6 novembre 1943: inizio della deportazione degli ebrei fiorentini

Una lapide al cimitero ebraico di Firenze

Un’irruzione nei locali della comunità ebraica di via Farini segnò, settanta anni fa, il destino di molti ebrei fiorentini. Era l’alba del 6 novembre 1943 quando i nazisti-fascisti decisero di colpire la comunità ebraica, circa trecento persone catturate e ammassate nella stazione di Santa Maria Novella, destinate a non tornare. A catturarle erano state le SS tedesche ma anche i militi italiani della Repubblica di Salò. Tre giorni dopo, il 9 novembre, i vagoni piombati partirono meta il campo di sterminio di Auschwitz, dove gli ebrei giunsero il 14 novembre: 193 prigionieri furono immediatamente uccisi nelle camere a gas. Nell’elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884. La più giovane era Lia Vitale, nata nel 1942, la più anziana Fanny Tedesco ed aveva 93 anni.
Come altrove, gli esecutori della soluzione finale furono molti. Innanzitutto gli occupanti tedeschi in azione fin da subito. Poi il Reparto Servizi Speciali della 92° legione della GNR, meglio noto come la “Banda Carità”, che alla guerra contro la Resistenza organizzata affiancò un notevole impegno anche nella caccia agli ebrei, se pur meno conosciuto.
Ma il protagonista più significativo e caratteristico delle persecuzioni antiebraiche fiorentine fu senza dubbio l’Ufficio Affari Ebraici, un organo della prefettura repubblicana. Le persecuzioni antiebraiche ebbero notevole importanza nel territorio del capoluogo toscano e l’impegno delle istituzioni della RSI in questa direzione fu intenso e continuativo in quegli undici mesi di governo. Dalla fine di dicembre 1943, l’Ufficio affari ebraici ebbe sede al numero 26 della centralissima via Cavour. Oggi c’è il Consiglio regionale toscano, allora era una proprietà requisita all’avvocato ebreo Bettino Errera. Di quell’antico proprietario sopravvive una minuscola targa sul campanello del primo piano. L’Ufficio affari ebraici operò a Firenze su larga scala e con poteri assai ampi: si occupò di razzie patrimoniali ma anche di arresti, realizzando un efficace controllo capillare sul territorio. Seppe “lavorare” ai fini di un’efficace sinergia tanto con la “Banda Carità” quanto con la questura di Firenze, fino ad essere in grado di coordinare tutta l’attività persecutoria coniugando la violenza di carnefici senza scrupoli, incaricati della parte sporca del lavoro, torture comprese, e un gran lavorio burocratico, necessario alle diverse fasi della persecuzione. L’Ufficio redigeva liste di ebrei ricercati, verbali di confisca e di arresto. Gestiva inoltre una rete piccola ma micidiale di delatori per condurre proprie indagini sui latitanti e i loro beni.
Inoltre era l’Ufficio a tenere la contabilità dei beni incassati e i rapporti con le banche e con gli altri uffici interessati ai sequestri patrimoniali, non senza appropriazioni indebite di denaro e di beni. A capo dell’Ufficio affari ebraici era Giovanni Martelloni, un avventuriero trentottenne, volontario reduce dall’Albania, amico di Carità e di Manganiello, il capo della Provincia della RSI. Proprio attraverso l’antisemitismo Martelloni divenne una figura di spicco della RSI fiorentina, distinguendosi sia per le sue disquisizioni estremistiche che per le pratiche persecutorie. Nel dopoguerra ci fu un processo contro le malversazioni di Martelloni e della sua “banda” ma si concluse in un nulla di fatto: i principali imputati di arresti, malversazioni e violenze, furono tutti amnistiati. Finì amnistiato anche Martelloni, che essendo stato sempre latitante, riuscì a non fare neppure un giorno di galera.

Omaggio a Oreste Licori

Oreste Licori

Un ricordo di Oreste Licori  di Renzo Tonolo, vice presidente Anpi  sez. “Martiri di Mirano”:

Oreste Licori

Un giovane partigiano di 23 anni che ha affrontato la morte con grande coraggio e dignità, senza mai subire esitazione alcuna nei confronti della propria utopia.

Oreste Licori era un partigiano comunista,  venne fucilato dalle famigerate brigate nere il primo novembre del 1944

Lo ho ammirato!

Lo ammirai quando l’ho visto passare avanti a me, a testa alta e con passo deciso, in mezzo agli scherani, per andare verso l’esito violento della propria breve esistenza, con grande dignità.

Lo ammirai quando seppi che non ha voluto subire passivo la programmata cerimonia fascista della sua fucilazione: ha scelto lui il posto dove dovevano ucciderlo:  non avanti il muro ma qui, sulla strada.

Fu questo il suo ultimo atto di rifiuto alla sottomissione!

Lo ammirarono i suoi carnefici che espressero profondo rispetto per il coraggio con cui affrontò il plotone, urlando prima della fine la propria fede.

Renzo Tonolo

Le foto della commemorazione del 1 novembre 2013

Domani in aula a Palazzo Madama il DDL che riscrive la Costituzione

Il voto finale dell’aula di Palazzo Madama è in calendario per domani mattina. I senatori sono chiamati a dare il via libera – in seconda e ultima lettura – al disegno di legge costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme. Una proposta contro cui, il 12 ottobre scorso, sono scese in piazza a Roma migliaia di persone, contrarie a questa “scorciatoia” per cambiare in fretta e furia la nostra Carta fondamentale. Ora, per il Senato, è l’ultima possibilità. E se l’approvazione sembra scontata, non è ancora chiaro quali saranno i numeri: se il ddl non ottiene i due terzi del voto, la legge dovrà essere obbligatoriamente sottoposta a referendum popolare. È quello che auspicano i firmatari dell’appello che pubblichiamo qui di seguito.

Sig. Senatore, Sig.ra Senatrice, permetta anche ai semplici cittadini di dire la loro. La celebrazione di un referendum che consenta agli italiani di votare sulla deroga dell’art. 138 è possibile. Basta non partecipare alla votazione finale o dare un voto di astensione o votare contro il ddl di deroga dell’art. 138 su cui il Senato sta per pronunciarsi. Qualunque idea lei abbia delle riforme costituzionali, sarebbe un gesto coerente con la più volte proclamata volontà di rendere sempre obbligatorio il ricorso al referendum sulla revisione della Costituzione. In presenza di una legge elettorale su cui, peraltro, gravano forti sospetti di incostituzionalità e che distorce pesantemente la rappresentatività del voto degli italiani, sarebbe un atto di fedeltà allo spirito e alla sostanza della Carta costituzionale. Infatti, come risulta chiaramente dal dibattito all’Assemblea costituente, il quorum dei 2/3 necessario per evitare il referendum era stato pensato per un sistema elettorale di tipo proporzionale. Né si può in nome della stabilità del governo tenere fede a un “crono-programma” che impedisca ai cittadini di pronunciarsi sulla modifica di una norma importantissima della nostra Costituzione. Per questo Le chiediamo di raccogliere il nostro appello e di rendere possibile il referendum sulla revisione dell’articolo 138.

Luigi Ciotti, Paolo Maddalena, Alessandro Pace, Gianni Ferrara, Claudio De Fiores, Alberto Lucarelli, Raniero La Valle, Massimo Villone, Antonello Falomi, Cesare Salvi, Raffaele D’Agata, Antonio Ingroia, Beppe Giulietti, Franco La Torre, Tiziana Silvestri, Giulia Rodano, Roberto Giulioli

da “Il Fatto” del 22/10/13

Uomini. E il caporale Stork. (di Franco Giustolisi)

