Matteo Renzi lo ha ricevuto a cena a Palazzo Chigi. Un incontro di due ore per rinsaldare il “patto” contro la Costituzione. “Il patto tiene”, “Il patto regge”, fanno sapere alla fine i partecipanti.
Più di settanta articoli della Costituzione italiana saranno sostituiti per far posto a un monocameralismo senza pesi e contrappesi e a tutto quello che si trascinerà dietro.
Cerchiamo dunque di approfondire, partendo dalle personalità dei contraenti il patto. Da una parte c’erano tre giovani politici, tutti nati nella Dc o nella Margherita, (due di essi Renzi e Lotti anche boyscout). Dall’altra, accanto a Berlusconi e Verdini che di problemi con la giustizia non deficitano (è dell’altro giorno l’autorizzazione del Senato all’uso delle intercettazioni di Verdini per l’inchiesta sulla P3), anche Gianni Letta, che non è parlamentare e nemmeno ex, che è qualcosa di più, appartiene al rango di coloro che molto spesso sono ringraziati per aver “servito” la Repubblica italiana. In che modo Gianni Letta ha “servito” il Paese? Offrendo a Berlusconi una sponda “istituzionale” ogni qual volta ce n’è stato bisogno.
Assenti: un qualunque politico proveniente dalla radice Ds del partito Democratico o da qualche altra sinistra italiana. Nessuno scandalo: questa riforma piace all’attuale Pd, anche se non a tutto.
Questa riforma non fa paura a nessuno, perché, come dice Gustavo Zagrebelsky, Renzi non è un tiranno. Oggi, non c’è un tiranno. Non c’è ancora la “svolta autoritaria”, stiamo però andando “verso” la svolta. Basta mettere insieme la riforma elettorale, la nuova Costituzione, la politica dell’energia e della velocità, il disprezzo per il pensiero critico.
Renzi è un erede. Di quale tradizione e di quale pensiero politico si potrebbe discutere a lungo. Magari per decidere che eredità e sfoggio di innovazione sono una sola cosa. E che la democrazia è altro, e non trae linfa vitale da un “patto” siglato e rafforzato a Palazzo Chigi, tra quei contraenti.
Anzi, si assottiglia sempre di più, fino a quando respingere l’eredità sarà troppo tardi e inutilmente cercheremo nella Costituzione di Renzi e di Berlusconi le garanzie che avevamo avuto ma che qualcuno, una sera a cena, aveva deciso che erano diventate inutili, anzi dannose. (Sandra Bonsanti da libertaegiustizia.it)
Mese: Aprile 2014
CLNAI: Ultimatum del 19 aprile 1945
Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato.
Sia ben chiaro per i componenti delle forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi in mano sarà fucilato.
Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al Comitato di Liberazione Nazionale, consegna le armi – quante armi può – ai patrioti avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti.
Il Comitato di Liberazione Nazionale e le formazioni armate del Corpo dei Volontari della Libertà non accettano e non accetteranno mai – in armonia con le decisioni dei capi responsabili delle Nazioni Unite – altra forma di resa dei nazifascisti che non sia la resa incondizionata.
Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza.
Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.
Achille Marazza per la Democrazia Cristiana
Augusto De Gasperi per la Democrazia Cristiana
Ferruccio Parri per il Partito d’Azione
Leo Valiani per il Partito d’Azione
Luigi Longo per il Partito Comunista Italiano
Emilio Sereni per il Partito Comunista Italiano
Giustino Arpesani per il Partito Liberale Italiano
Filippo Jacini per il Partito Liberale Italiano
Rodolfo Morandi per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria
Sandro Pertini per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria
Manifestazione ANPI del 29 aprile sulle riforme Costituzionali
Care amiche e cari amici, care Associazioni,
come ormai saprete, l’ANPI ha indetto un manifestazione nazionale, al Teatro Eliseo di Roma, per martedì 29 aprile, alle ore 16,30, sui temi e con le posizioni che rileverete agevolmente dall’allegato, che esprime quanto deliberato, dopo ampia e proficua discussione, dal Comitato Nazionale dell’ANPI, nella riunione del 1 aprile scorso.
Non chiediamo adesioni, né facciamo raccolta di firme, perché pensiamo che – oltre ad indirizzi che a buon diritto possiamo considerare comuni – ci possono essere molte variazioni, essenziali o sfumature, ben comprensibili data la delicatezza dei temi affrontati. Riteniamo, peraltro, che su alcuni punti di carattere generale (la necessità di cambiamento, ma nella coerenza costituzionale e nel rispetto dei princìpi di rappresentanza e di democrazia) ci possa essere, come auspichiamo, un sentire comune. Ed è per questo che Vi rivolgo, a nome della mia Associazione, un caldo invito a partecipare alla manifestazione, sia pure nella libertà di ciascuno di mantenere posizioni diverse sugli aspetti particolari.
Noi crediamo che sarebbe interesse di tutti che la manifestazione fosse partecipata anche da forze e persone diverse, oltre ai nostri iscritti, perché c’è una necessità reale di impedire che – troppo in fretta e senza opportune riflessioni – si metta mano sia alla legge elettorale che alla riforma del Senato, proponendo invece una riflessione serena e costruttiva, nei tempi necessari, per cambiare, con coerenza e con rispetto dei diritti dei cittadini e dei princìpi Costituzionali.
Spero, quindi, di vedervi con noi il 29 aprile. Se poi riterrete di inviarci anche il vostro saluto e la vostra adesione di fondo alle tematiche in discussione, ne saremo particolarmente felici e ne daremo pubblicamente atto.
La battaglia sarà lunga, con ogni probabilità e richiederà un serio impegno da parte di tutti. Se riusciremo a condurla unitariamente, almeno negli aspetti fondamentali e fatte salve le opinioni di ciascuno sulle specifiche soluzioni, ne trarrà vantaggio l’intera collettività, oggi forse un po’ distratta rispetto a questi temi, ma che cercheremo di informare adeguatamente perché ognuno conosca e possa poi esprimere consapevolmente la propria volontà.
Con i più cordiali saluti e nella sincera speranza di ritrovare il terreno per un cammino comune.
Carlo Smuraglia
Milano 15 aprile 2014
Le riforme, le esigenze della rappresentanza, il rispetto della coerenza costituzionale: una “questione democratica”
Il Comitato nazionale dell’ANPI rileva che:
– l’indirizzo che si sta assumendo nella politica governativa in tema di riforme e di politica istituzionale non appare corrispondente a quella che dovrebbe essere la normalità democratica;
– si sta privilegiando il tema della governabilità (pur rilevante) rispetto a quello della rappresentanza (che è di fondamentale e imprescindibile importanza)
– si continua nel cammino – anomalo – già intrapreso da tempo, per cui è il Governo che assume l’iniziativa in tema di riforme costituzionali e pretende di dettare indirizzi e tempi al Parlamento;
– un rinnovamento della politica e delle istituzioni è essenziale per il nostro Paese, come già rilevato nel documento dell’ANPI del 12 marzo 2014;
– sono certamente necessari aggiustamenti anche del sistema parlamentare, così come definito dalla Costituzione, rispettando peraltro non solo la linea fondamentale perseguita dal legislatore costituente, ma anche le esigenze di centralità del Parlamento, della rappresentanza dei cittadini, del controllo sull’attività dell’Esecutivo, delle aziende e degli enti pubblici, in ogni loro forma e manifestazione;
– in questo contesto, è giusto superare innanzitutto il cosiddetto bicameralismo “perfetto”, fondato su un identico lavoro delle due Camere e quindi, alla lunga, foriero anche di lungaggini e difficoltà del procedimento legislativo; ma occorre farlo mantenendo appieno la sovranità popolare, così come espressa fin dall’art. 1 della Costituzione e garantendo una rappresentanza vera ed effettiva dei cittadini, nelle forme più dirette;
– il Senato, dunque, non va “abolito”, così come non va eliminata l’elezione da parte dei cittadini della parte maggiore dei suoi componenti; possono essere individuate anche forme di rappresentanza di altri interessi, nel Senato, come quelli delle autonomie locali, della cultura, dei saperi, della scienza; ma in forme tali da non alterare il delicato equilibrio delle funzioni e della rappresentanza;
– la maggior parte dell’attività legislativa può ben essere assegnata alla Camera, così come il voto di fiducia al Governo; ma individuando nel contempo forme di partecipazione e tipi di intervento da parte del Senato, così come previsto in molti dei modelli già esistenti in altri Paesi;
– in nessun modo il Senato può essere escluso da alcune leggi di carattere istituzionale, nonché dalla partecipazione alla formazione del bilancio, che è lo strumento fondamentale e politico dell’azione istituzionale e dei suoi indirizzi anche con riferimento alle attività di Autonomia e Regioni;
– tutto questo può essere realizzato agevolmente, anche con una consistente riduzione di spese, non solo unificando la gran parte dei servizi delle due Camere, ma anche riducendo il numero dei parlamentari, sia della Camera che del Senato, vista l’opportunità offerta dalla differenziazione delle funzioni;
– bisogna anche dire che concentrare tutti i poteri su una sola Camera, per di più composta anche col premio di maggioranza, lasciando altri compiti minori ad un organismo non elettivo, con una composizione spuria e fortemente discutibile ed obiettivi e funzioni altrettanto oscure, non appare rispondente affatto al disegno costituzionale, dotato di una sua intima coerenza proprio perché fatto di poteri e contropoteri e di equilibri estremamente delicati; un disegno che in qualche aspetto può – e deve – essere aggiornato, ma non fino al punto di stravolgere quello originario.
Queste sembrano, all’ANPI, le linee fondamentali di un cambiamento democratico delle istituzioni, che esalti il ruolo del Parlamento, rafforzi la rappresentanza dei cittadini in tutte le sue espressioni, ed assegni ad ognuna di esse il ruolo che le compete secondo gli orientamenti generali della Carta Costituzionale e le esigenze della democrazia, da perseguire con economicità di spesa ed efficienza dei risultati.
Appare, altresì, pacifico che deve essere riformato il titolo V della Costituzione, procedendo ad una più razionale ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, che elimini ragioni di conflitto e consenta agli organi centrali dello Stato di esprimere una legislazione di pieno indirizzo su materie fondamentali per tutto il territorio; definisca compiutamente e definitivamente il ruolo delle Regioni, a loro volta bisognose di riforme sulla base dell’esperienza realizzata dal 1970 ad oggi, che spesso le ha viste diventare altri organismi di centralizzazione dei poteri e le riconduca a funzioni di indirizzo e controllo e non di gestione; nonché precisi in modo conclusivo tutta la materia delle Province e degli enti intermedi, finora risolta con provvedimenti parziali che non sembrano corrispondere ad esigenze di effettiva razionalità e di contenimento delle spese.
Tutto questo richiederà tempi più adeguati, escluderà la fretta, rispondente, piuttosto che ad esigenze razionali, ad altro tipo di logiche; ma dovrà essere affrontato senza tergiversazioni e senza inopinati stravolgimenti dei metodi e degli stessi contenuti. Se è giusto porre rimedio ad alcune incongruenze strutturali rivelate dall’esperienza, l’obiettivo deve essere quello di farlo con saggezza e ponderazione, ed anche con le competenze necessarie, sempre preferibili alla improvvisazione ed all’incoerenza di una fretta dettata da ragioni molto lontane dal rispetto con cui si devono affrontare serie riforme costituzionali.
Ci sono, sul tappeto, diverse proposte; altre sono fornite dall’esperienza giuridica e politica di altri Paesi; le si esamini senza pregiudizi e insofferenze ed ascoltando pareri e proposte che possono contribuire al miglior esito delle riforme.
E si approfitti dell’occasione per un ripensamento della legge elettorale, che così come approvata da un ramo del Parlamento, non risponde alle esigenze di una vera rappresentanza e di democrazia e soprattutto contraddice, oltre alle attese di gran parte dei cittadini, le stesse indicazioni della Corte Costituzionale.
Infine, l’occasione non appare idonea per raccogliere l’antica esigenza, manifestata da altri Governi e sempre respinta, di un rafforzamento dell’esecutivo e del suo Presidente, che vada a scapito della funzione e del ruolo del Parlamento, al quale il Governo può indicare priorità, come è suo diritto, ma non imporre scadenze e calendari privilegiati rispetto a qualunque autonoma iniziativa del Parlamento.
Su tutti questi temi, l’ANPI è pronta a discutere e confrontarsi, ma prima di ogni altra cosa, intende informare i cittadini, perché sappiano qual è la reale posta in gioco e capiscano che questa Associazione, che si rifà a valori fondamentali e in essi trova la sua forza e la sua autorevolezza, intende esercitare non solo la sua funzione critica, ma anche la sua capacità propositiva, nel rispetto assoluto del suo ruolo e della sua autonomia.
Quando si tratta di difendere valori che si richiamano alla Costituzione ed alla democrazia, oltreché ai diritti di fondo in cui si esprime la sovranità popolare, l’ANPI non può che essere in campo, non per conservare, ma per innovare, restando però sempre ancorata ai valori ed ai princìpi della Costituzione.
Questa non è l’ora della obbedienza ai diktat, ma è quella della mobilitazione, a cui chiamiamo tutti i cittadini, per fare ciò che occorre con la dovuta ponderazione e col rispetto e la salvaguardia degli interessi fondamentali dei cittadini, che certo aspirano ad un rinnovamento, ma in un contesto equilibrato e democratico, corrispondente alle linee coerenti e chiaramente definite dalla Costituzione repubblicana.
IL COMITATO NAZIONALE DELL’ANPI
Roma, 9 aprile 2014
Davide Conti: “L’anima nera della Repubblica. Storia del MSI”
Venerdì 18 aprile alle ore 20.45 presso la sala conferenze di Villa Errera, Davide Conti presenterà il suo ultimo lavoro “L’anima nera della Repubblica. Storia del MSI”. Introdurrà Bruno Maran.
«Il Movimento sociale italiano non rappresentò solo un’esperienza testimoniale, un approdo unicamente reducistico, ininfluente rispetto alle vicende politiche. Un «polo escluso», come definito da qualcuno. Condizionò, invece, a più riprese il quadro politico e istituzionale, consentendo, fra il 1953 e il 1960, la nascita di ben quattro governi a guida democristiana (Pella, Zoli, Segni e Tambroni), nonché l’elezione di due presidenti della Repubblica, Giovanni Gronchi nel 1955 e Giovanni Leone nel 1972, quest’ultimo grazie proprio ai voti missini. Non solo, tra i primi anni Sessanta e la metà dei Settanta, nel pieno dispiegarsi della strategia della tensione, entrò in stretta relazione con i vertici militari italiani, con gli ambienti Nato e dell’Alleanza atlantica, con settori industriali, ma anche, in campo internazionale, con la destra repubblicana di Richard Nixon. Fece parte integrante di quell’ampio schieramento anticomunista che si costituì nel nostro paese e che operò dietro tutti i piani eversivi e di messa in discussione delle istituzioni democratiche, tentando addirittura di assumerne un ruolo guida. Di questo tratta in particolare “L’anima nera della Repubblica” di Davide Conti (pp. 226, euro 20 euro, Laterza), un libro che ricostruisce la storia dell’Msi in stretta connessione con l’evolversi delle più generali vicende politiche, economiche e internazionali. Una storia non solo partitica, si potrebbe dire, ma dell’estrema destra nel suo complesso, con uno sguardo sul passato recente e il presente. Qualcuno, forse, ha già dimenticato come l’MSI, nel 1994, con il suo top elettorale di sempre (il 13.5%), ancor prima di trasformarsi in Alleanza Nazionale, riuscì, nel quadro della fine della prima Repubblica, a diventare forza di governo insieme a Forza Italia e Lega.
Indipendentemente dal carattere nostalgico, l’Msi cercò subito, nell’immediato dopoguerra (nacque il 26 dicembre 1946), di ritagliarsi uno spazio politico nell’alveo anticomunista. Dirimenti in questo senso furono le vicende internazionali. Prima la guerra di Corea del 1950, poi la rivolta antisovietica di Budapest nel 1956, portarono l’Msi a un sostegnopieno dell’Alleanza atlantica, accettata come “sistema militare anticomunista”, a favore del quale già nel 1951 il suo gruppo dirigente si era espresso, nonostante le organizzazioni giovanili missine inscenassero manifestazioni antiamericane in opposizione alla ratifica del patto. D’altro canto l’ambivalenza e la doppiezza furono tra le costanti di tutta la sua storia, sempre in bilico fra inserimento e sovversione. “Inserimento”, da un lato, negli anni Cinquanta e nei primissimi Sessanta, nell’area governativa, a destra della Democrazia cristiana, come contrappeso alle aperture nei confronti dei governi di centrosinistra, “sovversione”, dall’altro, nei termini della riproposizione di sé come “forza alternativa al sistema”, che lo spinse a coltivare un violento e sistematico squadrismo, a costituire gruppi paramilitari, ma soprattutto ad assecondare le pulsioni golpiste che in quegli anni attraversavano le forze armate, o parte di esse, progetto attorno al quale negli anni Settanta disegnò le prospettive.
I fatti del luglio Sessanta con la sconfitta del governo Tambroni, nato con il sostegno determinante dei parlamentari missini, costretto alle dimissioni dalla protesta di piazza, portò all’irreversibile crisi di ogni opzione strategica di inserimento. Da qui anche una svolta con la decisione dell’Msi di costruire strutture parallele armate con la convergenza dell’ala guidata da Giorgio Almirante con tutta la galassia della destra extraparlamentare, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale, nella prospettiva di uno scardinamento violento delle istituzioni repubblicane.
L’idea di un colpo di stato attraverso gli stessi vertici dell’Arma dei carabinieri, si pensi al “Piano Solo” che coinvolse nell’estate del 1964 l’allora Presidente della Repubblica Antonio Segni e il generale Giovanni De Lortenzo, ma anche ampi settori dell’esercito. Gli atti finali del famoso convegno all’Hôtel Parco dei principi di Roma, agli inizi di maggio del 1965, promosso proprio dallo Stato maggiore, sono ancora lì a dimostrarlo.
I rapporti con gli ambienti militari furono strettissimi, collocando l’Msi all’interno di quell’ “atlantismo radicale”, volto al contrasto del Pci nei termini della cosiddetta “controinsorgenza” e della “guerra rivoluzionaria”, con la collaborazione prevista tra militari e civili lungo crinali eversivi. I colonnelli che avevano, nell’aprile del 1967, assunto il potere in Grecia, indicavano la strada. Da qui lo svilupparsi della strategia della tensione come “strategia politico-militare di origine atlantica”.
Giorgio Almirante fu il primo segretario dell’Msi, nell’immediato dopoguerra, ma soprattutto, dopo un lungo intervallo, al suo comando dal 1969 fino quasi alla fine degli anni Ottanta. Rispetto ai suoi predecessori rideclinò la politica di inserimento in modo assai più aggressivo, puntando alla frattura fra i partiti antifascisti con settori della Dc, Pli e Psdi. Una sorta di schieramento nazionale “anticomunista”. Sotto la sua guida cercò di coniugare la carica “antisistema” delle origini con il richiamo alla “piazza di destra”, il ribellismo dei moti di Reggio Calabria (1970), ampiamente sostenuti, con una politica di “legge” e “ordine”. “Doppiopetto e manganello”, come si disse allora. A tale scopo riaggregò anche tutto l’estremismo extraparlamentare. I “bombaroli” di Ordine nuovo furono riaccolti nei ranghi del partito già nel novembre 1969, poche settimane prima della strage di Piazza Fontana.
L’internità dell’Msi alla strategia della tensione, con un carico notevolissimo di episodi violenti e squadristici, fu indiscutibile, come il suo proposito di concretizzare una svolta autoritaria sotto gli auspici delle forze armate. Molte le fonti utilizzate a questo proposito dall’autore, non solo istituzionali, ma anche di provenienza democristiana, tra gli altri l’archivio dell’Istituto Luigi Sturzo. Da questa stessa documentazione una fotografia degli innumerevoli finanziamenti di cui godeva l’Msi: dalla Fiat di Giovanni Agnelli (che incontrò Giorgio Almirante nel settembre 1969) alla Confindustria, all’Assaolombarda, per passare da Eni, Snia e Montecatini. Aziende private e parastatali. Un flusso impressionante di denaro, anche straniero, come i milioni di dollari, registrati nelle informative del Ministero degli interni, affluiti da Washington. La strategia della tensione fu sconfitta, verso la metà degli anni Settanta, dopo una prolungata e imponente mobilitazione antifascista che fece naufragare i disegni eversivi e ricacciò l’Msi nella marginalità. Fino ai primi anni Novanta quando, sotto la direzione di Gianfranco Fini, il partito neofascista fu ripescato e rilegittimato all’interno del nuovo schieramento berlusconiano. Da questa stessa storia alcune delle radici della nuova destra politica italiana, dai tratti eversivi, di certo non conservatrice.
Lorenza Carlassare: Costituzione a rischio
Professoressa Carlassare, le polemiche sulle riforme non accennano a placarsi.
C’è una verità sotterranea che unisce certi comportamenti: l’insofferenza al dialogo e alle critiche, la reazione smodata a un appello firmato da persone completamente prive di potere, come siamo noi che abbiamo sottoscritto il documento di Libertà e Giustizia. Ed è la mancanza assoluta di cultura costituzionale, che porta a un’idea deformata di democrazia: cioè che si può arrivare anche a escludere i cittadini dalle decisioni. Quello che si avverte – ed è ben evidenziato dall’articolo di Marco Travaglio sul Fatto di mercoledì – è che il concetto di democrazia costituzionale è del tutto estraneo anche a persone di buona cultura.
Ce lo spieghi meglio.
Democrazia “costituzionale” significa soprattutto controllo sul potere; per evitare che si concentri, ha come fondamentale principio la divisione dei poteri e il reciproco controllo. L’abbiamo ripetuto centinaia di volte: il costituzionalismo esprime l’esigenza di dare regole e limiti al potere e dunque, limiti alla maggioranza per realizzare “una serie di garanzie reciproche tra le varie forze sociali e politiche in modo da evitare che la sovranità popolare si risolva automaticamente nella sovranità di una semplice maggioranza parlamentare” (come diceva un grande costituzionalista, Vezio Crisafulli).
La nostra è una democrazia pluralista.
Il punto è esattamente questo, la Costituzione vuole il pluralismo in tutte le sue forme: pluralismo religioso, sindacale, politico, territoriale. Ma siccome il pluralismo costituisce un freno, non lo si ama. E ora si vogliono eliminare i limiti giuridici e politici derivanti dalla pluralità di opinioni difformi. Si vuole cancellare il Senato: io non amo il Senato, né il bicameralismo perfetto, vorrei chiarire, ma a questa riforma che vuole eliminarlo o reciderne il legame con gli elettori si accompagna l’idea di eleggere la Camera dei deputati con un sistema che esclude il pluralismo e potenzia al massimo un partito (che raggiunge una soglia non elevata) mediante un premio che lo pone in posizione egemone. Il limite politico, in democrazia, è dato dalle minoranze, ma con l’Italicum restano fuori dal Parlamento.
Oltre al contenuto, a lei non è piaciuto nemmeno il modo in cui le riforme sono nate, con il patto del Nazareno.
Il modo in cui le riforme sono nate non è democratico. Non possono essere i capi di due partiti a decidere. Al Parlamento si fanno proposte, non si può pretendere che siano immodificabili. È una cosa folle: a questo punto sarebbe meglio eliminiamo non solo il Senato, ma anche la Camera! Spendiamo meno e le leggi le fanno in due.
Tra il Porcellum e l’inerzia legislativa degli ultimi anni, ci siamo assuefatti a un Parlamento diminuito?
Appunto, si vuole – si è voluto – emarginare il Parlamento che è l’organo della rappresentanza popolare. O meglio: quello che ci resta perché questo Parlamento, per le note vicende del Porcellum, non ci rappresenta. Depotenziata la rappresentatività delle due Camere, ora si vuole sancire anche lo svuotamento delle loro funzioni imponendo decisioni prese altrove.
Ormai si legifera solo con decreti leggi o leggi delega.
Il paradosso è che nel periodo berlusconiano le leggi che servivano all’ex Cavaliere venivano approvate alla velocità della luce. Sono riusciti perfino a fare una riforma costituzionale che nel 2006 il referendum ha bocciato. Poi c’è stato un abnorme ricorso alla legislazione d’urgenza e ora si vuole un Parlamento che si limiti ad approvare. Si ricorda Berlusconi quando parlava di un “Parlamento di figuranti”? Che, aggiungo io, è stato sfigurato da quella legge elettorale poi dichiarata illegittima. Ma ora la si vuole perpetuare: l’Italicum ha gli stessi difetti del Porcellum. Dunque un Parlamento “per approvare”. Ma attenzione, per approvare non solo ciò che propone il governo, ma ciò che i capi partito hanno deciso nelle segrete stanze e che impongono all’Assemblea che dovrebbe rappresentare il popolo. Cioè il popolo “sovrano”, in base all’articolo 1 della Costituzione: forse vogliamo cancellare anche quello?
Da Il Fatto Quotidiano del 13/04/2014.
Quel che resta di Gramsci
«Qui Antonio Gramsci abitò negli anni 1919-21 nelle lotte operaie contro l’incombente reazione forgiando il partito comunista, guida decisiva per la libertà e il socialismo». La lapide posta nel 1957 sul muro del palazzo torinese che ospitò le riunioni di redazione dell’Ordine Nuovo sarà presto oscurata da un’insegna ben altrimenti visibile, in cui si leggerà: Hotel Gramsci.
In un paese in cui i teatri greci vedono rombare le macchine di lusso, le librerie si convertono in supermercati di lusso, i ponti vengono affittati a club di super-ricchi, le biblioteche ospitano partite di golf e i musei si riducono a location per sfilate di moda, non stupisce che quell’edificio di Torino vada incontro a una sorte simile. Quel che pare allucinante è che la catena NH Hotels e i suoi partner italiani (tra cui Intesa San Paolo) abbiano deciso di usare il nome di Antonio Gramsci per battezzare un albergo a cinque stelle, con area fitness e piscina sul tetto. Associando così ad un potente simbolo di lusso e diseguaglianza il nome di chi ha scritto che «non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica». Chi chiamerebbe «Gesù spa» una banca d’affari con sede a Betlemme, chi intitolerebbe a Gandhi un poligono di tiro a Nuova Delhi?
Eppure, il direttore dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, Sergio Scamuzzi, ha dichiarato: «non ci vedo niente di male, nessun elemento fuorviante o che va a collidere con la storia di Gramsci. Credo anzi che lui sarebbe molto contento di sapere che un albergo con il suo nome produrrà occupazione». È stupefacente come sia saltata ogni idea di decoro, che vuol dire saper mettere le cose al loro posto. Qui non si tratta di decidere se Gramsci avrebbe approvato l’esistenza di un albergo di lusso, si tratta di usare il suo nome per vendere quel prodotto: contribuendo alla marmellata generale che ci opprime, e che trova l’unico valore di riferimento nel denaro. Come ha detto Nicola Tranfaglia, «il carcere duro e la terribile morte che sono toccati in sorte a Gramsci hanno poco a che fare con l’immagine di un hotel di lusso». Punto. (Di Tommaso Montanari da “Il Fatto”)
Carlo Smuraglia sulla riforma del Senato
La riforma del Senato: il Comitato nazionale dell’ANPI, unanime, ha espresso la sua contrarietà ad un progetto (quello del Governo) che, unendosi ad una legge elettorale come quella che è stata approvata alla Camera ed al proposito di irrobustire i poteri del Presidente del Consiglio e del Governo, si risolverebbe ( oltre tutto ) in una ulteriore e grave riduzione dei margini di democrazia, che subiscono da tempo una lenta ma progressiva erosione e che, invece, noi consideriamo intangibili, alla luce dei princìpi e dei valori costituzionali.
Non siamo, lo abbiamo già detto, per conservare l’esistente a tutti i costi. In un apposito documento indicheremo nei prossimi giorni le possibili alternative,utili per risolvere l’unico vero problema su cui concordiamo: quello di due Camere che fanno la stessa attività ( il bicameralismo “ perfetto “); un problema che può essere risolto in molti modi, scegliendo fra i tanti modelli esistenti, ma rispettando la linea costituzionale di valorizzazione, prima di tutto, del Parlamento, in quanto rappresentante diretto della volontà popolare.
Su questo tema, il Comitato nazionale ha deciso, sempre all’unanimità, di organizzare una importante manifestazione pubblica fra il 25 e il 30 aprile,in una sede che nei prossimi giorni sarà definita dalla Segreteria. Non mancheremo di invitare alla manifestazione, oltre ai nostri organismi periferici, tutte le associazioni che da sempre si battono per questa Costituzione. E speriamo davvero in una partecipazione diffusa e unitaria.
L’arroganza non ha limiti, in questo Paese. Ma quando ad essa si unisce anche la mancanza di una cultura politico-istituzionale ( ed anche questo non è raro ), il problema diventa serio Una riforma importante, come quella del Senato, non può essere fatta in fretta e con scadenze precise, perché ci sono le elezioni europee. Ed è davvero sorprendente che si emanino, al riguardo, dei veri e propri diktat, senza ascoltare nessun richiamo all’attenzione, alla ragionevolezza,all’esigenza di rispetto delle linee fondanti della Costituzione. Ancora più grave il fatto che due esponenti di rilievo del PD richiamino ( nientemeno ) il Presidente del Senato ad una disciplina di partito, ignorando che la seconda carica dello Stato deve rappresentare una garanzia ( anche di imparzialità ) per tutti. Ugualmente grave il fatto che si ironizzi sui “ professori” e se ne parli con sufficienza; posizioni come queste non evocano
soltanto la mancanza di cultura istituzionale, ma rappresentano tout court un deficit culturale, particolarmente evidente in un Paese che dovrebbe essere la patria della cultura, dell’arte, dei saperi.
11 aprile 2014: L’Agnese va a morire
Venerdì 11 aprile alle ore 20.45 in sala conferenze di Villa Errera a Mirano, ci sarà la proiezione del film “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo libro di Renata Viganò. L’autrice con il marito, Antonio Meluschi, e il figlio, partecipò alla lotta partigiana (“la cosa più importante nelle azioni della mia vita”, com’ebbe a dire) nelle valli di Comacchio e in Romagna, facendo, sino alla Liberazione, di volta in volta l’infermiera, la staffetta garibaldina e la collaboratrice della stampa clandestina. Da queste sue esperienze pubblicò nel 1949, da Einaudi, “L’Agnese va a morire” da cui nel 1976 Giuliano Montaldo ne trasse il film che proiettiamo venerdì sera.
È appena passato l’8 settembre e Agnese, donna grassa e quasi anziana, a seguito di una retata dei tedeschi, si trova senza il marito, portato via dai soldati (che si scoprirà ucciso). Inizia così a maturare nella donna un odio, profondo, viscerale, verso i tedeschi oppressori e i fascisti loro leccapiedi. Ma Agnese è una signora introversa, semplice, una lavandaia che del mondo non sa nulla, attaccata al ricordo del marito che spesso gli appare in sogno. Palita, il marito appunto, è il volto riconoscibile della coscienza di Agnese; rappresenta un desiderio di rassicurazione che contrasta con la glacialità apparente della moglie. Nei sogni, nell’interpretazione ingenua che ne dà Agnese, infatti, ritroviamo la sua semplicità. Eppure la vendetta ha la capacità di smuovere ogni cosa. E Agnese si lascia spingere da un senso muto di rivalsa, senza motivazioni ideologiche, e decide di aiutare i partigiani, compagni di suo marito, cominciando a fare la staffetta tra una campagna e un’altra. Contribuisce, nel suo piccolo, con un’aria asservita che raramente perderà, a vendicare il sopruso subito. Poi, in pagine dense e abbacinanti, la svolta, la rivoluzione interiore. Dopo l’uccisione insensata della sua gatta nera da parte di un tedesco ubriaco, fredda, carica di odio, Agnese, senza pensarci troppo, con rigido e disorientante distacco, uccide il tedesco che le aveva mitragliato la gatta. Scappa dal paese, mentre dietro di lei la casa si infiamma al fuoco appiccato dai tedeschi. La fuga quindi, l’unione con i partigiani, la barca sotto una luna di manzoniana memoria…. Poi la monotonia dell’attesa in un campo nascosto tra le canne; l’estate con i suoi disagi e con le sue contraddittorie seduzioni. Ma la guerra, nonostante brevi parentesi di quiete, non è solo ozio. E presto si ritorna all’azione. Arriva l’inverno, quello freddo del ’45, l’inazione forzata e i tentativi anche tragici di organizzarsi per l’attacco finale. Agnese piano piano lascia spazio al racconto degli uomini, dei partigiani, delle loro difficoltà, del loro modo di resistere, spesso senza riuscirvi, alla morte. Solo verso la fine del romanzo la sua figura ritorna prepotente, drammatica, e si legge, come ci annuncia già il titolo del romanzo, della sua morte.
Villa Opicina: 70° anniversario dell’uccisione di 71 ostaggi
Domenica 6 aprile 2014 alle ore 15 al poligono di tiro di Opicina ci sarà la Commemorazione nel 70° anniversario dell’uccisione dei 71 ostaggi. Parleranno Tit Turnšek, presidente della ZB per i valori della Lotta di Liberazione della Slovenia e lo scrittore Veit Heinichen. Partecipa il Coro partigiano triestino P. Tomažič. (ANPI-VZPI, ANED, ANPPIA provinciale di Trieste)
Il 3 aprile 1944 venivano uccise 71 persone (tra cui militanti antifascisti, partigiani italiani, sloveni, croati, rastrellati a Trieste e in altri centri della regione), presso il poligono di tiro di Opicina, vicino a Trieste, in seguito alla rappresaglia ordinata per un attentato avvenuto in un un cinema che causò la morte di 7 soldati tedeschi. Questi 71 cadaveri furono i primi ad essere bruciati nel forno crematorio della risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio esistente in Italia. Le testimonianze della gente del posto e dell’unico superstite della rappresaglia, il giovane partigiano Stevo Rodic, hanno permesso che venisse ricostruita questa ennesima strage in territorio triestino. Il Monumento dedicato a queste vittime del nazifascismo è in stato di abbandono, relegato in una via laterale, con scarne indicazioni, circondato da un centro di raccolta rifiuti e un poligono di tiro ancora funzionante in cui il 15 dicembre 1941 sono stati fucilati cinque antifascisti sloveni, Viktor Bobek, Ivan Ivancic, Simon Kos, Pinko Tomazic e Ivan Vadnal. Questo è un luogo simbolo della resistenza a Trieste e dovremo tutti domandarci perchè, a otto chilometri da qui, c’è un altro monumento ben curato e pubblicizzato diventato monumento nazionale. Due monumenti che non hanno lo stesso peso e non hanno lo stesso valore. Due monumenti che fanno capire la differenza tra strumentalizzazione della storia e verità storica.