8 SETTEMBRE 1943
1.
—8 settembre del ’43. In città (Venezia) arrivarono le truppe tedesche e si videro in giro le Brigate Nere. Orrendi
manifesti affissi sui muri delle case della mia bella città intimavano ai ragazzi e agli uomini di
presentarsi immediatamente nelle caserme, minacciando gravi rappresaglie per chi non lo avesse
fatto. Un gruppo di giovani leggevano un manifesto vicino a me e si chiedevano cosa dovessero
fare. Mi rivolsi a loro con una voce che non mi era propria – ero molto timida- : “Non dovete
presentarvi. Nascondetevi”.
Passai tutta la giornata davanti a quei manifesti, dando a molti ragazzi quel consiglio che nessuno
mi aveva detto di dar loro. Poi mi accorsi che alcuni uomini in divisa mi stavano osservando e
scappai via per quelle calli e callette veneziane che sembrano fatte apposta per aiutare chi è in fuga.
Quello fu il mio primo atto politico del tutto autonomo e da allora tanti altri ne ho compiuti! E come
me tante altre donne si diedero da fare, così, spontaneamente.
Avevamo saputo che alla stazione partivano treni pieni di soldati italiani, diretti in Germania. Con
alcune amiche decidemmo di portare dei viveri e pacchi di vestiti civili per cercare di aiutare
qualche soldato. Ricordo che le più anziane dicevano: “Voglio aiutare i giovani perché qualche altra
mamma aiuterà mio figlio”.
Queste fu il primo sentimento che animò le donne facendo loro superare la paura e compiere atti
che mai avrebbero pensato di compiere. Fu la solidarietà e l’avversità alla guerra. Un sentimento
profondo che gli uomini che avevano fatto il militare non potevano provare con quell’intensità.
Poi, quando si seppe delle atroci rappresaglie, delle torture nelle carceri, subentrò l’odio contro i
tedeschi, odio che già era nella memoria storica della gente veneta. Da sempre le donne del popolo
dicevano ai loro bambini: “Ste’ boni perché se no ciamemo i cruchi!”.
(Aida Tiso)
2.
—Nel porto di Venezia sono ancorate le prime navi stipate di prigionieri italiani affamati. Ci
avviciniamo con una barca carica di marmitte di minestra e di altro cibo. I tedeschi ci hanno
promesso di non sparare. La nave brulica di uomini che dagli oblò urlano e invocano. Piovono
dall’alto gamelle che noi riempiamo in fretta. Le nostre facce grondano lacrime e brodo di fagioli.
(Ida D’Este)
3.
…avevamo un deposito di patate per l’osteria, salami e altre cose per l’inverno, … e mano a mano
che venivano questi ragazzi affamati abbiamo esaurito tutto, non sono stata a pensare che ci sarebbe
stato un domani! E dopo cosa ho fatto? Ho preso una pentola grande l’ho riempita di patate e
mangiavano patate e vino e dopo, all’imbrunire, li facevamo scappare rifocillati…
Ho detto: “qua bisogna fare qualcosa” e ci siamo riunite tutte quante noialtre donne.
(Ines Mumeni)
4.
Nel ’43 avevo 14 ani, ero proprio sull’adolescenza, quando tutti i marinai del forte di Mazzorbo, l’8
settembre, sono scappati. Mio fratello, del ’23, era andato sotto le armi, era un mariner de la
corvetta “Fenice”; non abbiamo saputo più niente di lui. Allora io cosa ho fatto? Siccome sti tosi
venivano a chiedere di cambiarsi, ho dato tutta la roba di mio fratello; ho detto: «Se me fradeo trova
qualchedun che ghe dà la roba anca a lu…». E mia mamma mi ha detto di tutto: «Se el vien a casa,
cosa el se mete?» «Eh, combater
, trovaremo! » E sti marinai, man mano che arrivava qualche
barca salivano, perché non c’erano tanti vaporetti, due al giorno che andavano e venivano per
Burano e Venezia; e questi marinai prendevano il vaporetto, in borghese, e cercavano di farla
franca. Non li abbiamo più visti, non sappiamo nemmeno se sono ancora vivi. Però alcuni erano
rimasti nascosti nelle case dell’isola (perché abitavano lontano).
Noi abitavamo a Mazzorbo, in fondamenta, e dietro la casa avevamo l’orto; dopo gli orti c’era il
forte dei marinai e dietro avevamo la terra a mezzadria. Andavo a lavorare con mio padre. Mio papà
faceva l’ortolano, coltivava i carciofi, tutte queste cose che si coltivano a Mazzorbo e si portavano a
Rialto con la barca; venivano anche i compratori, allora si prendeva la barca e la si portava alle
palae a forsa de vogar.
Non erano scappati tutti i marinai, alcuni erano rimasti nascosti. Allora, quando venivano a far
rastrellamento, io avevo la barca in canale, li portavo di là del canale, nei campi e loro si
nascondevano in mezzo al formenton. C’era un pescatore che veniva a dire: «Vardè che ghe xè i
vaporeti par el rastrelamento». Allora noi cosa facevamo? Si passava parola casa per casa,
venivano da me e io con la barca li portavo di là.
Anche se sembra un fatto piccolo, è grande quando si ha paura, no? Voga, voga, non arrivavamo
mai! Dovevo buttarli di là, tornar indietro e nascondermi in casa; una volta, tornando, sono saltata
sulla riva e sono andata dentro in casa, però mi hanno gridato: «Ehi, partisan! ». Mi no gero
partisana, aiutavo sta gente; mi no savevo gnanca de esar … Li buttavamo di là e forse ne
abbiamo salvato diversi e dopo non so che fine hanno fatto, perché nessuno è tornato.
(Wilma Ballarin)
Profili biografici
Profili biografici
Aida Tiso (Venezia 1922, Roma 1999)
Fu una delle poche donne del Veneto che ricevette la qualifica di “partigiano combattente” dal
Ministero della Difesa.
Anche per Aida l’adesione alla Resistenza inizia dopo l’8 settembre 1943. Dalla stazione partivano
treni pieni di soldati italiani, diretti in Germania. A loro, insieme a delle amiche, portava viveri e
pacchi di vestiti. Suo marito era medico ed era stato catturato dai tedeschi per essere deportato in
Germania. Riuscì a fuggire e insieme si trasferirono a Santa Giustina Bellunese, dove la loro casa e
lo studio del marito divennero punto di riferimento per i partigiani della zona. Un giorno
dell’autunno del 1944 una staffetta avvertì che un traditore aveva segnalato la loro casa, così
dovettero tornare Venezia. Ad Aida venne chiesto, dal CLN, di organizzare i “Gruppi di difesa
delle donne e di assistenza dei partigiani”, ma rifiutò preferendo continuare l’attività clandestina.
Ebbe un ruolo importante nella liberazione dei membri del Comando Piazza, mentre stavano
organizzando l’insurrezione della città, che erano stati incarcerati dalle Brigate Nere nella caserma
di San Zaccaria. Uno di loro era suo marito, Carlo Oliverio. Ad Aida venne chiesto di recarsi alla
Caserma delle Brigate Nere e di chiedere un colloquio con il marito per riferirgli che, insieme agli
altri, doveva riuscire a farsi ricoverare all’Ospedale Civile, da dove i partigiani li avrebbero poi
liberati. Consegnò un falso documento intestato “Governo dell’Italia libera” ai militi che erano di
guardia in Ospedale, in cui si ordinava il rilascio dei detenuti politici. L’operazione ebbe successo.
La Liberazione era vicina. e poco dopo ci fu l’avanzata dell’Esercito Alleato e il ritiro dell’Esercito
Tedesco.
Aida, a causa della sua timidezza, non riuscì a partecipare alla sfilata di tutti i partecipanti veneti in
1 “Non sto a combattere” espressione tipica veneziana per dire “lascio perdere”. Di seguito: burci = barconi da
trasporto; moeche = granchi teneri durante la muta; ghebo = piccolo canale ; canoti de formenton = steli del granoturco.
Piazza San Marco il 5 maggio: sapeva però di essere diversa, di essersi emancipata, di essere
diventata autonoma e indipendente nei suoi giudizi. Dopo la guerra non si ritirò a vita privata, ma
continuò il suo impegno nella politica come militante del PCI.
Ida D’Este (Venezia 1917-1976), si laurea in Lingue a Ca’ Foscari nel settembre del ’43. Cattolica
fervente, militante dell’Azione cattolica, si impegna in opere di apostolato sociale. Dopo l’8
settembre organizza con le sue amiche del circolo di Azione cattolica un’intensa attività di aiuto ai
soldati sbandati e ai militari italiani prigionieri nelle navi che arrivano alla Marittima per essere
deportati. Entra quindi nella Resistenza come staffetta di collegamento tra il CLN – Comitato di
Liberazione Nazionale – regionale veneto e i CLN provinciali di Venezia, Padova, Vicenza e
Rovigo, a fianco di Giovanni Ponti, primo sindaco di Venezia dopo la guerra. Arrestata nel gennaio
del 1945, detenuta e torturata dalla Banda Carità a Palazzo Giusti a Padova, è deportata nel lager di
Bolzano, dove rimane fino alla Liberazione, obbligata a lavorare in una fabbrica di cuscinetti a
sfera e a lavare la biancheria dei soldati.
Dopo la guerra, Ida viene eletta in Consiglio comunale nelle prime libere elezioni del 1946 (le
donne votano per la prima volta) ed in seguito viene eletta alla Camera, dove si impegna per il
riscatto della condizione femminile, sostenendo attivamente la senatrice Lina Merlin nella sua
battaglia per la promulgazione e l’attuazione della Legge contro la regolamentazione della
prostituzione di stato (Legge Merlin, 1958). Osteggiata e isolata dal suo stesso partito, abbandona la
vita politica e si dedica con passione alla riabilitazione delle prostitute e alla tutela delle ragazze
madri, in strutture di accoglienza intitolate a Giovanna d’Arco, riprendendo il nome che aveva
scelto per sé da staffetta partigiana.
Ines Mumeni nasce nel 1917 a Campolongo Maggiore, in una famiglia antifascista di dieci fratelli,
sei femmine e quattro maschi. Dopo la quinta elementare, dagli undici ai quindici anni lavora a
servizio presso alcune famiglie Venezia, quindi come operaia alla Salca, alla Breda e alla Galileo di
Marghera. Si sposa nel ‘38 e ha tre figli. Dopo il matrimonio lavora nell’osteria del suocero Nalin,
comunista, il cui fratello era stato mandato al confino.
Inizia la sua attività resistenziale dopo il 25 luglio del ‘43, aiutando soldati inglesi a fuggire dai
campi di prigionia alle Giare, e, dopo l’8 settembre, aiutando e sfamando i soldati italiani sbandati,
in fuga per non essere catturati dai tedeschi.
Svolge attività di staffetta nella brigata garibaldina “Umberto Fasolato”, costituitasi a Mira
nell’estate del ‘44 per iniziativa di alcuni operai della Mira Lanza. È testimone della
cosiddetta battaglia dell’Olmo, che costò un notevole tributo di sangue alla brigata, intercettata da
alcune compagnie della X Mas, a causa di una delazione, nella notte tra il 26 e il 27 aprile 1945, nei
giorni dell’insurrezione.
Dopo la guerra, fonda l’UDI – Unione Donne Italiane – e anima le lotte delle donne della Riviera del
Brenta con alcune storiche battaglie, alla Mira Lanza e alla Breda. Assiste i profughi del Polesine
dopo l’esondazione del Po del 1951.
Muore a Gambarare di Mira nel 2015.
Cecilia Wilma Ballarin
Nasce a Lio Piccolo, nella laguna veneziana, nel 1929. La famiglia si trasferisce presto a Mazzorbo,
dove il padre, ortolano, coltiva a mezzadria i campi degli Scarpa.
Dopo l’8 settembre del ’43 i marinai del forte di Mazzorbo si danno alla fuga. Wilma, che ha un fratello
militare, li aiuta a nascondersi e a scappare. Entra a far parte della rete di salvataggio e in seguito svolge
attività clandestina, che fa capo al postino Guido. Verso il 25 aprile ‘45, assiste dalla finestra di casa alla
resa dei tedeschi ai partigiani.
Dopo la guerra lavora nella locanda Cipriani a Torcello, poi a servizio dagli Scarpa. Nel ‘50 sposa
Angelo Fantinato, che lavora in fornace a Murano. Vanno ad abitare a Venezia e poi, nel ‘59, a Favaro
Veneto, nella terraferma veneziana. Il marito è operaio alla Sirma a Marghera. Entrambi aderiscono al
Pci e sono politicamente impegnati: lui nel Consiglio di fabbrica, lei in quartiere con l’UDI.
A Favaro allora non c’erano scuole e lei è in prima fila a lottare, a raccogliere firme, a organizzare le
donne per andare in delegazione in Comune, Provincia e Regione. Poi lottano per le fognature e per gli
autobus.
Quando nel 1964 gli operai occupano la Sirma per un mese, Wilma e le altre donne sono fuori dei
cancelli della fabbrica. E’ candidata alle elezioni comunali ed eletta consigliera dal 1970 al 1975.