in montagna in quei giorni convulsi. Ma, con la fondazione del nucleo della banda «Italia libera», costituirono — secondo lo storico e partigiano Mario Giovana (La storia di una formazione partigiana, Einaudi) — la prima formazione partigiana militarmente organizzata e politicamente inquadrata. Facevano riferimento a Giustizia e libertà. Così, proprio qui, in Valle Stura, in un alpeggio dimenticato, un antro povero e remoto del Piemonte meridionale, iniziò la Resistenza al nazifascismo. Paraloup è stato, per alcuni mesi tra il 1943 e il 1944, un microcosmo di democrazia diretta e mescolamento sociale, in una montagna tradizionalmente restia al palcoscenico della Storia. In questa singolare enclave alpina si incontrarono magistrati e operai, avvocati e contadini, professori, commercianti e montanari. Tra le asprezze della guerra nasceva la coscienza civile, base dell’Italia libera, e — parallelamente — si organizzavano le azioni contro l’occupazione nazifascista del territorio.
Col tempo, nel dopoguerra, la montagna si spopolò, e così pure Paraloup. I tetti incominciarono a crollare, l’erba a crescere. E quel luogo cadde nel dimenticatoio, andando ad aggiungersi al lungo elenco di borghi fantasma. Paraloup incarna Il mondo dei vinti (Einaudi) raccontato da Nuto. Una montagna spopolata e abbandonata, che ha custodito fino a oggi una cultura «altra», da cui si dovrebbe recuperare un rapporto consapevole con la natura. Per 50 anni, le case dei pastori sono rimaste vuote e preda dell’incuria. Fino a quando la Fondazione Nuto Revelli, presieduta dal figlio Marco, storico e sociologo, dopo aver acquistato le baite, ha completato nel 2013 il lungo progetto di ristrutturazione, elaborato dagli architetti Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis, che hanno preservato i tessuti murari delle baite con la costruzione di un involucro di legno. L’obiettivo è stato quello di ridare vita alla «Pompei dei partigiani», non per farne un museo o un luna park per cittadini, ma un luogo aperto e vivo, simbolo della memoria e modello della civiltà alpina. A partire da un nuovo spazio per la comunità di Rittana, per tentare così il riscatto dei vinti. Come ha spiegato Marco Revelli: «Non sarebbe giusto limitare il messaggio che Paraloup è in grado di comunicare, con le sue case e le sue pietre, i suoi sentieri e i suoi pascoli, ai soli «venti mesi» di vita partigiana. Recuperare Paraloup significa anche farne un luogo di conoscenza (e «riconoscenza») di generazioni montanare».
Da giugno, tre mesi fa, Paraloup e le sue baite sono un rifugio alpino a tutti gli effetti. Lo gestiscono tre giovani, che hanno preso zaino e scarponi e sono saliti fin qui: Sara Gorgerino, 32 anni impiegata di Santo Stefano Roero, Manuel Ricca, studente universitario di 27 anni di Bernezzo, e Chiara Goletto, 27 anni, della vicina Rittana. Dodici posti letto, in ampliamento, e 30 coperti per lo spazio ristoro. Nella baita del comando partigiano adesso c’è il locale per la reception. «Paraloup non è solo un rifugio, è un villaggio della libertà e della memoria. All’inizio — racconta Sara — avevo timore nell’assumermi una grande responsabilità come questa. Ma ora la vivo più tranquillamente. Posso dire che Paraloup sia diventata la mia casa. Si incontrano persone diverse, giovani, famiglie, anziani, vengono qui richiamati da motivazioni varie. Ogni volta è un confronto arricchente». Manuel spiega alcuni progetti: «La memoria è parte di questo borgo. Non è semplice il rapporto con il passato. Ini- zieremo a lavorare con le scuole e a ripercorrere insieme i sentieri tra i boschi che gli ebrei facevano per nascondersi dai nazifascisti. Anche questo è rinsaldare la nostra memoria e trasmetterla».
Le baite ospitano mostre, incontri, proiezioni, reading e conferenze, organizzati dalla Fondazione Revelli. Nella sala più ampia è stata recentemente esposta la mostra fotografica La Spoon River contadina con le immagini di Paola Agosti. Fotografa indipendente ha viaggiato per il mondo raccontando grandi e piccoli eventi. Come nel 1977, quando con la macchina fotografica accompagnò Nuto alla ricerca di quella campagna povera che stava scomparendo. Rifece lo stesso itinerario geografico e umano ritratto con l’obiettivo. Pietro, Giovanna, Paolina, Giuseppe, volti asciutti, scavati, divennero testimoni dei saperi decaduti della montagna. «Collegare l’antico al nuovo è il progetto che anima il recupero di Paraloup, per far dialogare i due mondi, traghettando la memoria del passato scolpita nella materia più resistente (almeno nella simbologia della durata): la pietra» scrive la storica Antonella Tarpino in Spaesati (Einaudi).
Presto arriverà la neve. «Abbiamo fatto provvista di legna — conclude Sara Gorgerino — sperando che basti. Diverse iniziative sono in cantiere. Vorremmo, per esempio, rimettere in sesto il forno della borgata. Cercheremo di coinvolgere il più possibile la Valle Stura e la comunità di Rittana. Poi, quando tornerà il sole, organizzeremo una rassegna di cinema all’aperto».
Paraloup non è più un fantasma.