Bruno Bertoldi

I vecchi ergastolani di porto Longone, poi porto Azzurro, il carcere di massima sicurezza dell’isola d’Elba, nel secolo scorso, a chi chiedeva quanto tempo ancora avevano da trascorrere dietro le sbarre rispondevano «oggi, domani e sempre». Per gli ergastolani nazisti la battuta va, invece, rovesciata: «né oggi, né domani e né mai». Ieri mattina è arrivata un’altra sentenza: al carcere a vita è stato condannato Alfred Stork, 90 anni, ex caporale della terza Compagnia del 54° battaglione Cacciatori delle Apli (Gebirgs-Jager). Fu uno degli esecutori dell’orrendo massacro di Cefalonia. Cinque-seimila militari della divisione Acqui trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca. «Traditori, traditori» urlavano mentre facevano partire le raffiche mortali. «Il peggior delitto di tutte le guerre moderne», disse a Norimberga il pubblico accusatore generale Tajlor. Con la condanna di Stork, siamo arrivati ormai a 32 ergastolani di qualità fuori dal comune: la pena gli è stata inflitta, ma loro sono liberi e tranquilli nei loro paesi. La Germania si è liberata dal nazismo o, meglio, è stata liberata dal nazismo, ma protegge i «figli», anche se degeneri. L’Italia su Cefalonia tace. Sembra che istituzioni, governi, associazioni abbiano da nascondere qualcosa. Di sicuro avrebbero preferito che l’«Armadio della vergogna» non fosse stato mai aperto.
Al processo che si è concluso ieri hanno testimoniato alcuni reduci da Cefalonia, gente con un’età da 90 in poi. Ecco, qui di seguito, qualcuno dei loro ricordi.
Bruno Bertoldi, 94 anni, «compiuti» precisa, sergente maggiore del reparto autieri della divisione Acqui, comandata dal generale Gandini, decorato a suo tempo da Hitler con la massima onoreficenza tedesca, che gettò in terra e calpestò prima di essere fucilato. «A Cefalonia fu un massacro, presero la gente e la ammazzavano così, con le mani alzate…». «No, in quei tempi non si poteva parlare con i superiori, allora le nostre parole erano Signorsì, Signorno…». «Arrivò una squadra di Stukas sopra di njoi, erano una trentina…». L’Italia del re e di Badoglio era fuggita e gli Inglesi non intervennero in aiuto della divisione Acqui che Mussolini aveva mandato in guerra senza artiglieria contraerea. “…arrivarono le prime pattuglie tedesche, furono falciati tutti quanti, tutti ammazzati, fucilati… Al capitano Pampaloni (Amos Pampaloni, un grande, non dimenticherà mai i suoi compagni, n.d.r.) spararono alla testa, ma la pallottola uscì senza fargli gran danno, rimase sotto i corpi dei compagni morti… Poi i greci lo aiutarono e lui combattè contro i nazisti. …ero anch’io sulla portaerei Garibaldi quando il presidente Ciampi venne a Cefalonia e chiese a Pampaloni cosa pensava di quel che era accaduto. E lui, ricordo, rispose «mi sento ancora perseguitato». «…come prendevano i prigionieri li fucilavano… avevano massacrato un battaglione del 317°, poi, a Troyanata fucilarono seicento soldati e li gettarono in un pozzo, togliendogli tutto quel che di valore avevano indosso… Erano gli uomini del maggiore Klebe che avevamo battezzato ‘il macellaio’». «Mi presero, erano in tre, il capo squadra mi guardò, era di Bolzano, aveva fatto con me la scuola di sottufficiali, mi dette due calci aggiungendo “porco italiano” e, poi, sottovoce “scappa, scappa”, mentre gli altri due urlavano al compagno “sparagli, sparagli”. Al generale Gherzi gli sfilarono gli stivaloni, dopo averlo ucciso. Un greco mi aiutò, dandomi i suoi vestiti, ma riuscirono a catturarmi. Poi seppi che i carabinieri erano andati dai miei genitori perchè firmassero l’atto di morte, in modo da prendere la pensione di guerra, ma mia madre si oppose sempre sperando che tornassi a casa. Infatti ci tornai due anni dopo, alla fine del ’45». Mario Piscopo, 94 anni, già sottotenente. «Ho assistito all’uccisione dei prigionieri, venivano passati per le armi via via che venivano catturati. Cito un piccolo grande episodio. Ritrovai tra le vittime il mio compagno di plotone, il sottotenente Giuseppe Quattrone… Era stato colpito alla nuca: evidentemente, non appena si era arreso gli avevano sparato… Un’esecuzione vera e propria… Ci portarono su una carretta, passammo davanti alla “Casetta Rossa (lì fu sterminata la maggioranza degli ufficiali, n.d.r.), vidi una cinquantina di corpi. Ed era appena l’inizio. L’ex sottotenente racconta del silenzio che circondò, e circonda, questa vicenda. Si incontrò con Simon Wiesenthal: ci disse, “attivatevi”. Ma che potevamo fare? Mica eravamo in Israele, eravamo in Italia, abbiamo fatto il possibile, monumenti ai nostri caduti, ma la televisione ha sempre poco curato i nostri interventi pubblici… Mi sentii dire “Ma che cosa possiamo fare, ormai siamo alleati della Germania”».
Il teste dà notizia di una lettera inviata il 12 maggio 2004 al presidente della Commissione parlamentare sulle cause dell’occultamento delle stragi nazifasciste: «Chiedo che venga accertata – è scritto – la responsabilità di coloro che nascosero quei fascicoli, consentendo l’impunità ai responsabili di esecuzioni di massa da parte di militari tedeschi che premeditatamente uccisero militari inermi». Come si sa, questa risposta, e sono passati quasi 70 anni dai fatti, nessuno l’ha ancora data.
Giuseppe Benincasa, 91 anni, musicante della banda della divisione Acqui. Esordisce il pubblico ministero militare, Marco De Paolis: «Signor Benincasa, allora…». «Non sento, sono sordo, mi posso avvicinare?» Interviene il presidente Antonio Lepore: «Rimanga pure lì, sarà il pm ad avvicinarsi a lei». «Veramente io non ho mai sparato, mi è sempre piaciuta solo la musica e le donne. Suonavo la tromba; ero la prima tromba solista… Abbiamo fatto una specie di referendum, come alle elezioni. Abbiamo votato sì e no e la maggioranza ha votato che dovevamo combattere… Allora mi hanno dato un fucile mitragliatore, ma io ci dissi che non so sparare. Allora mi dettero uno zaino pieno di bombe a mano che dovevo portare in prima linea. Però mi hanno preso e ci levavano tutto, portafogli, anelli. Mi presero pure una piastrina indorata con la Madonna, agganciata conilo filo di ferro… In quella zona quattrocento sono stati fucilati, fra i quali pure gente della Croce Rossa, con la fascia della Croce Rossa, fucilati pure loro. Poi sono riuscito a darmela a gambe, i greci mi hanno aiutato, sono diventato greco, mi hanno fatto la fotografia, sono andato al Comune, il sindaco ci ha messo il bollo e mi hanno dato il nome di Jorgo Jannapulo. Mi hanno portato da Jannapulo padre e gli hanno detto: “questo è tuo figlio”. Però lui ha risposto, “va bene che è mio figlio però non gli posso dare da mangiare perchè non ce l’ho neanche per me».
Arriva la sentenza, ovviamente in contumacia e probabilmente Stork non ne subirà le conseguenze, come i suoi 31 compatrioti. Lui ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, che gli dispiace aver dovuto sparare agli uffuciali italiani, ma poi si è saputo che i componenti dei plotoni di esecuzione erano volontari. Assai più netto fu il sottotenente Otmar Muhlauser, che comandò uno dei plotoni: «Era giusto che si fosse fatto così perchè gli italiani erano dei traditori». Della sua esistenza in vita si seppe nel 2002, ma il procuratore di allora, Antonio Intelisano, poi promosso Procuratore generale, attese che tirasse le cuoia, nel 2009, proprio duurante l’udienza preliminare. Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e parte civile, inviò insieme a chi scrive questo articolo una lettera aperta al Capo dello Stato, pubblicata proprio sul manifesto. Ma non ci fu alcuna risposta. (di Franco Giustolisi da “Il Manifesto”)

Cefalonia, ergastolo per Alfred Stork l’ex nazista che sparò agli ufficiali italiani

Ergastolo per Alfred Stork, l’ex nazista novantenne che a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943. La condanna è del Tribunale militare di Roma, seconda sezione presieduta da Antonio Lepore, dove si è concluso il processo all’ex caporale che vive in Germania a Kippenheim.

«COMODAMENTE A CASA» – L’ex caporale maggiore Stork «non ha avuto il coraggio di mantenere ferma la sua ammissione di colpa, restando comodamente nella sua casa in Germania», aveva detto il procuratore militare Marco De Paolis, che aveva poi elencato le numerose testimonianze che hanno indicato Stork come uno di quelli «che fucilò l’intero stato maggiore della Acqui», nel settembre 1943. La sentenza del Tribunale militare è la prima sentenza emessa in Italia sulla strage di Cefalonia, finora infatti i precedenti giudizi si erano conclusi in archiviazioni o per morte dell’imputato come nel caso del Maresciallo Otmar Muhlhauser.

L’AMMISSIONE – Alfred Stork ex caporale dei Cacciatori di montagna (Gebirsgjager), ascoltato otto anni fa dai magistrati tedeschi, aveva comunque ammesso di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione attivi nei pressi della cosiddetta Casetta Rossa, il 24 settembre. «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori», disse. Alla Casetta Rossa gli ufficiali giustiziati furono 129 (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da parte di due plotoni.

73 UFFICIALI – Quello di Stork, sparò dall’alba al pomeriggio lasciando sul terreno 73 ufficiali, come afferma lo stesso imputato. In quella testimonianza resa in Germania Stork aveva anche aggiunto particolari agghiaccianti: «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l’altro… prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini».

CORPI ANCORA INSANGUINATI – Dure le parole di Marcella De Negri, figlia del caduto Francesco, parte civile nel processo: «Questo frugare nei corpi ancora sanguinanti, nelle tasche di divise dalla giacca slacciata (a cui erano stati tolti i bottoni che avrebbero potuto deviare i colpi dei fucili) per portar via gli oggetti di valore e tenere fra le mani quelle fotografie di bambini, “belli”, e donne che mai più avrebbero rivisto i loro cari massacrati, mi ha convinto alla costituzione di parte civile».

PRIMA SENTENZA STORICA – Soddisfazione per l’avvocato dello stato Luca Ventrelli: «E’ andata come doveva andare, questa è la prima sentenza su Cefalonia di qualsiasi tribunale». Il procuratore De Polis aggiunge: «E’ di fatto, dopo Norimberga, la prima in Europa su Cefalonia». De Paolis ha altri fascicoli su cui sta lavorando e riguardano le stragi naziste in Grecia, a Kos e a Leros, ma anche in Albania. Un fascicolo è aperto anche su ex militari italiani, riguarda la strage di Domenikon, un villaggio della Grecia interna.  (da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Costituzione, Rodotà: “Ecco perché dobbiamo continuare a batterci”

Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.

Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?

Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.

Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?

Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.

Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.

L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest’accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.

Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.

Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
(intervista a Stefano Rodotà di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2013)

Moretto, l’ebreo ribelle

Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006. (di Maurizio Molinari “La Stampa”)

Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma

Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Si è gettato dal balcone di casa, al terzo piano di via dei Gracchi intorno alle 15. Aveva 91 anni. In questo brano il regista racconta la sua adesione al Partito Comunista e alla Resistenza nella Roma occupata del 1943. Il testo è tratto da “Guida alla Roma ribelle”.

Era il 7 novembre del 1943. Roma stata appena occupata dai tedeschi, eravamo dopo l’8 settembre. Io e altri due compagni, Renato Mordenti e Marcello Bollero, avevamo deciso con altri gruppi di antifascisti di fare delle scritte per inneggiare all’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, che cadeva appunto in quel giorno. La lotta armata ancora non era nata a Roma. C’erano le prime formazioni dei Gap ma non erano attive. Ci dividemmo per quartieri. A noi tre toccò la zona del centro. Decidemmo di scrivere, a vernice rossa, oltre che “Viva il 7 novembre” anche “Viva Rosa Luxemburg” e “Viva Karl Liebknecht”. Era una mia idea, pensavo che quelli che avevano occupato Roma erano soldati tedeschi, che il nazismo c’era da appena dieci anni, dal 1933, e che magari quei nomi gli avrebbero ricordato i comunisti tedeschi e la tentata rivoluzione nel loro paese. Erano due nomi piuttosto complicati e soprattutto un po’ lunghi da scrivere. A Roma cominciava il coprifuoco e la luce era sempre più scarsa anche perché si faceva economia sull’energia elettrica. Facemmo parecchie scritte, risalendo fino a via Nazionale, più o meno all’altezza di via delle Quattro Fontane. Lì una pattuglia tedesca ci fermò e vide le nostre mani sporche di rosso. Si accorsero anche dei pennelli. Non sapevamo ancora delle deportazioni, ma sapevamo di rischiare di essere arrestati e torturati, e la nostra paura più grande era di non riuscire a resistere e coinvolgere altri compagni. Col coraggio della disperazione facemmo un gesto assurdo: avevamo tre mitra puntati sul petto – ricordo ancora la sensazione del metallo appoggiato qui, subito sotto la gola – e a mani nude li alzammo con forza, quasi sbattendoli in faccia ai tedeschi. Loro rimasero allibiti e guadagnammo quei pochi secondi che ci permisero di scappare correndo in quattro direzioni diverse. Ci spararono ad altezza d’uomo, tanto che giorni dopo andai a curiosare e vidi le scalfitture delle pallottole lungo il percorso fatto. Ma ce la cavammo. Il segno di Roma ribelle restò a lungo: le scritte vennero cancellate ma continuarono a vedersi anche dopo, come i graffi delle pallottole sui muri. Quella sera per prudenza nessuno tornò alle proprie case. Il giorno dopo seppi che neanche i miei due amici erano stati catturati.
Ero responsabile di un gruppo del mio quartiere, Prati, che comprendeva altri cinque-sei giovani. Abitavo su Lungotevere de’ Mellini, al numero 7. Il contatto con il Partito Comunista era avvenuto attraverso Giuseppe De Santis e Antonello Trombadori. Mi fissarono un appuntamento a San Lorenzo, quartiere operaio, dunque speravo che questa volta non avrei incontrato uno studente come me o un intellettuale, ma finalmente un lavoratore. Avrei trovato una persona con “Il Messaggero” davanti agli occhi, seduta in un bar, questo era l’accordo per riconoscerlo. Quando abbassò il giornale, vidi un ragazzo come me, pure lui con gli occhiali: ecco un altro intellettuale!
Ci disse di reclutare altri militanti nella mia zona, per lanci di manifestini e azioni più politiche e di propaganda che propriamente armate. Proposi il mio appartamento per il supporto logistico: era al pianoterra, e in caso di perquisizioni o irruzioni di tedeschi o polizia si poteva fuggire dal retro. Questa sistemazione venne vista con favore: i dirigenti continuarono a chiedermi di tenere le riunioni a casa mia, insospettendo molto mio padre, soprattutto per il viavai di uomini più “anziani” di noi universitari. Un giorno, prima del 25 luglio e della caduta del fascismo, si presentò Giorgio Amendola, allora quasi quarantenne, e dovetti dire a mio padre che si trattava di un produttore cinematografico che stava leggendo un soggetto che gli avevo sottoposto. In seguito venne anche Luigi Longo, che doveva dare disposizioni in vista dell’armistizio. Prima della battaglia di Porta San Paolo si presentarono diverse persone a casa mia, tra questi Vasco Pratolini, per chiedermi “le armi”. Gli dissi che non c’erano armi in casa, era la verità, e in seguito abbandonai l’appartamento. Non bisogna dimenticare che in tutti i movimenti clandestini ci sono spie, doppiogiochisti, persone che non resistono alla tortura o che magari non vogliono mettere in pericolo i propri familiari.

La Costituzione in mano al compagno Amato

Mentre si dà la caccia al povero Berlusconi colpevole di un’evasione di circa 300 milioni di euro, un altro cittadino viene nominato giudice della Corte costituzionale. Ricordo che quando scoppiò tangentopoli, il compagno Amato, allora vice segretario del Psi, venne a Grosseto a presiedere una riunione dei quadri locali del partito. Ero fra questi e decisi di andare. Amato disse che il finanziamento anomalo ai partiti era una necessità comune dei partiti. La corruzione era giustificata dal costo della politica e comunque lui era all’oscuro di qualsiasi finanziamento. Gli domandai come potesse sostenere di ignorare da dove provenissero i soldi per il sostentamento del partito. Gli dissi che tutta la classe dirigente avrebbe dovuto dimettersi. Risultato fu che Craxi ricevette le monetine, mentre il buon Amato cominciò la sua carriera. L’Italia non si è rinnovata affatto, se un pregiudicato come Berlusconi può rimanere alla guida di un partito di governo e un fedele compagno di un altro pregiudicato diverrà custode di quella Costituzione per la quale io da giovane ho lottato e sperato.

Giorgio Padovani, Brigata Garibaldi (da “Il Fatto” del 14 settembre 2013)

I neofascisti italiani al soldo di Pinochet

L’operazione Condor.
Grazie sia alla decisione di Clinton di mettere fine nel novembre del 2000 al segreto di Stato sui documenti, soprattutto Cia e Fbi, riguardanti il Cile, che all’azione di alcuni magistrati argentini che stanno ancora indagando sull’assassinio del generale cileno Carlos Prats (fuggito in Argentina dopo essersi opposto al colpo di Stato di Pinochet) e di sua moglie, avvenuto a Buenos Aires il 30 settembre 1974, molti nuovi elementi stanno emergendo. In particolare sul ruolo svolto, negli anni ’70, da gruppi di neofascisti italiani arruolati come sicari e torturatori dalle peggiori dittature sudamericane. Per inquadrare meglio il contesto è indispensabile soffermarci sulla cosiddetta “operazione Condor”.

Terrore pianificato.
Con questo nome era definito il piano di repressione ed eliminazione fisica degli oppositori politici comunemente progettato dalle dittature latino-americane negli anni ’70 e ’80. Un’operazione su vasta scala, finanziata e protetta dagli Stati Uniti, su cui è stata ormai acquisita qualche tonnellata di documenti d’archivio. Le forze armate del cosiddetto “cono-sud” (Argentina, Brasile, Paraguay, Bolivia e Uruguay) organizzarono, infatti, nel quadro di accordi fra eserciti americani e servizi segreti militari, fin dai primi anni ’70, una gigantesca struttura di controllo continentale dei “sovversivi” di ogni paese per poi colpirli, con tutti i mezzi, spesso attraverso i cosiddetti “squadroni della morte” allestiti dalle stesse forze armate. Dopo il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 anche il Cile entrò a pieno titolo nel piano. Il generale Pinochet dette poteri assoluti al colonnello Manuel Contreras ai vertici della Dina, il servizio segreto cileno, appositamente modellato per “estirpare il cancro comunista”.
Nasce così l’”operazione Condor”, volta alla soppressione degli oppositori, dai militanti di sinistra ai sindacalisti, dai religiosi ai giornalisti e agli uomini di cultura. Il tutto nel quadro di una spaventosa repressione che conterà alla fine 50 mila assassinii, 35 mila persone scomparse, 40 mila prigionieri. Per alcune operazioni fuori dal Cile la Dina allestirà anche una sezione “estera” affidando, come vedremo, compiti esecutivi soprattutto a terroristi di estrema destra italiani.

Agli ordini dei militari.
Oggi è possibile, seppur parzialmente, ricostruire la storia di questa sezione riprendendo, da un lato, le carte di alcuni processi tenutisi anni fa a Roma per il tentato omicidio dell’esule cileno Bernardo Leighton e di sua moglie, avvenuto il 6 ottobre 1975, ma soprattutto leggendo alcuni recenti interrogatori svolti dal gip Guido Salvini, su delega (a seguito di rogatoria) di Maria Servini De Cubria, magistrato argentino che indagando sull’omicidio nel 1974 a Buenos Aires del generale Carlos Prats, ha tra l’altro incolpato come mandante Augusto Pinochet, ed avanzato al Cile una formale richiesta di estradizione.
Tra il maggio ed il luglio scorsi il dottor Salvini ha raccolto le deposizioni di diversi ex-terroristi di destra, tra gli altri di Vincenzo Vinciguerra e Pierluigi Concutelli. E’ in particolare dalle parole di Vinciguerra, sentito il 22 maggio 2002 nel carcere di Opera, che abbiamo la conferma testimoniale, già emersa nei documenti statunitensi declassificati, delle attività dei neofascisti italiani, soprattutto di Avanguardia Nazionale, arruolata in quanto tale dalla Dina cilena.
«Nel 1974 il principe Junio Valerio Borghese si recò in Cile e si incontrò con il generale Pinochet nell’ambito della comune strategia anticomunista. Ciò mi fu detto da Delle Chiaie il quale, nell’occasione, fu presentato a Pinochet dallo stesso Borghese. Il generale Pinochet passò la prosecuzione dei contatti con Delle Chiaie al responsabile della Dina, il colonnello Manuel Contreras». Così, secondo Vincenzo Vinciguerra, nacquero i primi rapporti ufficiali tra gli “avanguardisti” ed i massimi esponenti della dittatura cilena. Delle Chiaie e Pinochet si incontreranno in seguito anche altre volte, tra l’altro ai funerali di Franco in Spagna nel 1975, come risulta da documenti Fbi e dagli interrogatori di Piero Carmassi (altro esponente di An e guardaspalle di Delle Chiaie) e di Pierluigi Concutelli resi al giudice Salvini.
«Mi trattenni in Cile – ha proseguito Vinciguerra – dal giugno 1977 al maggio 1978… In Cile abitai con altri italiani, quasi tutti latitanti, nella villetta vicino ad Avenida de los dos Leones… Tuttavia potevamo anche frequentare un ufficio messo a nostra disposizione dalla Dina in Avenida Portugal… Le persone che abitavano in Avenida de los dos Leones… sono state talvolta in momenti diversi, oltre a me, Stefano Delle Chiaie, Maurizio Giorgi, Augusto Cauchi e un francese di nome Jean (identificabile in Jean Helmer che ha lavorato anche per il servizio segreto uruguaiano ndr)… Quando io sono arrivato Sandro Saccucci era andato via da quella villetta da alcuni giorni… Augusto Cauchi era impiegato presso la Dina nel reparto computer cioè la Brigata Informatica… Non ho conosciuto personalmente Manuel Contreras, posso tuttavia dire che Delle Chiaie partecipava alle riunioni con lui come se fosse anch’egli un ufficiale della Dina a tutti gli effetti».
Michael Townley, un cileno-americano agente della Dina, autore per sua stessa ammissione della bomba che nel 1976 fece scoppiare a Washington, a pochi isolati dalla Casa Bianca, l’auto su cui viaggiavano l’ex-ambasciatore cileno Orlando Letelier e la sua segretaria, svolse in questo quadro, a detta di tutti, funzioni da intermediario con i neofascisti di Avanguardia Nazionale, spostandosi a Roma nel luglio del 1975 per preparare l’attentato a Bernardo Leighton.

Spietati killer.
Numerose furono le “operazioni” che videro i neofascisti italiani nella veste di killer per conto delle dittature sudamericane, dei franchisti spagnoli e della Dina.
Stefano Delle Chiaie operò nel 1974 in Costa Rica contro la guerriglia comunista, altri di An intervennero a più riprese in Spagna contro l’Eta, sia per assassinare loro dirigenti che per imbastire provocazioni (Augusto Cauchi si rese tra l’altro protagonista del rapimento e dell’omicidio di un industriale cercando di far ricadere le colpe sui nazionalisti baschi). Stefano Delle Chiae, Augusto Cauchi, Piero Carmassi, Mario Ricci, Giuseppe Calzona e Carlo Cicuttini il 9 maggio 1976 parteciparono in Spagna, insieme ad altri neofascisti, all’assassinio a colpi di pistola di due giovani democratici a Montejurra nel corso di una manifestazione organizzata dal partito Carlista. Nessuno in Spagna ne rispose anche se, su questa vicenda, fu addirittura pubblicato un servizio fotografico con le immagini degli aggressori in azione.
Ma è il tentato assassinio di Bernardo Leighton (l’ex-vice presidente del Cile) e di sua moglie, a Roma il 6 ottobre 1975 (rimasero entrambi gravemente feriti), che vedrà tutta An, con il contributo di elementi di Ordine Nuovo, realizzare l’attentato mettendo a disposizione i propri uomini e le proprie sedi. Lo stesso Concutelli dirà a Salvini il 17 maggio 2002 che l’assassinio era stato «organizzato da Pinochet. Lo seppi da Delle Chiaie che affermava che Pinochet si stava “togliendo i sassolini dalle scarpe”».
Nel processo, tenutosi a Roma nel 1987, Delle Chiaie e Concutelli furono assolti per insufficienza di prove. Qualche anno dopo per gli stessi fatti, sempre davanti alla Corte d’Assise di Roma, Michael Townley venne condannato a 15 anni. Nel 1995, Manuel Contreras (il capo supremo della Dina) e Neumann Iturriaga (capo della sezione estera della Dina) furono invece condannati rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere. Ora, seppur a distanza di tempo, dopo gli interrogatori del giudice Salvini, il quadro si è completato.

Dopo tanti anni.
Mentre Pinochet viene in Cile ritenuto dalla Corte Suprema non più in grado, per “instabilità mentale”, di essere processato, Michael Townely ha invece assunto in Usa lo status di “testimone protetto”, dopo aver confessato l’assassinio di Orlando Letelier.
Sandro Saccucci vive a Cordoba in Argentina e fa ritorno in Italia per brevissimi periodi, Augusto Cauchi, indicato in un appunto sequestrato allo stesso Delle Chiaie come uno degli autori della strage dell’Italicus (4 agosto 1974, 12 morti), è rientrato in Italia solo nel dicembre 2001, dopo una latitanza di 17 anni, per poi ritrasferirsi subito in Argentina dove dirige una ditta di import-export. Piero Carmassi vive a Massa mentre Carlo Cicuttini è in carcere in Italia dal 2000 per scontare una condanna all’ergastolo per la strage di tre carabinieri a Peteano (31 maggio 1972). Altri sono morti, come Pierluigi Pagliai, a causa delle ferite riportate nel corso del suo arresto in Bolivia nel 1982, dove insieme a Delle Chiaie e al “macellaio di Lione”, il criminale nazista Klaus Barbie, addestrava strutture paramilitari e trafficava in coca.
Stefano Delle Chiaie, dopo 17 anni di latitanza ed essere “miracolosamente” passato indenne in tutti i processi che lo hanno visto sul banco degli imputati, ispira da dietro le quinte il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, gestisce l’agenzia di stampa “Publicondor” (un nome non certo scelto a caso) e si occupa di alcune trasmissioni in una rete televisiva privata a Lametia Terme.
Il tempo è passato e questi sono solo alcune dei nomi dell’”Internazionale nera” che in più di un continente ha lasciato dietro di sè il segno di indicibili crimini.
Saverio Ferrari (da Liberazione del 9 gennaio 2003)