Razza partigiana

Il 4 maggio 1945 viene ucciso a Stramentizzo in Val di Fiemme Giorgio Marincola, medaglia d’oro al valor militare (è il terzo da destra nella foto): questa è la sua storia.

Giorgio Marincola: pelle nera, razza partigiana
di Tonino Bucci, «Liberazione», 2010/10/24

Questa è una storia anomala. La storia di un partigiano che finisce ammazzato a guerra finita nell’ultima strage fatta dalle Ss in territorio italiano. Il 4 maggio, nella Val di Fiemme, tra le Dolomiti, i tedeschi in ritirata uccidono trentasei persone. Sono passati cinque giorni da quando il cadavere di Mussolini è stato appeso per i piedi a Piazzale Loreto. Il Cln di Cavalese, lo stesso pomeriggio della strage, manda sul posto un avvocato per redigere un elenco delle vittime. Tra i cadaveri, c’è pure un ragazzo di colore. Leggi tutto “Razza partigiana”

IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO – UN UOMO UN PARTIGIANO Fotografie di Danilo De Marco

“Ho raccolto in questi anni i volti dei partigiani italiani, “francesi” (armeni, ebrei, polacchi, tedeschi), greci, austriaci …: i loro volti oggi, segnati dal tempo; volti a mio avviso che ci riguardano e ci concernono. Leggi tutto “IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO – UN UOMO UN PARTIGIANO Fotografie di Danilo De Marco”

IL “LORO” 25 APRILE (di Furio Colombo da “Il Fatto” del 24/04/12)

Da ieri nelle strade e nelle piazze della Capitale italiana, si vedono grandi manifesti che celebrano la repubblica di Salò. Avete capito bene. Celebrano la repubblica di Salò sotto la data del 25 aprile.

La scritta è stampata in alto sopra la foto di un reparto di brigate nere passate in rivista dall’ultimo segretario del partito fascista, Pavolini. Non confondete. Non erano soldati per combattere.

Erano soldati da rastrellamento. Leggi tutto “IL “LORO” 25 APRILE (di Furio Colombo da “Il Fatto” del 24/04/12)”

Neofascisti contestano un partigiano

Dopo aver visto “Nazirock” ci chiedevamo quando sarebbe successa la prossima aggressione fascista: è successo ieri mattina al Liceo Avogadro di Roma, durante un dibattito in cui è intervenuto il partigiano Mario Bottazzi invitato dagli studenti dell’Avogadro a parlare della Resistenza in vista dell’imminente 25 aprile. Leggi tutto “Neofascisti contestano un partigiano”

Noi veneti indifferenti alle vittime di ieri e di oggi

ECCO COME FERDINANDO CAMON HA PRESENTATO  “Nessun giusto per Eva”:

Noi veneti indifferenti alle vittime di ieri e di oggi

Dal libro di Francesco Selmin «Nessun giusto per Eva» una riflessione Gli euro-cristiani non riconoscono gli altri come uguali a loro
di FERDINANDO CAMON
del 10 dic.2011

Noi veneti sappiamo poco, quasi niente della nostra storia. Anche di quella recente e grandiosa: per esempio, cos’è capitato nella seconda guerra mondiale, a Padova Este Castelbaldo Legnago Verona Rovigo Vicenza, cos’han fatto i fascisti, cos’han fatto i nazisti, come si sono comportati i nostri padri. Credevamo che le vittime dei nazi-fascisti, sui Colli Euganei, fossero una trentina. Poi uno storico di Este, un grande storico, dal metodo rigoroso e tenace, Francesco Selmin, si è messo a svolgere lunghe ricerche, e dopo due mesi è arrivato a contare una cinquantina di vittime, dopo altri due mesi ottanta, e infine ha superato il centinaio.
Ora questo stesso storico riesuma un argomento già scavato ma mai con tanta ricchezza di dettagli: la Shoah di Padova città e provincia. Cos’è successo agli ebrei padovani, dopo la decisione tedesca di procedere alla soluzione finale, e dopo la decisione italiana di accodarsi al turpe alleato nazista, e attuare le leggi razziali? Il libro di Selmin, che sarà in libreria da oggi, stampato a Verona dalla Cierre, s’intitola “Nessun giusto per Eva”, isolando tra le vittime la ragazzina Eva Ducci, con tanto di foto sulla copertina. Sì, il lamento è questo: non ci furono “giusti”, nel senso in cui usa Israele questo termine, onorando coloro che han fatto quel che han potuto per salvare gli ebrei.
Ma devo dire a Selmin che non mi sono lasciato prendere dalla corrente della sua narrazione che avanza ad estuario, diramandosi qua e là per accompagnare le vittime verso il loro ineluttabile destino (quasi tutte son finite ad Auschwitz-Birkenau, e lì han concluso la loro vita nel giro di pochi giorni o di pochissime ore), la mia angosciata attenzione era sempre per lo stesso problema, che non può non porsi alla nostra coscienza: noi, uomini di oggi, ci saremmo comportati diversamente? Avremmo capito? Avremmo avuto coscienza della non-differenza tra le vittime e noi, e l’assurdità di quella differenza che allora chiamavano razza?

I quasi cento ebrei, rastrellati a varie riprese a Padova e nel padovano, e prima riuniti nella villa Contarini Venier a Vo’, hanno avuto poca o nessuna comprensione da parte della popolazione che pure aveva spartito la vita con loro. L’immensa catastrofe si è svolta senza che le coscienze dei vicini ne vedessero l’ingiustificabilità.

Ho letto in passato, in un’altra fonte, che il parroco di Vo’, che ha prestato aiuto a queste vittime, alla loro domanda: “Ma cosa vogliono da noi?”, rispose con non stupida chiarezza: “Vogliono i vostri beni”. È una spiegazione marxiana: i beni, i soldi, gli ori, le case. Ma c’è anche una spiegazione freudiana. Col passar dei secoli gli ebrei venivan sentiti come irrimediabilmente “altri”, cioè nemici, e poiché si era in guerra, venivan trattati come nemici interni, perciò pericolosi, da eliminare. Chiamatela, se volete, spiegazione nicciana. Ma questo spiega il rapporto tedeschi-ebrei. E gli italiani? Noi cercavamo una terza posizione, che non c’era.
Gestito dai fascisti, il campo di concentramento di Vo’ non era un lager tedesco (com’era per esempio la Risiera di San Sabba a Trieste), non era un “mulino da ossa”, costruito per frantumare l’essere umano. Ma la ricerca di una terza posizione (per cui Vo’ ebbe anche un comandante “buono”), poiché lo spazio per una terza posizione non c’era, finisce per diventare collaborazionista, e cioè non evita il male, ma lo lascia accadere.

Sapevano, i nostri padri, il crimine che si compiva sotto i loro sguardi e con la loro, inerte o attiva, collaborazione? No, ma questo non li assolve. Allora come ora. Noi, euro-cristiani, non sappiamo riconoscere gli altri come uguali a noi. Né gli altri lontani (gli indigeni d’America, dopo Colombo), né gli altri colonizzati (che gasavamo o impiccavamo con crudele indifferenza), né gli altri in casa nostra, gli stranieri che arrivano ogni notte, morendo a decine.

Scambiamo la nostra superiorità tecnica ed economica per una superiorità umana. Gli altri sono diversi di pelle lingua costumi morale religione, e questa diversità noi la traduciamo in diversità di diritti. Non sono come noi, perciò non possono avere i nostri stessi diritti.
Dalla Shoah son passati settant’anni, tre generazioni. Adesso cominciamo a capire qualcosa. Se dell’indifferenza di oggi, verso i nuovi scarti della società, avremo coscienza fra altri settant’anni, vuol dire che il problema di capire vien demandato ai figli dei nostri figli. Appena nati. O ancora da nascere.
10 dicembre 2011

 

La Villa della Morte di Vo’

 

LA VILLA DELLA MORTE DI VO’
(dal Sole 24 ore di domenica 15 gennaio 2012)

Sessanta ebrei furono internati in un piccolo campo sui Colli Euganei. Tornarono
in tre. Francesco Selmin ne ricostruisce la storia

di Sergio Luzzatto

“Se l’Italia è caduta nella vergogna e nel disonore, se l’Italia conosce oggi il periodo più oscuro della sua
storia, ciò lo deve all’ebraismo, a quell’ebraismo che bisogna sterminare». «Dobbiamo pertanto liberarci una volta per sempre, senza sentimentalismi e senza discriminazioni, di questa genia malvagia di parassiti, che di italiano non ha che la cittadinanza usurpata e del tradimento il marchio inconfondibile».

Così, l’8 ottobre 1943, un giornale collaborazionista di Padova – «Il Veneto» – aveva suonato a raccolta contro la «razza ebraica maledetta da Dio». L’armistizio dell’8 settembre era stato annunciato da un mese esatto, Mussolini era stato liberato dalla prigione del Gran Sasso, la Repub-blica di Salò era sorta sulle ceneri dell’odioso tradimento del 25 luglio: che cosa bisognava attendere ancora perché i maggiori responsabili della rovina, i perfidi giudei, venissero colpiti da una «vendetta terrib¬le e annientatrice?» Eppure le stesse autorità germaniche si erano limitate, fino a quel momento, a recepire i dati anagrafici e gli indirizzi dei 544 ebrei di Padova schedati già nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali.

Per gli impazienti collaborazionisti patavini della Soluzione finale, la prima buona notizia arrivò il 19 ottobre sotto forma di un treno piombato: erano i carri bestiame che trasportavano gli oltre mille ebrei di Roma razziati nel ghetto tre giorni prima, il 16 ottobre 1943, e che transitarono per la stazione ferroviaria di Padova verso una direzione ufficialmente sconosciuta, ma certamente ingrata ai passeggeri. La seconda buona notizia arrivò il 14 novembre, quando il congresso di Verona del Partito fascista repubblicano definì gli appartenenti alla «razza ebraica», fossero pure cittadini italiani, «stranieri» di «nazionalità nemica». A quel punto, anche giornali moderati come il veneziano «Gazzettino» poterono scatenarsi contro gli infami «discendenti di Giuda».
Ili 1° dicembre, le prefetture della Repubblica di Salò ricevettero dal ministero degli Interni l’ordine di deportare «tutti gli ebrei» in «appositi campi di concentramento». E per allestire tali campi disposero di adattare una varietà di luoghi più o meno conformi alla bisogna: caserme, scuole, colonie estive, ville di campagna. Su una ventina in totale, il campo maggiore fu quello di Fossoli (presso Carpi, in provincia di Modena) che già era servito al concentramento di prigionieri di guerra. Quanto agli ebrei di’Padova e del Padovano, vennero concentrati in un’antica villa dal nome aristocraticamente risonante – villa Contarini Venier – situata nel cuore di Vo’ Vecchio, un borgo al margine occidentale dei Colli Euganei.

Trascurato per decenni dalla storiografia universitaria e quasi obliterato dalla memoria collettiva, il campo di concentramento di Vo’ è stato “riscoperto” una ventina d’anni fa grazie alle’ricerche di un studioso locale, Francesco Selmin: che ne restituisce ora la vicenda in un piccolo libro intitolato Nessun «giusto” per Eva. Si tratta di una ricostruzione tanto asciutta quanto sensibile del destino occorso a qualche decina fra gli ebrei padovani investiti dalla Soluzione finale; una specie di breve microstoria, ma rivelatrice di una storia grande e terribile.

Il titolo del libro viene all’autore da una giovane ebrea italiana di origini ungheresi, Eva Ducci, che dopo 1’8 settembre cercò scampo con la famiglia a Firenze e che, in realtà, nel campo di Vo’ non fu internata affatto: ma Eva aveva condiviso con altri ebrei del Padovano gli studi classici al liceo-ginnasio Tito Livio, prima di esserne esclusa dalle leggi razziali. Soprattutto, Eva Ducci condivise con la sessantina di ebrei internati a Vo’ dal dicembre 1943 al luglio 1944 (padovani in maggioranza, ma non solo: anche torinesi, triestini, sloveni) il destino della deportazione in Polonia. Fra gli ospiti coatti di villa Contarini Venier, soltanto tre – tre donne – ritorneranno salvi da Auschwitz.

Il campo di concentramento di Vo’ era così piccolo che Selmin ha potuto scriverne qualcosa come una storia totale: identificando per nome e per cognome non soltanto tutti i detenuti, ma anche la maggior
parte dei (pochi) carcerieri.
Selmin ha potuto inoltre ritrovare le tracce di alcune fra le suore elisabettine che prima dell’8 settembre avevano preso in affitto la villa, e che servivano i pasti ai futuri deportati. Ha ritrovato il menù (per così dire) di quei magrissimi pasti. Ha ritrovato perfino il fabbro al quale le autorità di Salò chiesero di costruire le griglie che dovevano impedire ai reclusi di scambiare lettere o messaggi con l’esterno. E Selmin ha ritrovato la bella figura del parroco di Vo’ Vecchio, don Giuseppe Rasia, che generosamente volle assistere gli ebrei internati nella villa, e i cui appunti costituiscono la fonte principale per questa storia della Shoah in miniatura.

Ci sono scene del libro che si fissano nella memoria. Come quella di Anna Zevi, un’ebrea di Este poco più che trentenne e gravemente malata, che i130 gennaio 1944 fu autorizzata a uscire da villa Contarini Venier per raggiungere la chiesa parrocchiale e ricevere il battesimo cristiano. Il suo fu un sacramento diverso dal battesimo che tanti ebrei italiani si erano fatti amministrare, dopo le leggi razziali del 1938, per ragioni più o meno opportunistiche, cioè nella speranza di scampare in tal modo alla persecuzione: nel gennaio del ’44 Anna Zevi aveva ormai il destino segnato, l’acqua santa da lei ricevuta sul capo non sarebbe comunque valsa a tenerla lontano dal treno per Auschwitz.

Altra scena indimenticabile, quella di una bambina di sei anni – si chiamava Sara Gesses, ed era figlia di un ebreo di origini russe con negozio di valigie a Padova – che al momento della chiusura del campo di Vo’ cercò in tutti i modi di scampare a una sorte della quale, peraltro, doveva sfuggirle la portata. Dapprima, il 17 luglio 1944, Sara riuscì (forse con l’aiuto delle guardie italiane del campo) a non salire sui camion che trasferirono a Padova i reclusi di Vo’. E anche quando, l’indomani, una terrorizzata madre superiora delle suore elisabettine consegnò la bambina alle autorità tedesche del capoluogo, ancora Sara cercò di sfuggire al pullman destinato alla triestina Risiera di San Sabba, tappa intermedia del viaggio verso la Polonia.
Ma Sara, sei anni, non riuscì nell’intento. Finì per salirci anche lei,sul convoglio 33T, il suo treno per Auschwitz. Con tutti gli altri internati di Vo’, sbarcò sulla rampa di Birkenau nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1944. E come quasi tutti gli altri, fu immediatamente “selezionata” e mandata in gas.

Francesco Selmin, Nessun «giusto» p Eva. La Shoah a Padova e nei Padovano, Cierre edizioni, Sommacampagna (Verona), pagg. 162, € 12,50

 

Vai alla presentazione di Ferdinando Camon: http://anpimirano.it/2012/noi-veneti-indifferenti-alle-vittime-di-ieri-e-di-oggi/

In ricordo del Partigiano Felice Montanari

Che peso hanno nella storia gesti come quello di Felice Montanari, giovane partigiano a soli sedici anni?

Oggi si vorrebbero commemorare anche quelli che dell’Italia fecero scempio tanti anni orsono e dimenticarsi dei giovani come Felice Montanari, che senza nulla pretendere per se stessi, hanno tracciato la strada della libertà per questo Paese. E non c’è nulla di più ingannevole, perchè per quanto si voglia confondere e millantare la storia, la vicenda di Felice Montanari è quanto di più autentico e veritiero nel rimarcare la differenza tra chi combatté da partigiano nella Resistenza e chi fu fascista fino in fondo.

Se è vero che là dove è morto un partigiano è nata la Costituzione, allora sono davvero tanti i luoghi che riconducono ad Essa e quale sia stato il prezzo per avere una carta come quella del nuovo Stato risorto dal Fascismo.

Felice Montanari era nativo di Canneto sull’Oglio in provincia di Mantova, faceva il garzone in una bottega di barbiere. Diventò partigiano molto presto, a sedici anni, come tanti giovani del tempo. Un gesto d’istinto, di ribellione, una scelta chiara. All’alba del 5 gennaio 1945, isolato dal resto della squadra, “Nero” trovò rifugio nel casello ferroviario numero 23 della linea tra Boretto e Poviglio, aveva con sé un sottufficiale tedesco preso prigioniero.

Tedeschi e fascisti lo individuarono e circondarono il casello. Resistette per ore, sparando da più finestre per far credere di non essere solo. Poi, tentando un ultimo assalto, i nazifascisti presero dei civili e li usarono come scudi umani, Nero a questo punto, a corto di munizioni e per non sparare su quegli innocenti, prima liberò il suo prigioniero e poi si sparò. Sul muro del casello scrisse: “Perduto. Portate un fiore rosso”.

Alessandro Fontanesi  –  “Il Fatto Quotidiano”  5 gennaio 2012

L’arte della guerra Demolizioni & Restauri Corp.

L’arte della guerra

Demolizioni & Restauri Corp.

Manlio Dinucci

C’è una società multinazionale che, nonostante la crisi, lavora a più non posso. Si occupa di demolizioni e restauri. Non di edifici, ma di interi stati. La casa madre è a Washington, dove nella White House risiede il Chief executive officer (Ceo), l’amministrazione delegato. I principali quartieri generali re-gionali si trovano a Parigi e Londra, sotto rampanti direttori e avidi comitati d’affari, ma la multinazionale ha filiali in tutti i continenti. Gli stati da demolire sono quelli situati nelle aree ricche di petrolio o con una importante posizione geostrategi-ca, ma che sono del tutto o in parte fuori del controllo della multinazionale. Si privilegiano, nella lista delle demolizioni, gli stati che non hanno una forza militare tale da mettere in pericolo, con una rappresaglia, quella dei demolitori. L’operazione inizia infilando dei cunei nelle crepe interne, che ogni stato ha. Nella Federazione Iugoslava, negli anni ’90, vennero fomentate le tendenze secessioniste, sostenendo e armando i settori etnici e politici che si opponevano al go-verno di Belgrado. In Libia, oggi, si sostengono e si armano i settori tribali ostili al governo di Tripoli. Tale operazione viene attuata facendo leva su nuovi gruppi dirigenti, spesso formati da politici passati all’opposizione per accaparrarsi dollari e posti di potere. Si chiede quindi l’autorizzazione dell’ufficio competente, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, motivando l’intervento con la necessità di sfrattare il dittatore che occupa i piani alti (ieri Milosevic, oggi Gheddafi). Basta il timbro con scritto «si autorizzano tutte le misure necessarie» ma, se non viene dato (come nel caso della Iugoslavia), si procede lo stesso. La squadra dei demolitori, già approntata, entra in azione con un massiccio attacco aeronavale e operazioni terrestri all’interno del paese, attorno a cui è stato fatto il vuoto con un ferreo embargo. Intanto l’ufficio pubblicitario della multinazionale conduce una martellante campagna mediatica per presentare la guerra come necessaria per difen-dere i civili, minacciati di sterminio dal feroce dittatore. Completata la demolizione, si procede alla costruzione di un nuovo stato (come in Iraq e Afghanistan) o di un insieme di staterelli (come nella ex Iugoslavia) in mano ad amministratori fidati. L’altro importante settore della multinazionale è quello del restauro di stati pericolanti. Come l’Egitto e la Tunisia, lo Yemen e il Bahrain, le cui fondamenta sono state scosse dal movimento popolare che ha defenestrato o messo in difficoltà i regimi garanti degli interessi delle potenze occidentali. Secondo la direttiva del Ceo di assicurare una ordinata e pacifica transizione, il restauro viene effettuato consolidando anzitutto il pilastro su cui già poggiava il potere – la struttura portante delle forze armate – ridipingendolo con i colori arcobaleno della democrazia. Si restaurano così gli stati colpiti dal terremoto sociale, su cui la multinazionale fonda la sua influenza in Nordafrica e Medio Oriente, e allo stesso tempo, provocando una scossa artificiale, se ne demolisce uno relativamente indipendente. Già alla casa madre brindano allo scongiurato pericolo della rivoluzione araba. Ma in pro-fondità, nelle società arabe, crescono le tensioni che preparano un nuovo sisma sotto le fondamenta del palazzo imperiale.

(il manifesto, 30 agosto 2011)

Una «vittoria» timbrata dagli aerei Nato

Una «vittoria» timbrata dagli aerei Nato

Manlio Dinucci

Una foto pubblicata dal New York Times racconta, più di
tante parole, ciò che sta avvenendo in Libia: mostra il corpo
carbonizzato di un soldato dell’esercito governativo, accanto
ai resti di un veicolo bruciato, con attorno tre giovani ribelli
che lo guardano incuriositi. Sono loro a testimoniare che il
soldato è stato ucciso da un raid Nato.
In meno di cinque mesi, documenta il Comando congiunto
alleato di Napoli, la Nato ha effettuato oltre 20mila raid aerei,
di cui circa 8mila di attacco con bombe e missili. Questa
azione, dichiarano al New York Times alti funzionari Usa
e Nato, è stata decisiva per stringere il cerchio attorno a
Tripoli. Senza questa «pressione» quotidiana su obiettivi
fissi, forze in movimento, colonne di automezzi di incerta
identificazione, i «bengasiani» non sarebbero mai arrivati in
Tripolitania.
Gli attacchi sono divenuti sempre più precisi, distruggendo
le infrastrutture libiche e impedendo così al comando
di Tripoli di controllare e rifornire le proprie forze. Ai
cacciabombardieri che sganciano bombe a guida laser da
una tonnellata, le cui testate penetranti a uranio impoverito e
tungsteno possono distruggere edifici rinforzati, si sono uniti
gli elicotteri da attacco, dotati dei più moderni armamenti.
Tra questi il missile a guida laser Hellfire, che viene lanciato
a 8 km dall’obiettivo, impiegato in Libia anche dagli aerei
telecomandati Usa Predator/Reaper.
Gli obiettivi vengono individuati non solo dagli aerei radar
Awacs, che decollano da Trapani, e dai Predator italiani che
decollano da Amendola (Foggia), volteggiando sulla Libia
ventiquattr’ore su ventiquattro. Essi vengono segnalati –
riferiscono al New York Times i funzionari Nato – anche
dai ribelli. Pur essendo «mal addestrati e organizzati», sono
in grado, «per mezzo delle tecnologie fornite da singoli
paesi Nato», di trasmettere importanti informazioni al «team

2

Nato in Italia che sceglie gli obiettivi da colpire». Per di
più, riferiscono i funzionari, «Gran Bretagna, Francia e altri
paesi hanno dispiegato forze speciali sul terreno in Libia».
Ufficialmente per addestrare e armare i ribelli, in realtà
soprattutto per compiti operativi.
Emerge così il quadro reale. Se i ribelli sono arrivati a
Tripoli, ciò è dovuto non alla loro capacità di combattimento,
ma al fatto che i cacciabombardieri, gli elicotteri e i Predator
della Nato spianano loro la strada, facendo terra bruciata.
Nel senso letterale della parola, come dimostra il corpo del
soldato libico carbonizzato dal raid Nato.
In altre parole, si è creata ad uso dei media l’immagine di
una «resistenza» con una forza tale da battere un esercito
professionale. Anche se ovviamente muoiono dei ribelli negli
scontri, non sono loro che stanno espugnando Tripoli.
E’ la Nato che, forte di una risoluzione del Consiglio
di sicurezza dell’Onu, sta demolendo uno stato con la
motivazione di difendere i civili. Evidentemente, da quando
un secolo fa le truppe italiane sbarcarono a Tripoli, ha fatto
grandi passi in avanti l’arte della guerra coloniale.

(il manifesto, 23 agosto 2011)

TRIPOLI – Decisivo anche il ruolo delle truppe del Qatar (articolo da “il Manifesto”)

TRIPOLI – Decisivo anche il ruolo delle truppe del Qatar

Ecco le forze Nato impegnate a terra

Manlio Dinucci

L’ambasciata del Qatar a Tripoli – mostra un video (http:/
/www.youtube.com/user/ZZ7L?ob=5#p/a/u/0/PybQX__fLWQ)

è stata riaperta tre giorni fa da uomini armati che, entrati
nell’edificio danneggiato, vi hanno subito affisso la
bandiera nazionale. Viene così documentata la presenza
in Libia di forze speciali qatariane. Forze speciali di Gran
Bretagna, Francia e Qatar, scrive The New York Times (23
agosto), stanno fornendo appoggio tattico alle forze ribelli e
consiglieri della Cia stanno aiutando il governo di Bengasi
a organizzarsi. Commandos britannici e francesi, conferma
un alto ufficiale della Nato, sono sul terreno con i ribelli a
Tripoli. E, alla domanda se vi sono anche agenti della Cia,
risponde che certamente è così.
Viene in tal modo sconfessata la Nato, che solo ieri è
stata costretta ad ammettere, di fronte all’evidenza e con
un «funzionario anonimo» citato dalla Cnn, che le forze
militari dell’alleanza combattono sul campo a Tripoli.
Perché finora aveva giurato di non avere «boots on the
ground», ossia militari sul terreno in Libia. Le forze speciali
britanniche – indicano le inchieste del Guardian e del
Telegraph – hanno svolto un ruolo chiave nell’attacco
a Tripoli. Esso è stato preparato a Bengasi dal servizio
segreto britannico MI6, che ha predisposto depositi di armi e
apparecchiature di comunicazione attorno alla capitale, nella
quale ha infiltrato propri agenti per guidare gli attacchi aerei.
L’offensiva è iniziata quando, sabato notte, Tornado Gr4
della Raf decollati dall’Italia hanno attaccato, con bombe di
precisione Paveway IV, un centro di telecomunicazioni e altri
obiettivi chiave nella capitale. Secondo un’inchiesta riportata
da France Soir, operano in Libia almeno 500 commandos
britannici, cui si aggiungono centinaia di francesi. Questi
ultimi vengono trasportati in Libia dagli elicotteri della Alat
(Aviation légère de l’armée de terre), imbarcati sulla nave da
assalto anfibio Tonnerre.
Importante anche il ruolo che svolge in Libia il Qatar, uno
dei più stretti alleati degli Usa: ha speso oltre un miliardo
di dollari per potenziare la base aerea Al-Udeid secondo
le esigenze del Pentagono, che se ne serve per la guerra
in Afghanistan e come postazione avanzata del Comando
centrale. Non stupisce quindi che Washington abbia dato a
questa monarchia del Golfo l’incarico di fiducia di infiltrare
in Libia commandos che, addestrati e diretti dal Pentagono, si
possono meglio camuffare da ribelli libici grazie alla lingua e
all’aspetto. Il Qatar ha anche il compito di rifornire i ribelli:
un suo aereo è stato recentemente visto a Misurata, dove

2

ha trasportato un grosso carico di armi. Da fonti attendibili
risulta che, insieme a quelle del Qatar, operino in Libia anche
forze speciali giordane e probabilmente anche di altri paesi
arabi. Va ricordato che negli Emirati arabi uniti sta nascendo
un esercito segreto che può essere impiegato anche in altri
paesi arabi del Medio Oriente e Nordafrica (v. il manifesto
del 18 maggio).
Mentre prosegue gli attacchi aerei per spianare la strada
ai ribelli, la Nato conduce sul terreno una guerra segreta
per assicurarsi che, nella Libia del dopo-Gheddafi, il potere
reale sia nelle mani delle potenze occidentali, affiancate dalle
monarchie del Golfo. In quel caso le forze speciali alzeranno
la bandiera del peacekeeping e indosseranno i caschi blu.

(il manifesto, 25 agosto 2011)