Mauro Ravarino, Il Manifesto del 17 settembre 2014

Nuto Revelli

Nuto Revelli nasce a Cuneo nel 1919. Ufficiale degli alpini, visse la tragedia della campagna di Russia e della ritirata, documentandola nel diario “Mai tardi”. Salito in montagna dopo l’8 settembre, diresse una delle più attive formazioni partigiane del Cuneense: questa esperienza è riflessa nel volume “La guerra dei poveri”. Ha raccolto nel volume “La strada del Davai” le testimonianze orali di quaranta reduci della Cuneense e, nell’ “Ultimo fronte” le lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale. Nel 1977 scrisse “Il mondo dei vinti”, una raccolta di testimonianze orali la cui idea risale ai mesi della guerra partigiana: far parlare “quelli che non sapevano”, i “vinti”, i contadini e i montanari delle zone depresse del Cuneense, gli emarginati, i dimenticati di sempre. Storie di guerra, di lavoro, di emigrazione, storie vere del mondo contadino fotografato nella sua dura realtà quotidiana: pagine che costituiscono un atto di accusa per un genocidio silenzioso attuato nell’indifferenza di tanti e che costituiscono la preziosa documentazione di una civiltà e di una cultura ormai passata.

“Una società che abbandona al proprio destino le sacche di depressione e miseria, che soffoca le minoranze, è una società malata”

Nessuno ha voluto accompagnare i contadini nella Storia come protagonisti. Il “mondo dei vinti” è stato lasciato in disparte, utile serbatoio di soldati inconsapevoli, di manodopera strappata al suo ambiente naturale, di docili elettori. Nuto Revelli ha raccolto queste testimonianze per trasformare in una lezione per il presente (di consapevolezza critica, di autocoscienza) l’esperienza di “quelli che non sapevano”.
Nuto è morto a Cuneo il 5 febbraio 2004.

Un calcolo approssimativo dice che nell’estate 1944 operano nel Cuneese seimila partigiani. Ogni giorno i «Notiziari dell’attività ribellistica», compilati dal prefetto fascista e inviati al Ministero dell’Interno, al Quartier Generale, al Capo della Polizia, registrano decine di «colpi di mano», di azioni e sabotaggi compiuti dai «fuorilegge», dai «banditi», dai «ribelli». Ormai i fascisti si sentono assediati, chiusi in una morsa tremenda, e rispondono come sempre con le rappresaglie, con le torture, i massacri, gli incendi. I fascisti guardano ogni notizia, ogni fatto, con la lente di ingrandimento. Senza una massiccia presenza dei tedeschi si sentono perduti, impotenti.
I rastrellamenti dell’estate-autunno incidono di nuovo sul morale delle popolazioni. L’inverno 1944-45 si presenta durissimo. Nel cuore del’inverno le brigate partigiane che operano nelle valli, nelle immediate retrovie del fronte alpino, devono smistare verso le Langhe una parte delle loro forze.
Poi la primavera 1945, poi i giorni del 25 aprile, con le popolazioni protagoniste nella battaglia della Liberazione. II prezzo pagato dalla nostra gente, il prezzo visibile, è scritto sulle lapidi, sui cippi disseminati a centinaia nelle valli, in pianura, nelle Langhe. Sono duemila i nostri Caduti in combattimento, gli impiccati, i morti sotto le torture, i morti nei campi di sterminio e nei campi di prigionia tedeschi. Molti di questi Caduti sono contadini, anche se le lapidi e i cippi non lo dicono.” (dall’introduzione a “Il mondo dei vinti”)

I testimoni si dilungano nell’inventariare e descrivere i nascondigli dei «renitenti». Ma una cosa non la dicono, forse perché la ignorano, forse perché fingono di ignorarla. Non dicono che la sicurezza delle «tane» che ospitavano i «renitenti» era tutta e soltanto nella forza, nella presenza attiva dei partigiani. Senza la presenza attiva dei partigiani, i tedeschi e i fascisti avrebbero stroncato il fenomeno della renitenza nel giro di dieci giorni.
Tutti gli eccidi, tutte le rappresaglie, sono scolpiti nella mente dei testimoni. Salvi, Frezza, Ronza, Ferrari, Brachet, Pavan, Pocar, Languasco, Gagliardi, Rossi, sono ancora simbolo del terrore. Non per niente i testimoni, quando descrivono le imprese dei Salvi o dei Languasco, tremano, si emozionano. Raccontano, ed è come se rivivessero un brutto sogno, come se disegnassero un ex voto. Hanno paura a parlare dei fascisti e del fascismo, come se ne temessero il ritorno! Soltanto i congiunti dei partigiani, soltanto i congiunti dei fucilati e degli impiccati, quando raccontano vanno oltre l’episodio, e mi parlano senza mezze parole del fascismo di ieri e di oggi. Lorenzo Falco, ex partigiano, sopravvissuto ai campi di sterminio, non esita, mi dice: « Il fascismo di oggi è solo il risveglio della morte». (dall’introduzione a “Il mondo dei vinti”)

http://www.nutorevelli.org/biografia.aspx

La canzone “Pietà l’è morta” con parole di Nuto Revelli: